Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

25 giugno 2014

"Sesso con i migranti in cambio dell`asilo" arrestato prete a capo della Caritas 
Trapani, a Sergio Librizzi contestati otto episodi Intercettato: "Sono uno che conta, tu che mi dai?" 
la Repubblica, 25-06-14
LAURA SPANÒ 
TRAPANI. «La mia vita è finita», ha detto quando si è trovato davanti gli agenti della sezione di polizia giudiziaria della Forestale 
che dovevano notificargli un ordine di custodia chiesto dalla procura. Don Sergio Librizzi, direttore-ormai sospeso - della Caritas trapanese, si stava preparando per celebrare la messa. Adesso è accusato di violenza sessuale e concussione. La città è sotto choc. Don Sergio è un`autorità nel campo dell`accoglienza e degli aiuti agli immigrati. Ormai da decenni. Ora gli contestano di aver preteso 
tangenti, sotto forma di rapporti sessuali, nella sua qualità di componente della commissione territoriale di Trapani per il riconoscimento della protezione internazionale. Un incarico che aveva avuto in rappresentanza del Comune di Trapani. «Era un componente supplente», 
tiene a precisare la prefettura, ma l`indagine della Procura di Trapani ha messo in evidenza che don Sergio «era un componente molto influente». Sono otto le persone che hanno ammesso di essersi rivolte al sacerdote per ottenere il nulla osta di rifugiato dalla commissione. E tutti e otto hanno ammesso di aver ceduto al ricatto sessuale. 
I primi episodi risalgono al 2009, l`ultimo a maggio scorso. «Io sono una persona importante - diceva lui, e non sospettava di essere intercettato - faccio parte della commissione, posso farti avere tutto facile o posso rendere tutto più difficile... tu che mi dai?». Parole ripetute anche in altre occasioni. Qualcuno non ha ceduto. Un iracheno ha raccontatodi essere fuggito via. «All`improvviso mi toccò nelle  parti intime e mi baciò sul collo». Un altro episodio sarebbe accaduto addirittura nei locali del Cie di Mio, il centro dove vengono trattenuti gli immigrati, durante una delle audizioni a cui vengono sottoposti i richiedenti lo status di rifugiato. Un interprete non poté fare a meno di notare un gesto curioso commesso dal sacerdote, una carezza e poi un dito poggiato sulla bocca di un tunisino. Infine, anche una sorta di palpeggiamento. 
Sesso e tangenti. Ma c`è anche il capitolo denaro. Durante la perquisizione, in canonica e nell`abitazione del sacerdote, è stato trovato denaro contante che don Librizzi teneva ben nascosto, sembra in uno dei contenitori usati per la raccolta delle offerte. Tante offerte. Oltre al denaro sono saltati fuori incartamenti relativi alla gestione di alcune cooperative di lavoro. Erano custodite nei locali di Villa  Sant`Andrea, a Valderice, una struttura messa a disposizione dalla diocesi per l`accoglienza agli immigrati. Poi è iniziata la perquisizione della canonica della Chiesa di San Pietro, don Sergio era li da circa un anno. Dagli uffici sono stati portati via computer e stampanti. 
L`atto d`accusa dei pubblici ministeri Paolo Di Sciuva, Andrea Tarondo e Sara Morri dice che vittime sono giovani maggiorenni  stranieri, ma anche un italiano. I rapporti venivano consumati nell`auto del sacerdote. «Facendo pesare il proprio ruolo in commissione - dice il procuratore capo Marcello Viola - avrebbe compiuto una serie di abusi sessuali costringendo i destinatari a prestazioni sessuali lasciando intendere di poter agevolare od ostacolare il riconoscimento dell`asilo. Un comportamento che assume particolare gravità per la posizione di dominio che esercitava su soggetti deboli per estrazione e provenienza». 
Dalla Curia fanno sapere che don Librizzi è stato «sollevato da tutti gli incarichi pastorali» in attesa che la magistratura faccia il suo corso. 
 
 
 
Favori sessuali in cambio di asilo Prete arrestato
La Stampa, 25-06-14
Rino Giacalone
Favori sessuali come tangenti. In cambio c’era il nullaosta come rifugiato politico. Violenza sessuale, concussione e tentata concussione le accuse che ieri hanno condotto in carcere a Trapani un prete, il direttore della Caritas diocesana, don Sergio Librizzi, 58 anni.  
È stato arrestato dagli agenti della sezione di polizia giudiziaria della Forestale che per mesi lo hanno intercettato. Don Librizzi era tanto riconosciuto come «autorità» nel campo dell’accoglienza da essere nominato rappresentante del Comune di Trapani nella commissione prefettizia che concede agli immigrati l’asilo politico. Incarico tuttora mantenuto. E sfruttando questo incarico avrebbe agito per le sue malefatte. Prove schiaccianti contro di lui. Intercettazioni, ma non solo. Nell’ordinanza di 400 pagine sono riportate anche incredibili scene boccaccesche. A completare anche i racconti di chi per ottenere lo status di rifugiato ha detto di avere dovuto «offrire» la propria mano al sacerdote o di avere dovuto «accettare» la sua. Sono otto le violenze sessuali contestate, le vittime tutti uomini e maggiorenni. Episodi iniziati nel 2009, l’ultimo è del maggio scorso.  
Il sistema per carpire «obbedienza» era sempre lo stesso: «Io sono una persona importante, faccio parte della commissione… posso farti avere tutto facile o posso rendere tutto più difficile… tu che mi dai?». C’era chi acconsentiva. C’è stato chi è fuggito via. O chi è stato trovato in stato confusionale: «Sono andato a chiedere una coperta a don Sergio e mi ha violentato». Fin troppo spavaldo in un’occasione don Sergio non avrebbe mancato di fare esplicite avances sessuali nei confronti di un tunisino, testimone una interprete. Gli sono stati sequestrati pc e denaro. È finita trascritta anche la parte finale di una telefonata con un ignoto interlocutore (nulla a che vedere con l’indagine) durante la quale don Sergio si è palesato interessato alla politica: «D’Alì ci vuole mettere la Cardinale? Minchia». Don Sergio si occupava anche di politica e questo lo avrebbe portato nella commissione: pare designato a suo tempo dal sindaco di Trapani Mimmo Fazio (Pdl). Don Sergio Librizzi era stato avvertito da un altro prete trapanese, don Piero Messana: «Devi guardarti dal di dentro Sergio… c’è gente che dice cose e le giura pure». Lui rispondeva con sfottò: «Minchia, allora sistemato sono… veramente». Il vescovo Fragnelli da poco a Trapani ha sospeso don Librizzi da ogni incarico. 
 
 
 
Bari, lettera dalla ex Casa del rifugiato
Cronache di ordinario razzismo, 24-06-14
Dal 12 febbraio vivono nella ex Casa del rifugiato, una struttura della Direzione Regionale per i Beni Culturali, da vent’anni in stato di totale abbandono.
Sono una cinquantina di richiedenti asilo che, allontanati dal Cara a causa dell’insufficienza di posti letto, in mancanza di accoglienza si sono organizzati da soli (ne abbiamo parlato qui).
Una situazione provvisoria, in attesa di un percorso di accoglienza che però stenta a partire. Al contrario, ai richiedenti asilo presenti nella ex Casa del rifugiato è stata anche tolta la corrente elettrica, incrementandone la precarietà.
Contro questa situazione, dopo l’occupazione dell’edificio i migranti hanno organizzato mobilitazioni e scritto lettere alle istituzioni locali, cercando di mantenere viva l’attenzione e chiedendo un cambiamento reale nella gestione dell’accoglienza.
Solo ieri, dopo quindi quattro mesi, i migranti sono riusciti a incontrare il Capo dell’Ufficio immigrazione della Prefettura e subito dopo il sindaco di Bari Antonio Decaro, cui hanno consegnato una lettera. Chiedono il rilascio della residenza, così da consentire il rinnovo dei permessi di soggiorno; servizi di base, e l’individuazione di un immobile di proprietà comunale come valida alternativa alla ex Casa del rifugiato.
Pubblichiamo di seguito la lettera, segnalando anche altri documenti prodotti dai richiedenti asilo in questi mesi, e rimasti senza risposta, almeno fino a oggi (qui la richiesta consegnata a aprile alla Prefettura, qui le motivazioni delle proteste dei mesi scorsi).
Al Prefetto e Sindaco di Bari
Cari e care,
come abitanti della Casa del Rifugiato sul lungomare di Bari abbiamo deciso di scrivere questa lettera per informarvi della nostra situazione attuale e di come le Istituzioni non hanno risposto alle nostre richieste e disatteso qualsiasi promessa. Per vivere all’interno della Casa al momento non abbiamo us…ufruito di nessun servizio sociale basilare in quanto rifugiati politici, ma ancora prima in quanto persone:
1. Elettricità
2. Acqua
3. Servizi igienici, quali bagni e docce
4. Residenza
Da quando siamo entrati in questa struttura (11 febbraio 2014), dopo qualche giorno è stata disconnessa la corrente elettrica. Dopo quattro mesi, come Istituzioni non solo non avete garantito nulla, ma addirittura ci avete tolto quel minimo che avevamo trovato all’interno dell’edificio.
Però non ci siamo arresi. Abbiamo organizzato diverse manifestazioni e scritto altre lettere per chiedervi tutto questo. Nel frattempo abbiamo deciso di provvedere direttamente in prima persona e così crearci un’abitazione dignitosa. Abbiamo creato delle stanze per dormire e per rispondere alle esigenze di vita quotidiana grazie al riuso di mobilio e arredamento.
Grazie alla solidarietà di collettivi e gruppi di cittadini abbiamo:
- creato una fonte idrica per accedere all’acqua
- comprato un generatore per la corrente elettrica
- frequentato un corso di italiano presso l’università di Bari
- creato uno sportello settimanale per risolvere tutte le problematiche riguardo i documenti.
Per rendere possibile tutto questo abbiamo costituito un Comitato e una Cassa per affrontare le spese generali grazie all’organizzazione di pranzi e cene, feste e serate di solidarietà.
Problema residenza e rinnovo permesso di soggiorno. A causa di alcune leggi ingiuste ci siamo accorti che per molti di noi è quasi impossibile ottenere la Residenza e il rinnovo del Permesso di soggiorno. Il Comune di Bari non rilascia la residenza se non si ha un documento valido o un foglio che attesta l’attesa del documento. In Questura invece non avviano la pratica del rinnovo del Permesso di soggiorno se non si ha una residenza. Tutto questo è impossibile da sopportare perché non ci permette di fare nulla, nemmeno di trovare un lavoro il più regolare possibile.
Per queste ragioni che riguardano anche tanti altri fratelli che sono all’interno del Cara di Bari o stazionano per strada, abbiamo deciso di manifestare lunedì 23 giugno dalle h 9 davanti alla Prefettura di Bari e richiesto di incontrare il Prefetto e il Sindaco.
 
 
 
"Confessioni di un trafficante di esseri umani", "Realizzo sogni, sono come Mosè" ma gli scafisti sono solo pedine
Il libro edito da (Chiarelettere, 2014) del giornalista Giampaolo Musumeci e di Andrea di Nicola, docente di criminologia, che hanno intervistato chi controlla e realizza gli affari - da 3 a 10 miliardi di dollari all'anno - che si muovono dietro un network globale che lucra sulla necessità di spostamento di persone, imposto da guerre calamità, assenza di diritti, violenze. "Lo scafista è solo la punta dell'iceberg"
La Repubblica.it, 25-06-14
STEFANO PASTA
MILANO - In tempi di sbarchi, lo scafista è spesso descritto come il male assoluto, il colpevole dei viaggi della morte. Dategli addosso e risolveremo il problema. E daremo giustizia ai naufraghi, agli scomparsi, a chi ha pagato consapevolmente un servizio conoscendone i rischi, a chi si è indebitato per fuggire senza sapere nulla, a chi non aveva scelta. Insomma, un po' a tutti. E se provassimo a cambiare prospettiva?
La maggiore agenzia viaggi mondiale. Per esempio assumendo quella dei passeur della più grande e più spietata "agenzia viaggi del mondo", che offre "pacchetti" diversi a seconda delle esigenze del "cliente". Il tutto ha alle spalle un network criminale organizzato, che, secondo l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, intasca proventi tra i 3 e i 10 miliardi di dollari l'anno, un traffico secondo solo a quello della droga.
Il realizzatore di sogni. Kabir, pakistano che non vuole essere chiamato "trafficante" ma "mediatore", riassume così la sua attività nelle campagne laziali: "Tutti vogliono venire in Italia. Io aiuto le persone... realizzo sogni. Intere famiglie contribuiscono al viaggio, spesso vendendo tutto quello che possiedono". Lui ha guadagnato 600.000 euro in sei mesi, foraggiando un indotto di agricoltori italiani che chiedevano il visto di ingresso per finti lavoratori stagionali delle montagne del Pakistan. "Io non faccio nulla di male, anzi faccio solo del bene, anche a voi italiani, e in più aiuto tanti onesti pachistani che vogliono venire in Europa in cerca di fortuna".
Il Mosè siberiano. Aleksandr, trafficante che negli anni Novanta veleggiava a Vladivostok con gli yacht dei primi russi arricchiti, sceglie addirittura un modello biblico: "Mosè per me è stato il primo scafista della storia! E io sono come lui, come Mosè!". Ora è in un carcere italiano dove sta dipingendo un ritratto a olio di Falcone e Borsellino: ci è finito dopo un viaggio organizzato dalla criminalità turca. È stato contattato perché aveva postato un annuncio di lavoro sul web e il primo colloquio per l'"assunzione" è avvenuto via Skype (meno tracciabile dei cellulari). La promessa di un ricco compenso, il trasferimento a Istanbul in un albergo pagato dall'organizzazione, fino al giorno in cui raccoglie con un gommone 31 migranti iracheni e afghani nascosti tra i cespugli dell'isola greca di Leucade per portarli fino in Puglia. Durante tutto il viaggio, riceveva ordini e coordinate via telefono satellitare. Da chi? Se lo sapesse, ora lo direbbe volentieri alla magistratura. Se Aleksandr è stato arrestato subito dopo il primo viaggio, Emir, tunisino dell'isola di Kerkenna, 64 miglia da Lampedusa, non ricorda quanti ne ha fatti con il suo peschereccio.
Lo scafista è la punta dell'iceberg. Sono alcune delle storie raccontate nel libro Confessioni di un trafficante di uomini (Chiarelettere, 2014) del giornalista Giampaolo Musumeci e di Andrea di Nicola, docente di criminologia, che hanno intervistato chi controlla e realizza lo smuggling, il traffico d'uomini. "Lo scafista - spiegano - è solo la punta dell'iceberg. A volte, lui stesso è un migrante che si ripaga il viaggio mettendo a frutto presunte doti di skipper. A volte è un piccolo criminale, altre un medio delinquente. Dietro di lui c'è un network globale che lucra sulla necessità di spostamento delle persone, spostamento che non può avvenire legalmente". Una rete flessibile e fluida, che non segue il modello monolitico delle mafie italiane, ma si ristruttura velocemente: sventata una rete, se ne crea subito un'altra. Il business si costruisce sulla fiducia e sulla parola data; la creatività, l'astuzia e l'adattabilità sono doti apprezzate per gli aspiranti trafficanti.
I reclutatori. Anche il reclutamento è una fase gestita dalle reti criminali. Spiegano gli autori: "Pure nei più piccoli e sperduti villaggi tra Afghanistan e Pakistan, quando una persona vuole partire, sa perfettamente a chi rivolgersi. Basta spargere la voce". El Douly, egiziano, racconta: "All'inizio della mia carriera ero io a cercare chi volesse partire. Ora sono cresciuto nel mio business ed è la gente a cercarmi. Nei piccoli villaggi dell'Egitto i giovani hanno bisogno di me". Gli fa eco il collega Ohran, trafficante turco: "I clienti arrivano con i soldi, hanno in tasca 5-7000 dollari. I gestori del reclutamento ne tengono per sé 2000 a cliente. I restanti servono per pagare il capo, ma dovranno essere versati una volta che i clienti arrivano a destinazione".
I pesci grossi. Dietro ogni migrante che arriva in Italia, c'è quindi un ricco imprenditore che ha intascato dai 1000 ai 10.000 euro. Come il croato Josip Lonari, che negli anni Novanta controllava il 90% degli ingressi illegali di cinesi in Italia, o il curdo Muammer Küçük, che dal bazar di Istanbul gestisce traffici in tutta Europa, o il missionario congolese P. M., che ha una chiesa protestante nella capitale dell'Uganda e che, dietro lauto compenso, fa avere i documenti dell'Unhcr necessari per andare in Europa.
 
 
 
Voci e Riflessioni dalla Marcia per la Libertà - Il comune non vuole confini
Melting Pot Europa, 25-06-14
Mauro Pizziolo
La “Freedom March” è entrata lo scorso 20 giugno a Bruxelles, meta di un cammino di 500 km iniziato lo scorso 18 maggio a Strasburgo. Nel corso di un mese, 200 fra migranti, sans papiers, rifugiati e richiedenti asilo hanno attraversato senza documenti - e quindi in aperta violazione delle restrizioni a loro imposte - le forntiere di Francia, Germania, Lussemburgo e Belgio, con il fine politico di rivendicare per tutti la libertà di movimento verso e all’interno di un’Europa senza confini. Maturata nel corso di precedenti meeting internazionali dall’incontro e dalla messa in comune delle istanze delle lotte per i diritti dei migranti in diversi paesi europei, la Freedom March ha come destinazione finale “ideale” il Summit europeo sulle politiche delle migrazioni in programma il 26 giugno nella capitale belga.
Circa a metà del suo percorso la marcia è entrata nel territorio del Granducato di Lussemburgo passando per la frontiera di Schengen, luogo fortemente simbolico rispetto alle rivendicazioni dei migranti. Gli accordi che dal villaggio lussemburghese prendono il nome sanciscono, oltre all’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere dei paesi aderenti, il correlativo rafforzamento delle frontiere esterne della Zona Schengen, appunto, e quindi la nascita di “Frontex”. Sugli effetti devastanti prodotti da Frontex non è necessario dilungarsi; basti citare le quasi 20 000 morti avvenute dal ‘95 a largo di coste e isole divenute pietre tombali di un cimitero immenso - il Mediterraneo - e la vita di intere comunità di confine sconvolte dalla militarizzazione invasiva predisposta da centri di potere lontani.
Potremmo elencare una serie di dati agghiaccianti, di leggi e politiche infami, ma qui cercheremo piuttosto di rendere un quadro d’insieme, chiedendoci cosa avviene provando a ribaltare il punto di osservazione di questi fatti e scegliendo la soggettività della narrazione piuttosto che l’oggettività della cronaca. Abbiamo raccolto testimonianze di questa moltitudine in cammino, che saranno l’ancoraggio di una riflessione che mira a rendere le molteplici istanze di chi “si mette in marcia” e che speriamo possa contribuire a gettare luce su convergenze con altri percorsi di lotta in seno all’Europa.
In questo approccio rileviamo da subito uno degli effetti più immediati delle frontiere, che gli stessi migranti ci impongono di assumere: la differenza fra cittadino europeo e migrante, sans papier o rifugiato. Questa “consapevolezza di sè” rimanda in qualche modo ad un “privilegio epistemico” dei soggetti marginalizzati, che in quanto tali sono coscienti più di altri delle ipocrisie e delle mistificazioni del sistema che li opprime. Questa istanza è oggi una rivendicazione chiara e netta dei migranti in marcia.
“Siamo i rifiuti del capitalismo. [...] Lo capisco guardando l’insieme delle cose: scappiamo da zone devastate dalle guerre o dal saccheggio di imprese capitalistiche occidentali e quando arriviamo qui, senza documenti, non siamo accettati per quello che siamo, ma dobbiamo “funzionare”, seguire direttive, dare prova di qualcosa... [...] “Noi Europei vogliamo avere questo standard di vita” sembrano dirti alle frontiere. Se passi le frontiere, dovrai affrontare l’isolamento e le procedure per la richiesta di asilo, subendo tutto il razzismo di questa politica: selezionano i migranti in base a quanto possono essere integrati al sistema e se non “funzioni”, allora ti deportano. E allora capisci perchè siamo i rifiuti del capitalismo.” (Amir, Freedom March, Beauraing)
“Sono gli europei che hanno legato la loro storia alla nostra. Chi ci ha guadagnato fra Africa ed Europa? Ora siamo qui in Europa come rifugiati. Bisogna che il mondo intero sappia che non abbiamo lasciato le nostre case perchè lo volevamo, ma in conseguenza degli interventi di europei nei nostri territori. E questa storia continua.” (Armand, Freedom March, Schengen)
Le lotte anticolonialiste e l’epistemologia post-modernista dimostrano come la dominazione coloniale abbia fatto leva, oltre che sulla violenza militare, soprattutto su una rappresentazione del colonizzato forgiata in una dialettica di superiorità/inferiorità rispetto al modello del colonizzatore europeo. Possiamo affermare che il colonialismo corrisponde ad una fase espansiva del capitalismo intesa come riproduzione su scala mondiale di relazioni di dominio e sfruttamento, normalizzate dalla diffusione capillare di queste rappresentazioni. Nel momento in cui queste rappresentazioni formano dall’interno le soggettività di colonizzati e colonizzatori, il colonialismo si pone come processo produttivo biopolitico. Queste rappresentazioni sopravvivono nello scenario post-coloniale; ne siano la dimostrazione l’egemonia nelle gerarchie di potere globale di modelli occidentali, quali la famiglia nucleare eterosessuale, lo stato-nazione, il capitalismo, la proprietà privata, come anche l’articolazione dell’economia di paesi periferici nel Sud del mondo intorno a centri di accumulazione al Nord. Il razzismo non è uno sciagurato “effetto collaterale” della modernità, ma la caratteristica essenziale di una colonialità del potere che permea rapporti di forza, relazioni sociali, istituzioni, apparati amministrativi e coscienze, identità, vite intere; generazioni di vite. I “popoli senza storia”, silenziati nella narrazione della modernità occidentale, hanno quindi contribuito in maniera attiva alla definizione di forme sociali e culturali europee. Non c’è “sviluppo” senza sfruttamento, come non c’è “modernità” senza dominio. Questo ci permette di inquadrare le rivendicazioni dei movimenti per i diritti dei migranti in Europa come lotte sul terreno della produzione biopolitica del comune, dentro e contro le forme del capitalismo estrattivo. In questo senso, cittadinanza e frontiere funzionano come dispositivi disciplinari, nella misura in cui normalizzano relazioni di dominio e regolano la participazione alla vita sociale e alla riproduzione biopolitica, la precarizzazione o l’esclusione da essa dei soggetti a cui si applicano; gli effetti di questa esclusione sono reali fino alle estreme conseguenze. Così per migranti, sans-papier e richiedenti asilo.
“Mantenere la tensione alta sui rifugiati, sui migranti, sul “diverso” serve a mantenere un sistema di assoggettamento. Ci sono persone che attraversano frontiere, che rischiano la vita, che perdono la vita per raggiungere l’Europa. E a quel punto inizia per loro il vero incubo: un peregrinare continuo fra centri di detenzione, carceri, controlli di polizia, lagers, istituti di residenza...e quindi discriminazione, ghettizzazione, esclusione sistematica. E non piace il fatto che esista un movimento di rifugiati coscienti di sè che si auto-organizza. Ai politici non piace quando queste persone si liberano contando sui propri mezzi, parlando coi propri messaggi, con le proprie parole, perchè traggono profitto da questo sistema di oppressione, traggono profitto da Fortress Europe. Questa è chiaramente un’eredità colonialista, è una mentalità colonialista, è una logica di sfruttamento capitalista.” (Nadja, Freedom March, Steinfort)
“Quando parli della tua sofferenza, quando la accetti, la riesci a condividere...ti accorgi, ad esempio in questa marcia, che ci sono persone che vengono da regioni e culture diverse, che parlando di se stesse sono arrivate ad unirsi e a lottare insieme per cambiare le cose. E’ nell’azione stessa che pratichiamo e produciamo l’alternativa: viviamo insieme, ci autogoverniamo senza alcun bisogno di essere controllati. Possiamo vivere quest’alternativa dapprima accettando la nostra condizione[...]. Se un’azione è rivoluzionaria lo si osserva nella pratica in cui questa nasce. [...]. Attraversare la frontiera, forzarla o romperla, significa proclamare la nostra libertà di movimento, ma soprattutto viverla, agirla. Se lo fai con una struttura già esistente allora non funziona. L’alternativa viene dallo stare insieme, dal basso, dal condividere, dal mettere in comune liberamente sogni, desideri, bisogni...” (Amir, Freedom March, Beauraing).
Le forme e le esperienze del comune hanno in oggetto la gestione di risorse naturali vitali, i beni comuni, secondo processi di partecipazione collettiva organizzata in strutture orizzontali, in risposta a schemi di “accumulazione per espropriazione” di matrice neoliberista. Il paradigma della gestione partecipativa ha influenzato molte aree disciplinari e prodotto (fra altro) pratiche di amministrazione locale, di rappresentazione geografica ed etnografica, di pianificazione sociale...Nel quadro della produzione biopolitica, il comune si configura piuttosto come il prodotto sociale di singolarità autorganizzate che si costituisce intorno a pratiche di condivisione, cooperazione e comunicazione eccedenti il controllo capitalistico. Il marginalizzato, il migrante, il sans-papier che si ribella, rimanda al mittente discriminazione e ghettizzazione, intimidazione e vessazione; il suo desiderio di libertà illumina i meccanismi subdoli dell’assoggettamento e ne rompe la dialettica. Riconoscendo il proprio isolamento, a partire da questo e accogliendo la sofferenza che esso comporta, diverse singolarità si costituiscono come moltitudine in movimento, dotandosi di forme organizzative e di linguaggi che veicolino processi costitutivi di soggettività “altre” in percorsi alternativi. I “marcheurs” rivendicano il diritto a “divenire” nella moltitudine, ad “essere moltitudine” per poter interagire con altre singolarità in uno spazio comune e senza confini. Questa forza dirompente e rivoluzionaria scaturisce dalla messa in comune di desideri e bisogni di soggettività marginalizzate, le cui rivendicazioni, per quanto immaginate, sognate e immateriali sono imminentemente corporee. Frequentando gli accampamenti che di giorno in giorno cambiavano posto, abbiamo potuto osservare processi partecipativi operare verso il più ampio coinvolgimento possibile delle singolarità e al tempo stesso verso il coordinamento collettivo delle azioni e delle rivendicazioni della marcia. La vitalità, l’immediatezza e la spontaneità di ogni azione decisa collettivamente, si costituiscono di condivisioni gestate in una comunicazione corporea che ogni struttura pre-esistente avrebbe tentato di captare finendo per eusaurirla. Di qui, la necessità di una non-mediazione sul piano mediatico e un rifiuto della rappresentanza o di ogni altra forma di patrocinio ...“La novità, il cambiamento, la notizia sono prodotte dai soggetti che assumono la propria condizione. Loro stessi sono la novità; lo sono nell’azione, quando praticano vie alternative. Il media più vicino a loro, sono loro stessi. Se accettano di essere i media di se stessi non c’è più bisogno della forma in cui i media tradizionali si organizzano” (Amir).
“Il cittadino è un prodotto dello stato, ne costituisce il potere...come cittadini europei noi possiamo lavorare ovunque, consumare ovunque, possiamo viaggiare in tutto il mondo [...] Come i rifugiati devono auto-organizzarsi, rompere l’isolamento dei centri di detenzione, della discriminazione, della repressione, anche noi, come cittadini, dobbiamo rompere quest’isolamento rompendo i nostri pregiudizi, i nostri previlegi...andare incontro e toccare i problemi, toccare le persone e capire che la propaganda di stato categorizza i rifugiati privandoli della loro umanità: sono rifugiati, una categoria “intoccabile”. Sono come noi, è vita ordinaria, non è un miracolo. Questo la gente deve capire. Quando la gente lo capirà allora lo capiranno anche i governi. E allora tante cose cambieranno anche per me, come cittadina, perchè apriremo così tante porte che la rivoluzione entrerà inevitabilmente” (Nadja, Freedom March, Steinfort)
“Non lo so, condividere il dolore non è una cosa facile. In genere quando voglio comprendere il dolore di qualcun altro mi riferisco al mio e forse allora capisco la sensazione; ma toccare esattamente quello che tu senti come dolore non è così facile. Ma si può condividere la rabbia, l’indignazione...e così camminiamo insieme a “cittadini” che condividono questa rabbia e sicuramente questo comporta un andare oltre l’idea di cittadinanza così come si è abituati a sentirla....Non direi che questa marcia da sola possa costituire un esempio di rivoluzione o di società...ma la solidarietà aiuta le rivoluzioni. Quindi, se mettiamo queste alternative in pratica, e marciamo per la libertà di tutti...” (Amir, Freedom March, Beauraing)
« La mobilitazione per i diritti dei migranti assume, nel corso del XXI secolo, una portata paragonabile a quella che poteva essere, ai suoi tempi, la campagna per l’abolizione della schiavitù »
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Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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