Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

01 dicembre 2014

Triton e Mare Nostrum, in un mese 10mila salvati
Avvenire, 01-12-14
Nello Scavo
Nel quartier generale di Frontex, a Varsavia, ne erano sicuri: con l’avvio di Triton sarebbero calati gli sbarchi dei migranti, attirati in Europa dall’operazione Mare Nostrum. Ma a un mese dall’avvio della missione europea, per la prima volta l’agenzia Ue per le frontiere ammette: «A causa delle guerre i profughi aumenteranno». La previsione secondo cui sarebbero diminuite le traversate è stata smentita dai fatti: quasi 10mila persone soccorse e tratte in salvo nel Canale di Sicilia. Ma c’è un numero che non viene ufficializzato. Se è vero che Mare Nostrum non ha del tutto abbandonato il campo, provocando non poche tensioni con Frontex, nella sola area di pattugliamento ridotto dei mezzi di Triton sono state trasbordate 2.700 migranti, quasi un terzo del totale.
Una cifra che solo in apparenza darebbe ragione ai detrattori di Mare Nostrum. Perché Triton, con soli sei mezzi navali che si alternano su turni garantendo la presenza in mare di un paio di natanti per volta, ha fatto in proporzione molto di più di quanto non avvenga con le 22 navi messe a disposizione dall’Italia.
Negli ultimi 10 giorni sono stati soccorsi in totale 5.100 migranti. E secondo l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) almeno 18 profughi nello stesso periodo hanno perso la vita in mare. «È ancora difficile valutare quale impatto potrà avere la fine di Mare Nostrum sull’efficacia delle operazioni di ricerca e soccorso in mare, ma – afferma il Capo Missione dell’Oim in Italia, Federico Soda – siamo convinti che sia necessario che il Mediterraneo continui a essere pattugliato come fatto finora, sia in termini di mezzi sia geograficamente, per evitare che aumenti il numero di dispersi».
Nel mese di novembre sono comunque stati arrestati 32 scafisti e 7 carrette del mare sono sotto sequestro. Dall’1 novembre sono giunte 16 richieste di soccorso a cui hanno risposto le unità di Frontex. Fin dall’inizio dell’operazione, si sono susseguite quotidianamente le richieste di intervento avanzate al centro di coordinamento della missione Frontex da parte delle Capitanerie di Porto per barconi in difficoltà nello spazio di mare a 50 miglia dalla Libia, ben al di fuori, dunque, dell’area di competenza. E ciò rende problematico assolvere il compito dell’operazione Frontex che è quello di controllare le frontiere marittime comunitarie.
In un documento gli analisti di Frontex ammettono senza girarci attorno che in maggioranza si tratta di profughi spinti alla fuga dalle crudeltà commesse in «Mali, Africa Occidentale, dalla crisi di Gaza, e poi Siria e Iraq, che si sono rivelati una miniera d’oro per i trafficanti». Una soluzione «potrebbe essere quella di stabilire degli accordi con la Libia», spiegano da Varsavia, «come accade con paesi come Marocco e Senegal». Un miraggio: «Vi sono scarse prospettive di un’intesa con Tripoli – si legge in un memorandum di Frontex –, dato il caos in corso lì; e con le perduranti crisi militari in Medio Oriente, la marea di migranti nel Mediterraneo centrale è certo che andrà ad aumentare». Del resto, sempre secondo gli analisti di Frontex, solo sulle coste libiche, si conta «un minimo di quattromila persone pronte a partire ogni settimana». In proiezione, più dei 160mila già sbarcati negli ultimi 12 mesi.



“Bologna peggio di Reggio Calabria” Ecco la mappa del rischio-banlieue
Conflitti sociali, studio della Fondazione Moressa
Emergenza anche a Milano, Genova e Roma
la Repubblica, 01-12-2013
Vladimiro Polchi
ROMA Bologna è più pericolosa di Reggio Calabria. Milano di Napoli. La mappa del rischio banlieue disegna un’Italia sottosopra, con le città del Nord più “calde” di quelle del Sud.
A classificare i comuni italiani sull’orlo del conflitto sociale è la fondazione Leone Moressa, che incrocia tre fattori di rischio: la marginalità socio-economica degli stranieri (concentrazione in periferia, disoccupazione, diseguaglianze di reddito), i livelli di criminalità e la spesa pubblica per l’integrazione. Il risultato? Bologna è il comune più a rischio. Forte la differenza di reddito tra italiani e stranieri (oltre 11mila euro nel 2013). Abbastanza alti il tasso di delittuosità (66 arrestati ogni mille immigrati residenti) e la percentuale di detenuti stranieri sul totale (51,5%). In netto calo, invece, la spesa pubblica per l’immigrazione. Al secondo posto Milano, città con la più alta presenza straniera (17,4%) e concentrazione di immigrati in periferia (il 95% vive qui). Anche il tasso di detenuti stranieri è molto alto (61,3%). Pur avendo una spesa per l’immigrazione di 13,5 milioni, il grande bacino di utenti determina un spesa pro-capite tra le più basse (82 euro). Ma il valore che pesa di più è la differenza di reddito tra italiani e stranieri (11.300 euro). La terza città a rischio è Genova. Anche qui il differenziale di reddito è molto alto (10mila euro). Forte pure il tasso di delittuosità (ogni mille immigrati, ne vengono arrestati 102) e il livello di detenuti stranieri (54,1%). A incidere è soprattutto la spesa per immigrato: con 46 euro rappresenta il valore nazionale più basso. A chiudere la classifica delle quattro città più a rischio è Roma, sia per le alte diseguaglianze di reddito, che per i reati degli stranieri.
Tre città presentano un livello di rischio vicino tra loro: Venezia, Torino, Firenze. In questi capoluoghi le differenze di reddito non sono molto alte. A Torino, in particolare, è forte la concentrazione degli immigrati in periferia (93,9%), ma bassa la percentuale di detenuti stranieri (41%). Venezia è la città con il più basso tasso di delittuosità degli immigrati (53 ogni mille residenti). Firenze è quella con la più bassa concentrazione in periferia (76,1%).
Le tre città meno a rischio sono al Sud, caratterizzate anche da una bassa incidenza di stranieri sulla popolazione residente. A Reggio Calabria è alta la spesa per l’integrazione sul totale della spesa per assistenza sociale (il 9,9%). Napoli ha una bassissima percentuale di detenuti stranieri (9%). Infine Bari, pur avendo un alto tasso di delittuosità (140 per mille), presenta la più alta spesa procapite per l’immigrazione (521 euro).
In conclusione, secondo i ricercatori della Moressa, «laddove si riscontra una forte concentrazione in periferia, forti differenze di reddito rispetto agli italiani, alti tassi di disoccupazione, alti tassi di criminalità e scarsi investimenti pubblici a favore dell’integrazione, si crea inevitabilmente terreno fertile per situazioni di disagio e conflitto».



«Amore, cucina e curry»
Corriere della sera, 01-12-2014
Gabriella Kuruvilla
Dicevano che, se avessi sposato un uomo indiano, la mia vita sarebbe diventata un inferno. Quella privata, soprattutto. Perché, dicevano, per l’uomo indiano la moglie è essenzialmente una colf, ovvero un’addetta alle cura della sua casa, una badante, ovvero un’addetta alla cura della sua persona e una baby-sitter, ovvero un’addetta alla cura dei suoi figli. Nel caso li avesse avuti, s’intende. Ma dicevano anche che, nel caso non li avesse avuti, avrebbe chiesto il divorzio. E, mentre dicevano queste cose, non potevo fare a meno di notare che, davanti ai sostantivi “casa”, “persona” e “figli”, usavano gli aggettivi “sua” e “suoi”, come a specificare che l’unico detentore di quelle tre entità sarebbe stato lui: il che ovviamente andava benissimo per la persona, ma un po’ meno per la casa e per i figli. A dire queste cose erano i miei parenti (tutti), i miei amici (tutti) e pure i miei conoscenti (tutti). Tra loro non c’era nemmeno qualcuno o qualcuna che queste cose non le dicesse: mancava, dunque, l’eccezione che conferma la regola. E questa era la mia unica consolazione. Magra, ovviamente. Così, con la conseguente serenità d’animo, avevo sposato un uomo indiano.
«Ti chiederà di convertirti», dicevano tutti. «È agnostico, come me», rispondevo. All’inizio provocatoria e alla fine annoiata. Tutti mi guardavano, esterrefatti. E non dicevano più niente. Al massimo buttavano lì un «Ah!» di stupore o un «Davvero?» di incredulità. Molti pensavano che io mentissi, probabilmente. Peccato però che le nostre famiglie fossero cattoliche: e loro, al matrimonio in chiesa, io con l’abito bianco e lui con il completo blu, ci tenevano. E così è per loro, che l’abbiamo fatto. Comunque la location, cioè la chiesa, e il look, cioè l’abito bianco io e il completo blu lui, ci piacevano. Le vere difficoltà, però, sono arrivate dopo il viaggio di nozze. Quando abbiamo iniziato ad abitare insieme. Anche se io avrei dovuto capirlo prima, che non tutto sarebbe filato liscio. Per la precisione, avrei dovuto capirlo quando andavamo a cercare gli arredi, gli oggetti e i rivestimenti per la casa. E a lui andava bene qualsiasi cosa io proponessi: dai sanitari per il bagno al letto per la camera, dalle piastrelle per il corridoio alla tappezzeria per il ripostiglio, dal divano per il salotto alla scrivania per lo studio, dall’amaca per la terrazza all’attaccapanni per l’ingresso.
Ma, per quanto riguardava la cucina, voleva sempre avere l’ultima parola. Insomma la casa no, ma la cucina sì: era solo sua. Alla fine, l’ha attrezzata come quella di un ristorante italo-indiano: infatti ci si può trovare tutto quello che c’è nella cucina di un ristorante italiano più tutto quello che c’è nella cucina di un ristorante indiano. E non sto parlando solo degli alimenti, tipo gli spaghetti o il riso biryani, e degli utensili, come lo scolapasta o il karhai (una particolare padella che si usa per le fritture), ma anche dei mobili. Che, comunque, sono enormi: è enorme il forno, sono enormi i fornelli, è enorme la lavastoviglie, è enorme il frigorifero, è enorme il lavandino ma è enorme anche il tandoor (per fortuna nella sua versione moderna che, invece di essere simile a una giara in terracotta funzionante a carbone o a legna, è più associabile a una pentola a pressione in metallo) ed è enorme pure la tawa, (la piastra di ferro che gli serve per cuocere il chapati o il paratha, due particolari tipi di pane). E, infine, è enorme anche il lunghissimo e larghissimo piano di lavoro. Inoltre, quasi tutto è in acciaio: modello sala operatoria. Così, la prima volta che abbiamo cenato in cucina, invece di chiedergli «Mi passi il coltello?» gli ho domandato «Hai mica un bisturi da darmi?». Ma lui non ha trovato la mia domanda divertente.
Quello che nessuno mi aveva detto è che l’uomo indiano (almeno quello che ho sposato io) ha un senso dell’umorismo particolare. Per esempio, se io gli chiedo «Come stai?» lui mi risponde «Sto seduto», se sta effettivamente seduto da qualche parte. Però immagina che io rida, per la sua risposta. E invece io non rido, per niente. Oppure se io gli chiedo «Domani pomeriggio andiamo a cena da Paolo e Caterina?», due miei amici che sono diventati anche due suoi amici, lui mi risponde «No, dai: ho già un sacco di problemi». E io rido, per la sua risposta. Ma lui rimane serio: per mio marito, mangiare del cibo cucinato da qualcuno che non sia lui o un cuoco pluristellato è un’esperienza che andrebbe assolutamente evitata (ma questo l’ho capito da poco). Comunque, lo stesso tipo di misunderstanding sull’umorismo, l’abbiamo vissuto quando sulla porta, ovviamente della cucina, ha appeso un cartello con la scritta «Vietato l’ingresso ai non addetti ai lavori». E poi ha commentato: «I non addetti ai lavori sono tutti, escluso me». E io ho riso, per il suo commento. Ma lui è rimasto serio. Quindi, per fugare ogni dubbio, gli ho domandato: «Stai scherzando?», «No: comunque esci dalla cucina che ci hai già messo un piede dentro». Mi sono guardata il piede ed effettivamente sì: l’avevo già messo dentro, nel suo territorio. Anzi: nel suo regno. «Sì ma, per mangiare o bere, posso entrare?», gli ho chiesto. «Ovvio, però ti chiamo io quando è pronto».
Tra l’altro, nessuno mi aveva nemmeno detto che, se avessi sposato un uomo indiano, si sarebbe trasformato nel sovrano assoluto della cucina. Anche perché di solito così non è. Ma così è stato. Da quando abbiamo iniziato a vivere insieme, in casa cucina solo mio marito. Al massimo io posso apparecchiare e mettere i piatti nella lavastoviglie: se lui è in vena di generosità. Ma forno, fornelli, tandoor e tawa non mi è consentito nemmeno toccarli. Gli ultimi due, tra l’altro, non saprei neppure come usarli. Comunque, nessuno mi aveva nemmeno detto che l’uomo indiano può essere un ottimo chef. Mio marito, poi, spazia dalla cucina italiana a quella indiana senza problemi: il suo risotto alla milanese e il suo vitello tonnato mi sembrano addirittura meglio di quelli che cucinava mia madre, che pensavo fossero i migliori del mondo, così come il suo vegetable korma (delle verdure al latte di cocco) e il suo malwani fish fry (un pesce marinato e impanato nella semola) mi sembrano addirittura meglio di quelli che cucinava sua madre, che pensavo fossero i migliori dell’India. Fin qui tutto (abbastanza) bene, quindi.
E invece no: da quando siamo andati al cinema a vedere Amore, cucina e curry la mia vita, quella alimentare, è realmente diventata un inferno. Perché adesso mio marito pensa di essere non solo un ottimo chef ma addirittura un ottimo chef creativo, proprio come il protagonista del film: che reinterpreta le pietanze francesi, essendo il lungometraggio ambientato in Francia, con ingredienti tipici della cucina indiana, essendo il protagonista del film di origini indiane. E quindi, da quando siamo andati al cinema a vedere Amore, cucina e curry, mio marito reinterpreta le pietanze italiane con ingredienti tipici della cucina indiana, e viceversa. Con risultati piuttosto bizzarri. Ma quando ho provato a dirglielo mi ha risposto: «È cucina creativa, anzi integrativa: un mix tra diverse culture. Proprio tu che sei sempre lì a parlare di integrazione tra diverse culture, non sei contenta?». Ed è scoppiato a ridere: l’uomo indiano (almeno quello che ho sposato io) ha un senso dell’umorismo particolare, ribadisco.
Comunque no, non sono contenta. Almeno in cucina, vorrei tornare all’apartheid: provate voi a mangiare delle trofie al pesto e coriandolo (che per gli indiani è come per gli italiani il prezzemolo, ma a differenza del prezzemolo che va bene con tutto è cattivo con tutto: è cattivo inside, non ce n’è). «Non possiamo mantenerci sugli standard tradizionali: i piatti indiani rimangono indiani e quelli italiani rimangono italiani, senza strane integrazioni tra diverse culture?», gli ho chiesto.
    «In questo ristorante la cucina non è un vecchio e stanco matrimonio, ma una relazione sempre viva e appassionata: come la nostra», ha aggiunto.
Tutto serio, rubando una frase del film. Che non fossimo in un ristorante ma in una casa non mi è sembrato il caso di specificarlo: è un argomento che lo turba.
Amore, cucina e curry è un film del regista svedese Lasse Hallström: nella pellicola, il giovane protagonista Hassan (Manish Dayal), che lavora come cuoco nel ristorante gestito dal padre, diventa uno chef pluristellato nel momento in cui integra la cucina dell’India, terra d’origine, con quella della Francia, nazione in cui vive.



La Svizzera boccia il referendum anti-immigrati "Ma ci riproveremo"
la Repubblica, 01-12-2014
BERNA. La Svizzera non chiude completamentele sue frontiere. Il 74,1% degli elettori ha respinto la proposta del gruppo ecologista Ecopop di ridurre allo 0,2% della popolazione (paria circa 16mila unità contro le attuali 100mila ) la quota di immigrati che può entrare nella Confederazione. È questo il risultato definitivo del referendum per il quale i cittadini svizzeri sono stati chiamati oggi alle urne, appena nove mesi dopo la consultazione che, con il 50,3% dei voti, aveva deciso di introdurre quote agli immigrati, anche dai Paesi Ue, mettendosi in rotta di collisione con Bruxelles.
Bocciati anche gli altri due referendum. Il 59,2% degli elettori ha respinto la proposta di abolire i privilegi fiscali per i super ricchi residenti in Svizzera, mentre il 77,3% ha detto no alla richiesta di aumentare le riserve auree della Banca centrale e di rimpatriare quelle detenute all`estero, nella convinzione di non mettere a rischio l`indipendenza dell`istituto. «Siamo delusi, ma non sorpresi», ha commentato il presidente di Ecopop Andreas Thommen, ma il tema della sovrappopolazione è «nuovo e difficile». La questione non viene risolta e rimaniamo in campo.



Limiti all`ingresso degli immigrati gli svizzeri bocciano il referendum
Il Messaggero, 01-12-2014
GINEVRA Gli Svizzeri hanno espresso un chiarissimo no all`introduzione di nuovi limiti all`immigrazione straniera: chiamati alle urne hanno infatti rifiutato con il 74,1 % di voti contrari il referendum «Stop alla sovrappopolazione» promosso da un gruppo «ambientalista» per la salvaguardia delle ricchezze naturali. Ma gli elettori elvetici hanno anche bocciato con oltre i159% di No un`iniziativa popolare che chiedeva di abolire i forfait fiscali concessi agli stranieri facoltosi. Respinta anche la proposta di aumentare le riserve in oro della Banca centrale elvetica. I sondaggi prima del voto avevano previsto un rifiuto dei tre testi, ma non avevano del tutto escluso l`eventualità di un «Sì» degli elettori sul tema sensibile dell`immigrazione.
IL SUCCESSO
L`entità della vittoria dei «No» costituisce quindi una sorpresa. L`iniziativa, battezzata «Ecopop», per di più è stata bocciata da tutti i cantoni, Ticino incluso. Un vero «Ecoflop», hanno ironizzato alcuni osservatori. Osteggiato dal governo, il testo chiedeva di limitare l`immigrazione introducendo un articolo costituzionale in base al quale in «Svizzera la popolazione residente permanente non sarebbe potuto crescere a causa dell`immigrazione di oltre lo 0,2 % annuo nell`arco di tre anni» e questo alfine di preservare in modo duraturo le «basi naturali della vita», come il paesaggio e le risorse. La Confederazione avrebbe inoltre dovuto investire nella pianificazione familiare volontaria almeno il 10 % delle risorse destinate alla cooperazione allo sviluppo.
Dall`inizio dell`anno, è la seconda volta che gli Svizzeri si pronunciano sul tema dell`immigrazione, ma con esiti opposti. Lo scorso 9 febbraio scorso, il 50,3% dei votanti aveva infatti accettato l`iniziativa della destra conservatrice «Contro l`immigrazione di massa», che prevede l`introduzione di tetti contingenti annuali per tutti gli stranieri, compresi i cittadini dell`Ue. Sempre ieri gli elettori elvetici hanno respinto con oltre il 61% di No l`iniziativa popolare «Basta ai privilegi fiscali dei milionari». Promossa dal piccolo movimento «La Sinistra», l`iniziativa chiedeva che venisse abolita l`imposizione forfettaria che consente agli stranieri facoltosi che risiedono in Svizzera senza esercitarvi alcuna attività a fini di lucro di pagare le tasse in funzione delle spese e non del reddito. Nel 2012, i ricchi stranieri così tassati erano più di 5.600, per un gettito fiscale totale di 695 milioni di franchi (quasi 580 milioni di euro) ai quali gli Svizzeri non hanno voluto rinunciare. Il 76% vive nei Cantoni di Vaud, Vallese, Ticino e Ginevra. Ultimo tema in votazione oggi a livello federale, l`iniziativa popolare «Salvate l`oro della Svizzera» chiedeva tra l`altro di aumentare fino ad almeno il 20% la parte di oro degli attivi della Banca nazionale. Senza esitare, l`elettorato l`ha bocciata con un clamoroso 77,3 % di responsi negativi.
L. Fan.



La marcia di Oprah Winfrey produttrice del film su Luther King
“Un monito per tutti, il razzismo esiste ancora”
Corriere della sera, 01-12-2014
Giovanna Grassi
LOS ANGELES «Oggi un film su Martin Luther King ci ricorda che il razzismo è ancora un cancro per l’America», spiega Oprah Winfrey, produttrice (con Brad Pitt) di Selma , città dell’Alabama da cui partì, diretta a Montgomery, la storica marcia del leader pacifista nero. «Sullo schermo vedrete tre mesi cruciali del 1965, importantissimi ieri come oggi perché quella manifestazione per i diritti civili degli afroamericani rimanda alle ingiustizie di oggi. Basti citare il recente caso Ferguson con l’assassinio del 18enne Michael Brown da parte di un poliziotto. Selma racconta una pagina di storia fondamentale, non solo le battaglie e il peso della figura di Martin Luther King», spiega la celebre conduttrice che ha presentato con orgoglio all’American Film Institute Festival la pellicola diretta da Ava DuVernay.
Oprah si è riservata una piccola ma intensa e significativa parte. «È quella di un’attivista, donna di colore che va a fare richiesta di diritto di voto e viene insultata, sbeffeggiata dal burocrate che stampa con protervia sul suo modulo il timbro denied , rifiutato». Elogia la regista afroamericana DuVernay, premiata al Sundance per la migliore regia nel 2012 (con Middle of Nowhere ) e ribadisce: «In un momento come quello di oggi in cui negli Stati Uniti si assiste a una recrudescenza di intolleranza nei confronti della vastissima comunità afroamericana, Selma è una lezione di storia, coraggio, una battaglia in nome della civiltà».
Il film, sugli schermi Usa a Natale, si vedrà dal 12 febbraio 2015 in Italia con il titolo Selma - La strada per la libertà distribuito da Notorious Pictures.
La Winfrey si dice entusiasta dell’attore inglese David Oyelowo che per interpretare il leader nero è ingrassato di venti chili. Spiega il protagonista: «Per me le parole di Martin Luther King “I have a dream” sono state uno slogan e ancora lo sono. È stato molto impegnativo, e un autentico onore, impersonare il leader dei diritti civili anche con le sue contraddizioni. Sì, il film affronta anche le sue infedeltà coniugali condensate in una forte scena di confronto con la moglie, che lo interroga e gli chiede quanto l’amore per lei e per la loro famiglia abbia ancora un peso tra i numerosi tradimenti e il totale impegno politico e attivista».
Racconta la regista: «Abbiamo messo a fuoco i tanti aspetti della personalità di quest’uomo, assassinato quando aveva solo 39 anni e che poco prima della marcia di Selma aveva ricevuto il Nobel per la pace. Un ruolo chiave è anche quello dei politici repubblicani pro o contro ogni mossa di King. Tom Wilkinson impersona il presidente Lyndon B. Johnson dando voce e peso alle sue aperture per i diritti degli afroamericani. La stesura del copione, scritto a quattro mani con Paul Webb, ha richiesto un lungo lavoro di ricerche anche perché nel film ho voluto utilizzare alcuni spezzoni originali della marcia e le testimonianze di alcuni orrendi crimini razziali in Alabama e nel Sud degli Stati Uniti. Oprah è stata grande nel concedermi piena libertà di scelta dei protagonisti, al di là di ogni ingerenza della Paramount che era interessata all’acquisto del film per gli Usa».
«Il significato della marcia di Selma — affermano all’unisono Oprah e la sua regista — è attualissimo e il lavoro fatto per riportare ogni esatta parola degli incontri politici tra Johnson e King è stato minuzioso. Tim Roth ha reso magnificamente il complesso ruolo del Governatore dell’Alabama George Wallace, un democratico contrario all’inserimento nelle scuole bianche di studenti neri. King lo chiamò in causa personalmente come colpevole del clima di odio di quegli anni».
Oprah non ha dubbi: «La platea potrà vedere nel film un appello alla pace, all’eguaglianza, contro ogni violenza. Da tempo sto lavorando alla miniserie di HBO sulla vita di Martin Luther King. Selma è solo una pagina della lotta per i diritti e nel 2015 la grande manifestazione celebrerà il suo 50° anniversario. Vorrei che il film riaccendesse ogni giorno la speranza per un’America e un mondo migliori».

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