Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Se i musulmani restano stranieri.

il Manifesto 23-01-2015
Valentina Brinis
L'attentato alla sede di Charlie Hebdo del 7 gennaio scorso rilancia i mai del tutto sopiti discorsi degli islamofobi europei. E così, i primi chiamati a spiegare e interpretare quella vicenda, a dover giustificare il loro credo e a prendere le distanze dal fanatismo, sono stati i musulmani. Un atteggiamento che non si ritrova in fatti simili commessi in virtù di altri principi, come per esempio la strage di Utøya in Norvegia nel 2011. 
Qui fu l’intera Europa a indignarsi e la lettura accordata fu che Anders Breivic, autore di quel gesto, fosse un folle. Si evitò così di accreditare il movente da lui stesso dichiarato: ovvero la sua appartenenza ai valori di estrema destra in difesa del cristianesimo contro l’Islam. Nessun militante di certi partiti islamofobi fu chiamato in causa e nessun cristiano si sentì poi in dovere di rispondere moralmente a quanto era accaduto. E giustamente, aggiungerei. 
Nel caso francese, invece, i sette milioni di musulmani residenti in quello Stato dopo il 7 gennaio sono visti con sospetto, e per vivere tranquilli devono continuamente dimostrare la loro distanza dall’ideologia che ha mosso gli autori del disastro. E sono tenuti culturalmente ad attestare che esiste la possibilità di una convivenza tra islam e democrazia. Ciò, però, pone questi ultimi in una perenne condizione di stranieri che, per definizione, non condividono il patrimonio comune dello stato in cui vivono. Nel paese in questione, la Francia, si tratta di una nazione repubblicana. Ovvero di un’entità universale che non include solo gli autoctoni ma anche chi non è nato in quel territorio eppure lì vive condividendo i principi base che regolano la società. Si tratta proprio del “diritto di suolo” (ius soli), di cui molto si dibatte in Italia, per cui uno straniero ha il diritto di accedere alla cittadinanza perché essa non è strettamente legata alla nascita o ai legami di sangue. Nel caso francese questo sistema presenta un tratto che ha prodotto delle conseguenze molto lontane - quasi opposte - da quelle sperate. Esso consiste nella promozione di un atteggiamento assimilazionista che ha ostacolato a livello istituzionale il sorgere delle differenze religiose già esistenti (ed evidenti) all’interno dello Stato. Basti un esempio: nel 1989 un preside di una scuola francese ha espulso tre ragazze musulmane perché portavano il velo. Da qui, si formarono due schieramenti all’interno dell’opinione pubblica: da un lato c’era chi condivideva la posizione del preside inneggiando alla tradizione laica; e dell’altro coloro che la contrastavano considerandola una scelta frutto dell’intolleranza.
Le posizioni dei primi andrebbero oggi rilette approfonditamente alla luce dei fatti di Parigi del 7 gennaio scorso. Esse non prevedevano un riconoscimento pubblico delle differenze culturali e religiose derivanti dalla comunità di appartenenza perché il punto di unione era ed è costituito dall’essere cittadini, accomunati da valori universali che superano le barriere create dalle religioni. Un’unità che, dunque, ha appiattito le differenze piuttosto che valorizzarle. È in questo modo che si è bloccato quel processo di integrazione dei neo arrivati, degli stranieri.
Si tratta di un’esclusione celata, mascherata, ma che ha prodotto conseguenze terrificanti. E l’attentato alla sede di Charlie Hebdo ne è la dimostrazione. Non intendo ascrivere alle istituzioni francesi la responsabilità di quanto accaduto e tantomeno alludere a una qualche colpa originaria delle vittime, ma c'è un dato incontrovertibile: i carnefici erano cittadini di quello stato. I due incarnavano perfettamente il modello del "foreign fighter": nati in Francia avevano completato la loro formazione in un altro paese, la Siria. E una volta tornati in Europa manifestano la loro fedeltà a chi li ha istruiti, compiendo gesti barbari in stati considerati civili. Dal momento che l’odio alimenta solo altro odio, oggi negli stati europei, ad essere più esposti agli attacchi sono proprio i musulmani. Il problema che si pone è il seguente: come tutelarli da attacchi islamofobici? La soluzione è quella di creare un pensiero basato sulla capacità di distinguere, distinguere, distinguere. Ciò vale per la Francia, ma anche per l’Italia e per l'Europa tutta. Qui, infatti, i confini culturali interni sono ancora molti e sono certamente più difficili da superare di quelli che separano fisicamente uno stato dall’altro. Ecco perché è sempre più urgente pianificare politiche di integrazione che contrastino quella tendenza al relativismo che ha prevalso negli ultimi anni.
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