Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

07 luglio 2010

Profughi eritrei, l'Italia media con la Libia
Frattini e Maroni: «Lavoriamo senza pubblicità». L'Ue: «Vigilare sui diritti umani»
Avvenire, 07-07-2010
Ilaria Sesana
«Stiamo trattando per arrivare all'identificazione dei cittadini eritrei (detenuti a Brak, ndf) e per offrire loro un'occupazione in Libia, contro il rischio e la paura del rimpatrio». L'annuncio viene dai ministri degli Esteri, Franco Frattini, e degli Interni, Roberto Maroni in una lettera inviata al quotidiano "il Foglio". Una risposta, indiretta, al commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, che il 2 luglio aveva chiesto al governo italiano di «collaborare al fine di chiarire con urgenza la situazione con il governo libico». L'Italia - ha detto Hammarberg - «ha il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani e di evitare di rinviare migranti, inclusi richiedenti asilo, in Paesi dove rischiano di essere torturati o maltrattati». Una mediazione «delicata» e che i ministri hanno scelto di condurre «senza pubblicità» e che vede in prima fila alcune Ong italiane. Un impegno che sembra aver prodotto i primi risultati: «La Libia - ha annunciato da Mosca 0 ministro Frattini - ha dato segnali di importante disponibilità» sulla sorte dei 250 eritrei detenuti nel carcere di Brak. «Non escludo che sia permesso a un rappresentante diplomatico italiano di accompagnare le autorità libiche e di visitare il campo dove questi eritrei sono custoditi». Ma la soluzione prospettata dai ministri non è il reinsediamento in Italia dei profughi eritrei l'obiettivo cui sta lavorando il governo italiano prevede l'identificazione degli eritrei e «offrire loro un'occupazione in Libia», assieme alla rassicurazione che non verranno rimandati con la forza in Eritrea. Ma «il destino e la sorte di questi cittadini eritrei non può essere risolto dalla sola nostra e pur privilegiata relazione bilaterale con la Libia», hanno precisato Maroni e Frattini, sottolineando la necessità di «un'azione internazionale capace di coinvolgere l'Onu, le sue agenzie e le altre organizzazioni».
E mentre la diplomazia muove i suoi passi, nell'inferno di Brak non sembrano cessare le torture che vengono quotidianamente inflitte ai profughi eritrei «Non meritate cure né assistenza. Vi siete ribellati e avete violato la legge: avete avuto quello che meritate». Nell'inferno di Brak non ci sarebbe pietà nemmeno per i feriti, per chi ha braccia o gambe rotte e giace in uno stanzone, senza cure, da ormai otto giorni.
«Sono ancora tutti in vita, e questa è una buona notizia. Ma i feriti non ce la fanno più, sono allo stremo. Non sappiamo quanto potranno resistere ancora- dice don Mussie Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia -. Hanno chiesto di essere curati e, per tutta risposta, sono stati malmenati di nuovo». A pesare sempre più sul capo dei 250 eritrei detenuti a Brak è l'attesa della visita dell'ambasciatore eritreo: «Non si sa per quando è prevista. Ancora non ci sono conferme ufficiali», dice don Mussie.
Oggi e domani sono attese alcune iniziative per denunciare le drammatiche condizioni in cui si trovano gli eritrei  di Brak. Alle 15.15, a Montecitorio è in programma una conferenza stampa promossa da alcuni parlamentari (tra cui Savino Pezzotta e Luigi Manconi), dal Consiglio italiano per i rifugiati e dall'agenzia Habeshia. Alle 17.30, invece, l'appuntamento è davanti all'ambasciata libica a Roma: «Partecipate e portate una candela - chiede don Mussie -. Portate una luce, per dare un segnale di speranza a queste persone».
Anche le Acli hanno chiesto al Governo italiano « un deciso intervento del governo italiano su quello libico». Il presidente Andrea Olivero ha chiesto «l'immediato accesso» al centro di Brak delle organizzazioni umanitarie, per prestare l'opportuno soccorso ai profughi. Inoltre le Acli hanno proposto al governo italiano di trasferire momentaneamente in Italia i 245 cittadini eritrei «È in gioco il valore inviolabile della vita umana» ribadisce il presidente Olivero. Sempre ieri, è scesa in campo l'opposizione: il gruppo del Pd alla Camera ha presentato un'interrogazione a risposta immediata per il "question rime" di oggi. Francesco Tempestini, capogruppo del Pd nella commissione Esteri chiede che al governo di spiegare «quali iniziative urgenti intenda adottare per assicurare l'effettivo rispetto dei diritti garantiti dal trattato con la Libia e per favorire la ratifica da parte libica della convenzione di Ginevra». Un'interrogazione è stata presentata ieri anche da Renato Farina (Pdl) : «Non c'era alcun dubbio che il governo italiano si sarebbe presto mosso per tutelare i diritti umani degli eritrei incarcerati in Libia», ha commentato. In serata, il vice presidente del Senato, Domenico Nania ha annunciato che oggi il governo riferirà in Commissione Esteri al Senato sulla vicenda dei profughi eritrei in Libia.



La ricerca di una soluzione umanitaria, Frattini & Maroni

Il Foglio, 07-07-2010
Al direttore - Anche Sarkozy potrebbe finire vittima dì un brancher d'affaires.
Maurizio Grippa
Al direttore - Rispondiamo all"'appello realista" che il suo giornale ci indiriza, innanzitutto ringraziandola per l'approccio articolato e comprensivo che anima la vostra analisi di una realtà che è appunto complessa e, come tale, merita una risposta politica altrettanto articolata e complessa.
Affrontiamo certo una materia in cui l'assolutezza e l'irrinunciabilità dei diritti vanno prese sul serio e anche noi capiamo come gli uomini dì buona volontà e le Organizzazioni umanitarie lancino da giorni un pressante allarme. Ma non siamo certi che anche le più giuste declamazioni possano aiutarci a risolvere un problema che, proprio a partire dagli argomenti corretti che fondano l'analisi del suo giornale, ha bisogno di un approccio diverso per essere molto. Tra l'altro non crediamo che incoraggino la comprensione della realtà della vicenda cronache e interviste giornalistiche con appelli via telefono satellitare inspiegabilmente utilizzate da parte di persone che denunciano di essere detenute e a rischia di tortura.
Richiamiamo, ma solo per completezza di argomenti, la necessità di un atteggiamento rispettoso della sovranità libica (e il rischio che gli inviti pressanti, e a volte polemici, della nostra opposizione parlamentare rivelino una prospettiva "neocoloniale" politicamente molto scorretta e assai controproducente dal punto di vista del risultato) e di un'azione internazionale capace dì coinvolgere l'Onu. le sue agenzie e le altre Organizzazioni internazionali. Il destino e la sorte di questi cittadini eritrei non può cioè esser risolto dalla sola nostra e pur privilegiata, relazione bilaterale. E in questa partita, si misura ancora una volta tutta la fragilità europea, e la prospettiva "del nord" -preoccupante e sconsiderata - che continua a considerare il Mediterraneo e la sua sponda sud come un "mondo a parte". E' proprio il sud del. mondo a premere ancora una volta, e ora di più, contro i paesi della sponda meridionale e da lì sugli avamposti europei: Italia, Spagna, Malta e Grecia, principalmente.
Non diciamo questo per coltivare un atteggiamento consolatorio e per trovare uno scudo. un riparo non solo alle responsabilità, ma al protagonismo che come è giusto anche al nostro paese si richiede. Diciamo questo perché in questa - come in altre occasioni - l'Italia non si è mai sottratta a un'attività di sensibilizzazione delle autorità libiche, verso le quali noi abbiamo scelto, nello spirito di una sincera amicizia, di condurre un'azione discreta e positiva anche in nome e per conto dell'Europa: come due distinte, ben note e importanti vicende legate alto soluzione della crisi Libia-Svizzera hanno recentemente saputo dimostrare.
Proprio perché questo nostro mondo è particolarmente complesso e l'approccio della diplomazia politica - se è, come tutti ci auguriamo, finalizzato a risolvere i problemi - deve aiutare a trovare le risposte più adeguate, noi abbiamo scelto una strada diversa da quella. della pubblicità. Perché siamo convinti che non ci aiuterebbe. Sappiamo bene che è una lotta contro il tempo. In queste ore è in corso una delicata mediazione sotto la nostra egida, mediazione che stiamo finalizzando, per poter arrivare all'identificazione dei cittadini eritrei - i quali, è bene saperlo, timorosi di farsi identificare rendono impossìbile la. definizione del loro status - e poter loro offrire un'occupazione, nella stessa Libia, contro il rischio e la paura del rimpatrio. In quest'azione le Ong italiane som ìn prima, fila.
Franco Frattini, ministro degli Affari Esteri
Roberto Maroni, ministro dell'Interno
Grazie a Franco Frattini e Roberto Maroni. Non ci sono ipocrisie o ammiccamenti in questa lettera. C'è una notizia: l'Italia sta cercando di ottenere un giusto beneficio umanitario, nel quadro dei rapporti bilaterali con la Libia, per persone in difficoltà. Dico meglio: il governo italiano. Perché questa sfilza di interviste via satellitare, questo zizzanioso rimestare nell'umanitario, questo sospetto tandem opposizione & Consiglio d'Europa, cose tutte già viste, di benefici giusti ne apporterà pochi. Unico neo della lettera, a mio giudizio: il lavoro in Libia, bene, ma anche asilo politico in Italia, se necessario.  



Eritrei detenuti in Libia Il Consiglio d'Europa chiede conto all'Italia

Frattini non risponde ma, assieme a Maroni, manda una lettera al "Foglio": «Mediazione in corso con Tripoli». Che, intanto, picchia i prigionieri feriti
l'Unità, 07-07-2010
Umberto de Giovannangeli
ROMA-Non è più il silenzio dell'imbarazzo. È molto di più. E di più grave: è il silenzio dei complici. Il silenzio del governo italiano nei confronti dei disperati appelli che giungono dal carcere di Brak, nel sud della Libia, dove sono segregati oltre 200 eritrei. Picchiati, torturati, senza cibo, acqua, assistenza medica. «Abbiamo bisogno di ottenere lo status di rifugiati, perché stiamo morendo nel deserto». È la richiesta di aiuto lanciata da uno dei segregati raggiunto da CNRmedia. «Siamo a Brak, vicino al confine con il Niger. Siamo in una prigione sotterranea. Ci torturano a tutte le ore. Ci insultano, ci picchiano, ci torturano. La tortura è frequente, tutto è frequente..». «Alcuni di noi -    prosegue il racconto - erano stati arrestati perché già abitavano in Libia, altri sono stati presi nelle città, altri ancora sono stati respinti dall'Italia lo scorso anno. Anche se avrebbero avuto il diritto di essere accolti come rifugiati sono stati respinti... ».
Respinti dall'Italia. Abbandona ti al loro destino. Un destino di sofferenza, forse di morte. «Tra di noi - racconta uno dei segregati - ci so¬
no anche 18 donne e bambini. Ad alcune persone sono state spezzate le braccia, gambe, hanno le teste rotte. Le torture sono state mol¬
to pesanti...». Testimonianze drammatiche. Come quella raccolta da don Mussie Zerai, sacerdote eritreo, responsabile dell'ong Habesha, un'associazione che si occupa di accoglienza dei migranti africani: «I feriti (diciotto) che hanno chiesto di essere curati - denuncia Zerai - per tutta risposta sono stati picchiati selvaggiamente... E mentre venivano malmenati, le guardie gridavano loro: è quello che meritate per esservi ribellati alle nostre leggi... ».
Aiuto richiesto, aiuto negato. «Siamo qui senza speranza - dice a CNRmedia uno dei disperati di Brak - senza alcun tipo di aiuto... Nessuno può venirci a vedere, nessuno viene a proteggerci... Abbiamo il diritto di essere riconosciuti come rifugiati, abbiamo bisogno di aiuto da parte della comunità internazionale proprio qui e ora. Perché stiamo morendo nel deser-to.... Incalza Amnesty International: a seguito dell'Accordo di amicizia, partenariato e cooperazione concluso nell'agosto 2008 tra Italia e Libia, a partire dal maggio 2009, le autorità italiane hanno trasferito in Libia migranti e richiedenti asilo intercettati in mare. Secondo i dati del governo italiano - rileva Amnesty - tra maggio e settembre 2009, 834 persone intercettate o soccorse in mare sono state portate in Libia. Lo stesso governo italiano ha comunicato al Comitato europeo contro la tortura che tra le persone «riconsegnate» alla Libia vi erano decine di donne, almeno una delle quali in
stato di gravidanza e diversi minori.
L'Italia sotto osservazione. Con due lettere inviate lo scorso 2 luglio al ministro degli Esteri, Franco Frattini, e al ministro degli Interni, Roberto Maroni - il cui testo è stato reso noto solo ieri - il Commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, ha chiesto al governo italiano di «collaborare al fine di chiarire con urgenza la situazione con il governo libico». Secondo i numerosi rapporti ricevuti dal Commissario Hammarberg prima del trasferimento dei 250 eritrei da un campo di detenzione all'altro, «il gruppo sarebbe stato sottoposto a maltrattamenti da parte della polizia libica, e molte delle persone detenute sarebbero rimaste gravemente ferite». Sempre in base ai rapporti ricevuti - scrive Hammarberg nella lettera - tra i migranti, che rischierebbero ora l'espulsione verso l'Eritrea o il Sudan, vi sarebbero anche dei richiedenti asilo, e il gruppo includerebbe anche persone che sono state ricondotte in Libia dopo essere state intercettate in mare mentre cercavano di raggiungere l'Italia. «Data la recente decisione delle autorità libiche di porre fine alle attività dell'Unhcr nel Paese, è divenuto estremamente difficile avere conferme sull'accuratezza di questi rapporti», scrive il commissario che, vista la «serietà delle accuse», domanda all'Italia di collaborare al fine di «chiarire con urgenza la situazione con il governo libico». La risposta arriva... via Il Foglio. «In queste ore -scrivono Frattini e Maroni in una lettera al quotidiano di Giuliano Ferrara - è in corso una delicata mediazione sotto la nostra egida, mediazione che stiamo finalizzando, per poter arrivare all'identificazione dei cittadini eritrei, i quali, è bene saperlo, timorosi di farsi identificare rendono impossibile la definizione del loro status, e poter loro offrire un'occupazione, nella stessa Libia, contro il rischio e la paura del rimpatrio». Da Mosca, Frattini fa sapere che Tripoli « ha già dato segnali di importante disponibilità» per fare chiarezza sulla sorte di 250 eritrei detenuti in Libia». «Il contributo dell'Italia non è mai mancato e non mancherà - afferma il titolare della Farnesina - ma lo faremo nei modi che portano al risultato e non in quelli che servono a far pubblicità a qualcuno, senza ottenere il risultato». «Il risultato - insiste - si ottiene guardando cosa sta accadendo, chiedendo la collaborazione delle autorità libiche, perché la Libia è uno Stato sovrano e noi rifiutiamo l'approccio colonialista che alcuni sembrerebbero indicare». Controreplica: «L'Italia - ricorda Hammarberg - ha il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani e di evitare di rinviare migranti, inclusi richiedenti asilo, in Paese dove rischiano di essere torturati o mal trattati »



PROFUGHI ERITREI,  FRATTINI: «LAVORIAMO PER AIUTARLI»

Secolo, 07-07-2010
Antonio Pannullo
Si intensificano gli appelli al governo per la sorte del 245 profughi eritrei detenuti in un campo nel deserto libico: parlamentari e giornali chiedono all'esecutivo di intervenir e presso tripoli affinché sia riconosciuto loro lo status di rifugiato e possano venire accolti nel nostro Paese.
Ma il governo si sta già muovendo, in forza del rapporto privilegiato con la Libia di Gheddafi rinforzato qualche mese fa con il patto bilaterale: il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha annunciato da Mosca dove si trova, che «la Libia ha già dato segnali di importante disponibilità» per fare chiarezza sulla sorte di 250 eritrei detenuti in Libia, come chiesto dal commissario ai Diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammar-berg. «E contributo dell'Italia non è mai mancato e non mancherà - ha proseguito Frattini - ma lo faremo nei modi che portano al risultato e non in quelli che servono a far pubblicità a qualcuno, senza ottenere il risultato. Il risultato si ottiene guardando cosa sta accadendo, chiedendo la collaborazione delle autorità libiche, perchè la Libia è uno Stato sovrano e noi rifiutiamo l'approccio colonialista che alcuni sembrerebbero indicare». Poco dopo, il capo della diplomazia italiana ha annunciato di non escludere «che sia permesso a un rappresentante diplomatico italiano di accompagnare le autorità libiche e di visitare il campo dove questi eritrei  sono custoditi». «Vogliamo contribuire alla soluzione della vicenda - ha spiegato - in uno spirito di amicizia. Lo abbiamo fatto contribuendo alla liberazione di un cittadino svizzero evitando una grande crisi Europa Libia sui visti a causa di un contenzioso con la Svizzera. Ma lo abbiamo fatto senza puntare il dito, senza approcci invasivi, rispettando l'autonomia di uno Stato, e i risultato è arrivato». Quanto alla chiusura in Libia dell'ufficio Onu
per i rifugiati (Unhcr), Frattini ha quindi ricordato che «è un problema che sollevammo e la risposta fu «ci lavoriamo». Oggi l'ufficio esiste, vi è un reggente perché il titolare è stato sostituito: attendiamo che torni a funzionare a pieno regime, ma un inizio di ripresa delle attività c'è già stato».
Oggi comunque nella sala del Mappamondo della Camera si terrà una conferenza stampa dell'associazione "A buon diritto", presieduta da Luigi Manconi, alla quale parteciperanno Giovanni Maria Bellu, Fabio Granata, Flavia Perina, Savino Pezzotta, Jean Leonard Touadi, Livia Turco, oltre allo stesso Manconi, che ieri ha spiegato: «Siamo di fronte a un'autentica emergenza umanitaria: ci sono minimo 245 profughi, in maggioranza eritrei ma anche somali, che languono in situazione disperata in un campo profughi libico». A quanto pare, ha raccontato Manconi, i profughi sono stati respinti un anno fa dalle coste italiane, e sono stati ripresi dai Ubici che li hanno rinchiusi in un centro, a Misurata. In seguito, a causa di una rivolta per le cattive condizioni, gli eritrei sono stati trasferiti, pochi giorni fa, a di Braq, vicino Sa-bha, nel sud del deserto Ubico. «Secondo le nostre informazioni - dice ancora il presidente di A buon diritto - i rifugiati sarebbero stati divisi in due gruppi e tenuti in due celle sotterranee. Hanno denunciato di essere stati torturati, e le loro condizioni sono all'estremo». Manconi ha ricordato, e ricorderà oggi in conferenza stampa, che il patto tra Italia e Libia «deve rappresentare un punto di forza per convincere Tripoli a consegnarci i profughi, per questo chiederemo forte e chiaro al governo di accoglierli con lo status di rifugiati politici».
Anche il Consiglio d'Europa ha chiesto all'Italia di intervenire: «L'Italia aiuti a chiarire la situazione dei 250 profughi detenuti in condizioni, a quanto riferiscono varie ong e glih stessi eritrei via sms, del tutto disumane», ha detto il commissario per i Diritti umani Hammarberg.



L'opposizione indignata contro i silenzi complici del governo

l'Unità, 07-07-2010
Cresce la protesta che unisce forze politiche, associazioni umanitarie, realtà del mondo laico e dell'universo cattolico: fare di tutto per ridare libertà e speranza agli eritrei segregati nei lager libici.
ROMA-L'opposizione parla con una voce sola e dà corpo all'indignazione crescente per i silenzi del governo italiano sulla vicenda dei 245 eritrei segregati nei lager libici. Il Gruppo del Pd alla Camera ha presentato un'interrogazione a risposta immediata per il question time di oggi sul dramma dei 245 cittadinieritrei detenuti a Misratah e a Brak. Francesco Tempestini, capogruppo del Pd nella commissione Esteri, e primo firmatario dell'interrogazione insieme alla vicepresidente Rosa Calipari, Livia Turco e Sandro Gozi chiede al governo di spiegare «quali iniziative urgenti intenda adottare per assicurare l'effettivo rispetto dei diritti garantiti dal Trattato con la Libia e per favorire quanto prima la ratifica da parte libica della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati e la riapertura dell'ufficio dell'Unhcr». «Dopo l'intervento del commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa - conclude Tempestini - sollecitiamo una presenza autorevole e qualificata del governo domani (oggi,ndr) per il question time alla Camera».
PROTESTA CRESCENTE
Sulla stessa lunghezza d'onda - quella dell'indignazione e della sollecitazione a intervenire su Tripoli - si muovono l'Italia dei Valori, l'Udc, i Verdi, i Radicali, le Acli... «È necessario chiarire» la situazione dei circa 250 migranti eritrei detenuti nel centro Brak di Sebah, in Libia, «auspicando che la Libia sia sensibile al punto di vista europeo condiviso anche dall'Italia», sottolinea monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per la Pastorale dei migranti e degli itineranti.
CANDELE DI SPERANZA
Per domani è stato promosso un sit in davanti all'ambasciata libica (ore 18.30), su proposta del regista Andrea Segre, a cui hanno aderito Agenzia Habesha, Amnesty International, Come un uomo sulla terra, Fortress Europe, Melting Pot Stalker - Primavera Romana, Welcome! Indietro non si torna. Nello stesso giorno, manifestazione a Napoli (ore 19:00) in Piazza Bellini, e venerdì in tutta Italia davanti alle Prefetture. Illuminare la notte con 250 candele: 250 come le vite sospese dei profughi eritrei.  Unica parola d'ordine: Una
luce per la dignità. Libertà e diritto d'asilo per 250 profughi eritrei deportati nel deserto Libico; Fermiamo le violenze della polizia libica contro i migranti Rivediamo gli accordi Italia - Libia e fermiamo la politica dei respingimenti.. A mobilitarsi è anche il Codacons . «Con un esposto alla Procura della Repubblica di Roma - rende noto l'associazione dei consumatori - abbiamo chiesto l'apertura immediata di una inchiesta, affinché si indaghi per i gravi reati commessi in Libia, ipotizzando tra le altre fattispecie penalmente rilevanti i reati di riduzione in schiavitù, tentato omicidio, lesioni e maltrattamenti. Le autorità italiane devono attivarsi con urgenza e condannare gli abusi commessi in Libia..».



Detenuti eritrei, l´Italia tratta con Gheddafi

La Repubblica 7 luglio 2010
ROMA - Diventa un caso politico il destino di 245 immigrati eritrei, picchiati selvaggiamente e trasferiti a bordo di due porta container dal centro di identificazione di Misurata al carcere di Braq, in pieno deserto, nel sud della Libia. Grazie alla mobilitazione di numerose organizzazioni dei diritti umanitari, alle pressioni del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) e ad Amnesty international, il governo italiano ha deciso di muovere i primi passi diplomatici nei confronti di Tripoli. «L´Italia - scrive il Commissario per i diritti umani del Consiglio d´Europa, Thomas Hammarberg, in una lettera inviata ai ministri Maroni e Frattini - ha il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani e di evitare di rinviare migranti, inclusi richiedenti asilo, in Paesi dove rischiano di essere torturati o maltrattati».
Sommersi da interrogazioni parlamentari dell´opposizione, Idv, Sinistra e libertà e Pd, dalle Acli alla stessa Udc, i titolari dell´Interno e degli Esteri corrono ai ripari. Spiegano che è in corso «una mediazione italiana», che «un rappresentante della nostra ambasciata già nelle prossime ore potrà visitare i rifugiati nel centro di Braq» ma invitano alla cautela e soprattutto alla discrezione. «Abbiamo scelto», rivendicano i due ministri, «una strada diversa da quella della pubblicità, perché siamo convinti che non ci aiuterebbe. Chiediamo un´azione internazionale capace di coinvolgere l´Onu e le sue agenzie». Christopher Hein, direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, si è attivato sin dal 2 luglio con una serie di richieste pressanti al ministro degli Interni. «Sappiamo che tra i 245 eritrei, tra cui donne e bambini, ce ne sono molti che avevano raggiunto l´Italia e che avrebbero dovuto essere accolti come rifugiati politici. L´incertezza dimostrata in queste ore denota l´imbarazzo del governo italiano. Da un lato celebra il successo dell´accordo bilaterale con la Libia nel campo dell´immigrazione dall´altro tace sul fatto che questo accordo non contempla il rispetto dei diritti umani e dell´asilo politico». Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, spiega che «non c´è tempo da perdere. Bisogna evitare assolutamente che queste persone siano rimpatriate in Eritrea. Questo - ricorda - è il quarto tentativo da parte della Libia di rimpatriare in modo forzato dei rifugiati. Dal maggio del 2009 ben 800 persone sono state riportate in Eritrea e in altri paesi del Corno d´Africa. Lo ammette lo stesso governo italiano. Molti erano rifugiati politici. Non si sa che fine hanno fatto. Evitiamo che accada anche questa volta». Domani mobilitazione davanti all´ambasciata libica a Roma. Una fiaccolata dalle 18 alle 20 raccoglierà centinaia di persone. L´obiettivo è liberare i "dannati" di Braq.



l'altra faccia della Libia. Il governo italiano media con Tripoli sulla vicenda dei 250 eritrei detenuti nel paese
L'inferno di Brak, il carcere degli immigrati
il Sole, 07-07-2010
In Libia lo chiamano il centro di Brak, dal nome della sperduta località desertica che lo ospita. Ma tra gli immigrati clandestini che vivono nascosti nei quartieri di Tripoli è conosciuto semplicemente come l'"inferno". Il luogo dove nessuno vorrebbe essere trasferito, dove si sta anche in 90 persone in una cella, non ci sono bagni, e se non ci si ammala è già una fortuna. Dove a qualunque ora si può essere prelevati dai poliziotti, pestati e quando va male torturati. E qui nel mezzo del deserto libico, a 75 km da Sebha, una remota località del sud della Libia, che sono stati trasferiti - diverse Ong preferiscono usare il termine deportati - su due grandi container 250 immigrati eritrei prelevati dal centro di Misratah, sulla costa. È da Brak che alcuni prigionieri sono riusciti a denunciare per telefono la gravissima situazione in cui versano: senza acqua potabile, percossi e in alcuni casi torturati.
Secondo informazioni raccolte da Amnesty International, all'alba del 30 giugno un centinaio di poliziotti libici ha fatto irruzione nel centro di Misratah prelevando oltre 200 eritrei. La loro colpa è stata ribellarsi alle autorità. O meglio, non voler firmare i protocolli per essere schedati e identificati, rendendo note così anche le generalità delle loro famiglie. Sapevano che se lo avessero fatto, avrebbero rischiato di essere rimpatriati in Eritrea, dove la sorte che li attende è ben peggiore. E anche se fossero rimasti in Libia, probabilmente il regime si sarebbe rivalso sulle famiglie.
La tragedia degli immigrati eritrei deportati a Brakha riacceso i riflettori dei media internazionali sull'immigrazione clandestina in Libia sulla politica dei respingimenti in mare portata avanti dal Governo italiano, ma criticata dall'Onu perché contraria alla convenzione di Ginevra, firmata dall'Italia, che offre protezione ai rifugiati politici. Amnesty si è appellata a Tripoli affinché non rinvìi forzatamente in Eritrea i rifugiati, «rispettando il principio internazionale del "non respingimento" verso paesi in cui una persona potrebbe essere a rischio di tortura 0 al¬tre forme di maltrattamento». Il commissario europeo per i diritti umani, Thomas Hammarberg, ha scritto al ministro degli Esteri, Franco Frattini, e al ministro dell'Interno, Roberto Maroni, per chiedere chiarimenti sui presunti maltrattamenti subiti dal gruppo di migranti eritrei, tra i quali alcuni che avevano cercato di raggiungere l'Italia, prima di essere rinviati in Libia. Frattini e Maroni hanno risposto che l'Italia ha intrapreso una « delicata mediazione» per identificare gli eritrei detenuti nelle carceri libiche e offrire loro un'occupazione nel paese nordafricano. «Il contributo dell'Italia non è mai mancato e non mancherà» ha precisato Frattini.
«Secondo il Ministero dell'Interno - spiega Ferruccio Pastore, direttore del Forum Interna¬zionale ed Europeo di Ricerche sull'immigrazione (Fieri) - gli sbarchi in Italia nel 2008 sono stati circa 37mila, mentre nel 2009 solo 9.573. Ma solo 3.185 dal maggio, mese dei primi respingimenti, al dicembre del 2009. Credo che il calo sia in buona misura da legare ai respingimenti in mare da parte delle autorità italiane, e all'effetto deterrente che ne è conseguito. Ma sul fatto che l'Italia abbia violato i principi della Convenzione di Ginevra molti giuristi internazionali sono d'accordo».
Così, nel silenzio, continua la tragedia degli immigrati africani che attraversano il deserto e si gettano tra le braccia di spietati trafficati e poliziotti corrotti per attraversare il Mediterraneo. Quando vengono arrestati, il trattamento che riservano loro
la autorità libiche spesso è disumano. È l'altra faccia della Libia, un paese che ha sì fatto grandi passi in avanti, covincendo, nel 2004, gli Stati Uniti a togliere le sanzioni e riuscendo, nel 2006, ad affrancarsi dal marchio di sponsor del terrorismo affibiatogli dalla Casa Bianca. Parlare di democrazia è tuttavia fuorviante. Guidata da presiedente più longevo d'Africa, Mu'amar Gheddafi, al potere dal 1969, è la Libia è un partner irrinunciabile per l'Italia, e non solo. Merito, soprattutto delle sue riserve di petrolio, 43 miliardi di barili (quelle accertate), le più grandi d'Africa. Un potenziale enorme, visto che 3/4 del suo sottosuolo sono ancora inesplorati. Senza parlare del gas. Ma la Jamahiriyah, lo stato delle masse, proclamato nel 1977 da Gheddafi, che idealizzava la perfetta società, combinando aspetti del socialismo, dell'Islam e del panarabismo è un democrazia solo sulla carta. E il rispetto dei diritti umani non è certo una priorità, anzi.



Libia, ecco la lista dei profughi eritrei

Mentre i ministri Maroni e Frattini annunciano una fìnta trattativa con il governo libico, il manifesto entra in possesso dei nomi dei 205 richiedenti asilo prigionieri nel carcere libico di Braq. «Ma questo elenco - dicono i profughi - non deve finire nelle mani del regime di Asmara»
il manifesto, 07-07-2010
Stefano Liberti
Sono 205 nomi. Una lista lunga, che i detenuti eritrei nel carcere di Braq sono riusciti a farci avere. Proprio per smentire quanti dicono che non vogliono farsi identificare, ci hanno spedito l'elenco, specificando pure i nomi degli undici di loro che sono stati respinti in mare dall'Italia con un'operazione militare il 1° luglio del 2009, come scritto ieri da questo giornale. Si sono contati, hanno messo nero su bianco i lori nomi e ci hanno mandato la lista.
Non sono 250, né 245 come si è scritto nei giorni passati. Sono 205 e tutti uomini. Dal lager di Braq dove sono ormai rinchiusi da una settimana chiedono che un paese terzo si faccia carico della loro situazione. Non rifiutano l'identificazione. Vogliono semplicemente che i loro nomi e i loro cognomi non finiscano nelle mani sbagliate: ossia in quelle del governo eritreo, che considera l'abbandono del paese un crimine di stato e per ritorsione incarcera i familiari dei fuggitivi.
Ieri il Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa Thomas Hammarberg ha chiesto ai ministri Franco Frattini e Roberto Maroni di far luce su quanto accaduto agli eritrei. Aggiungendo quello che noi sappiamo bene, che cioè «sembra che alcuni di loro avevano cercato in precedenza di arrivare in Italia, ma erano state rinviati in Libia», Il commissario ha poi esortato il nostro paese a «vigilare sul rispetto dei diritti umani e evitare di rinviare migranti, inclusi richiedenti asilo, in paesi dove rischiano di essere torturati o maltrattati».
Il governo ha risposto in modo sprezzante. Ha fatto sapere di essere impegnato in una «delicata opera di mediazione, che è una strada diversa dalia pubblicità». Per poi aggiungere, per bocca del presidente del comitato Schengen e inviato speciale di Frattini per le crisi umanitarie Margherita Boniver, che «tutto questo avviene mentre dal fronte delle opposizioni partono bordate volgari e giusttizialiste che nulla predispongono per una rapida positiva soluzione della delicata questione», In realtà la presunta mediazione italiana si limita a riproporre l'aut aut che già l'altroieri era stato prospettato ai detenuti eritrei: «Se vi fate identificare, vi offriamo un lavoro in Libia. Altrimenti vi rimpatriamo». Un accordo - raggiunto dai diplomatici eritrei e dai funzionari libici alla presenza del direttore dell'ufficio di Tripoli dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) - che non soddisfa minimamente le richieste degli eritrei. Non solo non tiene conto della loro paura a firmare i moduli in tigrino, ma non rispetta nemmeno il diritto internazionale, dal momento che gli eritrei non potranno mai ottenere in Libia il rispetto del loro legittimo diritto d'asilo.
Intanto le notizie che arrivano dal carcere dì Braq sono sempre più allarmanti. «Ci sono diversi casi di diarrea Il caldo è soffocante. Non abbiamo acqua corrente e siamo costretti a espletare i nostri bisogni corporali nelle celle», racconta uno di loro al telefono. Dopo essere stati trasferiti a bordo di tre camion container dal carcere di Misratah, sulla costa del Mediterraneo, in questo centro in mezzo al deserto del Sahara, i 205 eritrei sono stati sottoposti a maltrattamenti e torture di ogni tipo. Il carcere di Braq è infatti ora gestito da un reparto speciale dell'esercito, incaricato specialmente di punire gli eritrei per essersi rifiutati di firmare i moduli in tigrino per l'identificazione. «Ci picchiano in continuazione. Ieri notte, sono arrivate le guardie e hanno preso a caso dieci di noi. Li hanno picchiati selvaggiamente. Sono tornati dopo un'ora pestati a sangue», racconta al telefono il nostro interlocutore, «Hanno le ferite aperte. Non ci sono date cure, né medicinali. La nostra situazione sta peggiorando: ormai temiamo di non sopravvivere. E come se non bastasse, venerdì due di noi sono stati prelevati dalle guardie e non hanno fatto più ritorno. Non sappiamo che fine hanno fatto» Per il momento i ragazzi non hanno ricevuto alcuna visita, né quelle sperata di qualche organizzazione umanitaria né quella temuta dei funzionari eritrei, che premono per ottenere la lista dei nomi, tanto che lo stesso presidente Isaias Afewerki sarebbe venuto di persona a Tripoli per conferire sul caso con il leader libico Muammar Gheddafi. Il direttore dell'Oim Laurence Hart ci ha detto che «si sta cercando di inviare la Mezzaluna rossa a Braq per portare cibo e cure ai detenuti». Il ministro degli esteri Frattini ha dichiarato che «non esclude che sia permesso ad un rappresentante diplomatico italiano di accompagnare le autorità libiche e di visitare il campo dove questi eritrei sono custoditi». Se ciò avvenisse, sarebbe un bene. Forse il diplomatico in questione, una volta viste le condizioni di detenzione, convincerà il governo che la soluzione di offrire agli eritrei un impiego in Libia non è la più indicata.



"Malati, senza cibo e torturati qui in Libia siamo sepolti vivi"

"È scoppiata un´epidemia di dissenteria, rischiamo di contagiarci tutti"
La Repubblica 7 luglio 2010
Daniele Mastrogiacomo
ROMA - «Possiamo parlare pochi minuti. E´ molto pericoloso. La polizia può arrivare da un momento all´altro. Ci controllano in continuazione. Per loro controllo significa picchiarci a sangue, con i bastoni, scariche elettriche. Ci danno cibo avariato e acqua piena di fango. Siamo in pericolo, temiamo di non farcela: molti sono ammalati, è scoppiata un´epidemia di dissenteria, rischiamo di contagiarci tutti. Ormai abbiamo smesso anche di gridare. Siamo davvero allo stremo. Non abbiamo alternativa: restare sepolti qui sotto o finire di nuovo in Eritrea. In ogni caso, morire».
La voce del rifugiato arriva a tratti. E´ quasi un sussurro. Arriva dal cuore della Libia, dal centro di detenzione di Braq, 75 chilometri da Sebha, regione desertica centromeridionale. Lo chiameremo Mohammed, ma è un nome di fantasia. Svelare la propria identità è troppo pericoloso. Questione di vita e di morte. Basta poco per sparire, magari sotto metri di sabbia del deserto. Abbiamo ottenuto il numero di uno dei due cellulari. La linea si prende con difficoltà. Ma alla fine, dopo alcuni tentativi e sms rassicuranti, ci risponde la voce di un uomo. Una voce «da dentro». Una testimonianza diretta del dramma che stanno vivendo oltre 200 eritrei e somali, immigrati e rifugiati. Una storia assurda ma emblematica di come la politica dei respingimenti possa produrre delle ingiustizie: violazioni dei diritti internazionali dei rifugiati sanciti dalle Nazioni unite e sottoscritte anche dall´Italia. L´Italia degli accordi con la Libia.
«Adesso siamo in 205», ci racconta Mohammed. «Divisi in une stanze: 101 in una e 104 in un´altra. Tutti uomini. Dormiamo in piedi. Non riusciamo neanche a muoverci. Ci sono molti feriti e chi non resiste perde i sensi ma è sorretto dagli altri corpi. Se qualcuno crolla è spacciato: finire per terra significa restare soffocati. Veniamo dalla Somalia e dall´Eritrea. Come tanti altri volevamo andare in Italia, in Europa e poi magari in Canada. Molti tra noi erano già arrivati nel vostro Paese. Ma poi siamo stati trasferiti in Libia, nonostante avessimo tutti i requisiti per ottenere l´asilo politico. Respinti e basta, senza alcuna verifica. Siamo rimasti in Libia per un anno e sei mesi. Ci hanno rinchiusi nel Centro di accoglienza di Misurata: un centro molto bello, tenuto bene, dove era possibile anche uscire. Le donne per fare la spesa, i bambini per giocare e studiare, gli uomini per andare a lavorare nei cantieri edili. Poi è cambiato tutto, di colpo. Forse perché è stato chiuso l´ufficio dell´Unhcr. Niente più visite, niente più controlli medici, niente assistenza. Niente più uscite. Il centro è diventato una vera prigione. La vita, per i pochi che riuscivano a lavorare all´esterno, è diventata ancora più dura. Vessazioni, insulti, diritti inesistenti. Hanno smesso anche di pagarci sui cantieri. La sera del 29 giugno è scoppiata una rivolta. Ci hanno messo davanti un foglio nel quale accettavamo di rientrare in Eritrea. Sappiamo leggere: c´era scritto esattamente così. Non avevamo alternative: l´Eritrea per noi significa torture e carcere. Molti hanno tentato una fuga, in trenta ci sono riusciti. Gli altri, dopo una battaglia durata fino all´alba con la polizia e i gruppi speciali, sono stati picchiati selvaggiamente, infilati in alcuni container e trasferiti in mezzo al deserto. Solo gli uomini, le donne sono rimaste a Misurata. Il viaggio è avvenuto di giorno e può immaginare in quali condizioni. Molti sono svenuti durante il trasferimento. Mancava l´aria, non c´è stato il tempo di prendere dell´acqua potabile. Nelle brevi soste - prosegue il rifugiato - colpivamo disperati sulle pareti infuocate del container. Le guardie aprivano e picchiavano con bastoni e mazze di ferro. C´erano molti feriti, avevano bisogno di cure. Altri stavano male, cominciavano i sintomi della dissenteria. Il viaggio è durato tutto il giorno. Ci hanno detto che è stata una punizione. Quando siamo arrivati a Braq faceva buio. Altri colpi, altre bastonate. Sembravamo un branco di animali. Sporchi, laceri, bruciati dal calore impossibile, ammassati gli uni sugli altri. Ci hanno chiuso in queste due stanze e ci hanno messo davanti lo stesso foglio nel quale accettavamo di essere rimpatriati in Eritrea. Abbiamo protestato, noi siamo dei rifugiati politici. Lo siamo da oltre due anni. La risposta è stato un altro pestaggio. Qualcuno, da Misurata, ha dato l´allarme. Abbiamo nascosto un paio di cellulari. Riusciamo ad usarli a fatica».
«Vogliamo avere fiducia - conclude Mohammed - vogliamo aggrapparci a tutto, vogliamo vivere. Siamo dei sepolti vivi, senza medicine, con delle condizioni igieniche terribili, tra la sporcizia, gli escrementi, poco cibo e pochissima acqua. L´Italia deve reagire, deve premere sul governo libico. Siamo gente che è fuggita con le famiglie, i bambini, le nostre donne da un paese che ci ha condannato. Chiediamo un po´ di luce in questo tunnel buio e disumano. Chiediamo solo di poter vivere. Devo chiudere, arrivano i poliziotti. Spero di sentirla di nuovo, spero di superare anche questa notte».



L'UNICA COSA GIUSTA

il manifesto, 07-07-2010
Stefano Liberti
Il governo italiano dice che si sta operando per identificare i cittadini eritrei  detenuti nel campo di Braq. Il ministro degli interni Roberto Maroni e quello degli esteri Franco Frattini hanno scritto ieri sul Foglio che stanno facendo di tutto per identificare i rifugiati eritrei quali, timorosi di farsi identificare rendono impossibile la definizione del loro status? Noi diciamo a Maroni e Frattini: abbiamo quei nomi. Abbiamo la lista di tutti e 205 i ragazzi spediti in fondo al Sahara, inclusi gli 11 che il 1° luglio del 2009 sono stati respinti ih mare da una nave militare italiana e condannati così all'inferno in cui oggi si trovano.
Abbiamo i nomi di tutti loro, uno per uno, ma non li pubblichiamo, perché metteremmo a rischio la loro incolumità. E proprio per non farsi identificare dal governo eritreo, che sicuramente si rivarrebbe sulle loro famiglie, che i ragazzi di Misratah si sono rifiutati di firmare i moduli in tigrino e sono stati portati come bestie da macello nel lager di Braq.
Se il governo italiano ritiene che senza i nomi non si può definire il loro status, noi siamo pronti a dargli la lista. Ma lo status di quei ragazzi è chiaro: sono tigrino in fuga da una dittatura brutale. Sono richiedenti asilo, che in Italia, in Europa, otterrebbero automaticamente la protezione internazionale. Noi siamo pronti a dare la lista al governo, se ce la chiederà e dovrebbe chiedercela se è vero che si sta sforzando di identificare i ragazzi. Ma il governo da parte sua non può girarsi dall'altra parte. Non li può lasciare in Libia. Perché la Libia non ha firmato la convenzione di Ginevra e non riconosce il diritto d'asilo. E perché se gli eritrei oggi sono a Braq è anche responsabilità dell'Italia, che li respinge in mare senza prima identificarli e capire se sono richièdenti asilo.
Noi siamo pronti a dare i nomi al governo. Ma il governo deve essere pronto a fare l'unica cosa giusta da fare ora: andare a prendere i 205 ragazzi eritrei in fondo all'inferno e portarli in Italia.



FRATTINI E MARONI: MEDIAZIONE "DELICATA" CON LA LIBIA

il Fatto Quotidiano, 07-07-2010
La sorte degli eritrei in Libia ma anche gli accordi commerciali con il Sudan del dittatore Omar al-Bashir (su cui pende un mandato di cattura internazionale dell'Aia). Sono stati i due temi al centro dell'audizione, ieri mattina, dei rappresentanti di Amnesty alla commissione Affari Esteri della Camera. Un'occasione "istituzionale" in cui l'associazione riepiloga le principali criticità italiane in tema di diritti umani (discriminazioni ai rom, agli omosessuali, garanzie insufficienti per gli immigrati) ma rileva anche le violazioni dei paesi esteri con cui l'Italia stringe o prevede di stringere importanti accordi. Il ministro Trattini (che aveva definito "indegna" la parte relativa all'Italia contenuta nel Rapporto annuale) non c'era. Ma, almeno, ieri ha rotto il silenzio sulla situazione dei circa 250 eritrei detenuti nel campo di Barak dopo essere stati deportati da Misurata. Ieri i responsabile della Farnesina, assieme al ministro Maroni, ha dichiarato che il governo ha avviato una "delicata" mediazione con Tripoli L'obiettivo sarebbe arrivare all'identificazione dei profughi ed evitarne il rimpatrio in Eritrea. Maroni e Frattini dicono che i diritti irrinunciabili "vanno presi sul serio". Ma richiamano "la necessità di un atteggiamento rispettoso della sovranità libica". Definendo addirittura "neocoloniale'" la visione di chi vuole controllare in maniera troppo pressante ciò che accade nel paese. Amnesty è soddisfatta? "Abbiamo il compito di dialogare con le istituzioni—dice l'attivista Daniela Carboni—e, al di là del caso specifico, serve un confronto approfondito su i diritti umani in Libia. Così come in tutti i paesi con cui ci sono rapporti così stretti".



PRIGIONIERI NEL DESERTO
Roma sta mediando: «Ai profughi eritrei un lavoro in Libia»

Il Mesaggero, 07-07-2010
Fabio Morabito
Un diplomatico italiano potrebbe visitare i prigionieri eritrei nel carcere libico di Braq, a Sebah, nel deserto del Sahara. Tripoli, infatti, starebbe rispondendo con disponibilità alle richieste, e iniziative, della Farnesina. Il nostro ministero degli Esteri, a sua volta, con alcuni passi all'insegna della cautela, sta rispondendo agli appelli, interrogazioni parlamentari, artìcoli di giornale che hanno messo in luce la vicenda di oltre , duecento profughi eritrei (245, secondo fonti concordi) che, in fuga dal loro Paese, sono stati arrestati dalla polizia libica e sono imprigionati a Braq. Soprattutto, l'impegno della nostra diplomazia è quello di «sollecitare amichevolmente» la Libia a trovare una soluzione che non sia il rimpatrio di questi sventurati i quali, in quanto considerati nemici del regime eritreo, rischierebbero di essere  seguiti, se non
dirittura torturati, al ritorno in Patria. La soluzione sarebbe trattenerli in Libia, da cittadini liberi naturalmente, procurando loro un lavoro magari utilizzando le Ong italiane. Ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini ha parlato di «segnali di importante disponibilità» dalla Libia.
Roma ieri è stata chiamata in causa anche dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg. «L'Italia ha il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani e di evitare di rinviare migranti, inclusi richiedenti asilo, in Paesi dove rischiano di essere torturati o maltrattati» ha dichiarato Hammarberg. Ma perché ci si rivolge proprio all'Italia? Perché tra i profughi incarcerati ci sono quelli che sono stati respinti dalla nostra Marina mentre provavano a sbarcare sulle coste italiane lo scorso anno. El'accordo tra Roma e Tripoli sul respingimento degli immigrati è da tempo sotto accusa per i modi con cui la Libia ci aiuterebbe a limitare gli sbarchi dei clandestini sulle nostre coste. In polemica con gli attacchi politici dell'opposizione, in una lettera indirizzata al quotidiano Il Foglio. Frattini e il ministro dell'Interno Roberto Maroni hanno scritto di aver scelto «una strada diversa da quella della pubblicità» e che «è in corso una delicata mediazione sotto la nostra egida» per aiutare i profughi eritrei. Quello che non viene detto, per evidente opportunità, è che la suscettibilità del leader libico, il colonnello Muammar Gheddafi, con la quale indubbiamente ora l'Italia ha un rapporto privilegiato, consiglia un'estrema prudenza formale.



Quasi 5mila le vittime dei viaggi della speranza

Avvenire, 07-07-2010
Giovanni Ruggiero
E intanto muoiono annegati: le vittime dei disperati viaggi verso l'Italia dal 1990 al 2009 sono 4.772 (e di questi 2.500 avevano diritto all'asilo). Beninteso, intanto che si cambi registro, cultura e strategia verso gli immigrati. Si vorrebbe anche che i giornali (televisioni comprese) si dessero da fare. In tutti questi anni, hanno dato - secondo un'indagine della Facoltà di Scienze della Comunicazione della Sapienza - una "gigantografia della paura" perché l'immigrato, alla fine definito semplicemente clandestino, è stato sempre legato alla cronaca nera, alla mancanza di sicurezza e agganciato a stereotipi. Il preside della Facoltà, Mario Morcellimi, concede le attenuanti ai giornalisti: «Siamo sotto una coltre della cattiva informazione che è alimentata anche da debolezze della classe dirigente. È una cultura generale. Sarebbe ingiusto buttare la colpa soltanto addosso a loro». Mentre i giornalisti sono invitati ad una autocritica da Paolo Butturini dell'Assostampa Romana e a «riscoprire il dovere etico di raccontare con attenzione, intelligenza e conoscenza dei fatti», le associazioni che con gli immigrati hanno tutti i giorni a che fare si industriano. La Comunità di Sant'Egidio, che è tra queste, le mette insieme ed eccole a riproporre (sono state già sentite dalla Commissione Affari costituzionali della Camera) norme per una nuova cittadinanza a bambini e ragazzi di origine straniera che in Italia sono poco meno di 900 mila, di cui 520 mila nati nella Penisola. Sant'Egidio, Caritas, Acli, Centro Astalli, Fondazione Migrantes e Comunità Papa Giovanni XXIII scrivono così: «Crediamo che i bambini e i ragazzi cresciuti in Italia da genitori stranieri, specie se potranno crescere da cittadini, possono condividere con le loro stesse famiglie, con i loro coetanei e con le altre generazioni di italiani un nuovo patriottismo costituzionale». Ciò premesso, chiedono che sia attribuita ai bambini nati in Italia da genitori stranieri, che mostrino in concreto di volersi inserire nella società italiana, la cittadinanza, senza che debbano poi rinunciare a quella di origine. Il deputato Andrea Sarubbi (Pd), che con il collega Fabio Granata (Pdl) ha presentato una proposta di legge sulla cittadinanza, rivela che a sollecitare una iniziativa bipartisan è stata proprio la Comunità di Sant'Egidio. La loro legge prevede che si passi dallo jus sanguinìs allo jus soli temperato. Per gli adulti invece si passa da un criterio quantitativo a uno qualitativo: dovranno superare un esame di lingua italiana e prestare giuramento alla nostra Costituzione. «Dopo questa sollecitazione - spiega Sarubbi - abbiamo semplicemente analizzato tutte le proposte in materia del centrosinistra e tutte quelle del centrodestra, e crediamo di aver trovato un comune denominatore». Il deputato pensa a Obama: «Il presidente nel concedere la cittadinanza americana guarda al futuro del suo Paese e chiede a tutti di mostrare il desiderio di fare grande l'America. Facciano la stessa cosa. Con queste scelte decidiamo anche che italiani dobbiamo essere a 150 anni dall'unità d'Italia». Anche Granata è fiducioso: «La legge è bipartisan e non dovrebbe avere ostacoli, a parte l'opposizione prevedibile della Lega e una piccola parte del Pdl che si mostra perplessa». Un giorno, dunque, da clandestini a cittadini. Intanto, bisogna rinunciare alla vituperata parola che mette nello stesso piano la colf e il trafficante. Una parola, dice Mario Marazziti, portavoce della Comunità trasteverina, che comunica allarme sociale e dà il senso di una vita nascosta. Da qui un invito: «Usiamo la parola clandestini solo nei casi limiti e ricominciamo a usare le parole, a secondo dei casi, di immigrati, irregolari e profughi». Occhio, dunque. Specie nei titoli.



NELLA GABBIA DI PONTE GALERIA DOVE GLI IMMIGRATI "SCOMPAIONO"

Nel Cie alle porte di Roma ridentificazione è spesso impossibile
il Fatto Quotidiano, 07-07-2010
Lorenzo Di Pietro
"Sembra una grande simulazione di sicurezza" . E la prima impressione di Leoluca Orlando, con noi a visitare il Cie - Centro di Identificazione ed Espulsione - di Ponte Galeria. "Si è costruito un sistema che consente di tenere per 6 mesi delle persone dentro dei veri e propri carceri, con la scusa delle identificazioni, pur avendo riscontrato che se un immigrato non viene identificato nei primi 15 giorni, o nel primo mese, non verrà identificato nei restanti 5 mesi". Una detenzione "lunga ed estenuante", osserva, "in contrasto con diritti universalmente riconosciuti". Gli ex Cpt ospitano gli immigrati non in regola al fine di procedere, appunto, all'identificazione e al successivo rimpatrio. Nella delegazione presente ieri in visita anche il deputato Fabio Evangelisti, il garante dei detenuti della Regione Lazio Angiolo Marroni, l'avvocato Gianpiero Vincenzo Ahmad, esperto di diritti umani e membro dell'assemblea generale della moschea di Roma, la giornalista Livia Parisi e la mediatrice culturale Carmela Menzella. A guidare la visita all'interno della struttura il vice prefetto, inviato dal ministero, un funzionario di polizia e il Direttore di Auxilium, la cooperativa che ha sottratto alla Croce Rossa l'appalto per la gestione delle mense, dell'infermeria, dell'assistenza psico¬logica e degli altri servizi. Il centro che ospita oggi 90 uomini e 93 donne, Più o meno la metà della capienza massima del centro. Circa 42 euro al giorno, il costo per singolo "ospite", ma sarebbe meglio dire detenuto, per un costo annuo pari a circa 3 milioni di euro. Senza calcolare come costo principale quello delle forze dell'ordine quotidianamente impiegate. Tante, a giudicare dal via-vai di camionette, pullman e mezzi. Soldi spesi bene? Secondo il vice prefetto, circa il 60% degli ospiti viene rimpatriato. "Una percentuale che potrebbe essere maggiore", sostiene, "se ci fosse la collaborazione dei consolati e delle ambasciate", che invece, pare, non collaborano ai riconoscimenti. La quasi totalità degli ospiti, precisano i funzionari, ha già avuto precedenti penali.
Tutto si presenta pulito e ordinato: la visita era stata ampiamente annunciata. Diversamente, è impossibile entrare per chi non è parlamentare. Si inizia con l'infermeria. Quattro signore straniere in camice e una detenuta cinese incinta cercano di comunicare usando un vocabolario. Non si capiscono. La donna dice di non conosce i caratteri latini. Nel breve frangente del nostro passaggio, la Menzella si offre: "io parlo cinese" e tenta di tradurre, ma la invitano a seguire la delegazione, "motivi di sicurezza". La sezione maschile è un grande spazio separato da sbarre ovunque, che dividono piccoli spazi rettangolari: ciascuno è una cella. Gli ospiti capiscono che c'è qualcuno e vogliono parlare. Un ragazzo marocchino si rivolge a Orlando raccontando la sua storia. Ha una moglie e un figlio in Italia, dice, vorrebbe poter uscire per recuperare il suo stipendio e tornare al suo Paese. Lavorava in nero come panettiere. Tra gli ospiti ce n'è uno molto speciale. Khalid Ibrahim Mahmoud. Che ha scontato 26 anni di carcere per essere stato a capo del "Abu Nidal", il commando che nel 1985 apri il fuoco all'imbarco della compagnia aerea israeliana El Al, uccidendo 13 persone. Passò alla storia come "strage di Fiumicino". In 26 anni di carcere non era stato identificato. Ora è al Cie. Ma se queste persone sono già state in carcere, dove hanno scontato una pena, come mai per l'identificazione vengono chiuse nuovamente in una struttura che è, a tutti gli effetti, carceraria? E quanto si chiede Evangelisti: "E l'ennesima turbata del governo Berlusconi, fare della propaganda sulla pelle di cittadini che hanno soltanto la colpa di non avere documenti irregolari. Qui si scopre però anche un'altra realtà - continua -queste strutture servono, più che per i clandestini, per gli ex detenuti" come afferma lo stesso vice prefetto. Quando stiamo per andare si crea un assembramento: tutti vogliono parlare e raccontare la loro storia, ma restano dietro le sbarre, tra le quali infilano le braccia quasi a cercare di afferrarci. E ci chiamano. Ma si procede, seguendo i funzionari. La mensa sembra ben organizzata, i pasti sono confezionati. "Ogni 15 giorni un responsabile parla con i rappresentanti dei vari gruppi etnici per equilibrare la scelta dei cibi", ci viene fatto sapere. La moschea invece, è una stanza con un po' di tappeti stesi a terra. Usciamo mentre dall'altoparlante si sente intonare il richiamo alla preghiera delle 12.
La giornalista Livia Parisi ha scattato qualche fotografia, ma se ne sono accorti. Le intimano di cancellarle: deve farlo. Restano le immagini dei cancelli, fotografate all'uscita. E una giovane nigeriana, che esce dopo due mesi di detenzione, si guarda intorno per capire dov'è. E se ne va.



Al via il dibattito sulla legge che lo vieta
Il «burqa» in Parlamento

Corriere della Sera, 07-07-2010
Il Parlamento francese ha iniziato il dibattito sul disegno di legge che bandisce il velo integrale islamico mentre l'opposizione ha già annunciato che boicotterà il voto, atteso per il 13 luglio. Il disegno di legge, approvato dal Consiglio dei ministri a maggio, prevede il bando del «burqa» nei luoghi pubblici.



Nel 2008 in Italia 54mila nuovi cittadini

Avvenire, 07-07-2010  
da Bruxelles Gianluca Cazzaniga
Due anni fa quasi 700 mila persone hanno ottenuto la cittadinanza in uno dei Paesi dell'Unione europea. In Italia sono diventati cittadini a tutti gli effetti circa 54mila stranieri residenti nel Belpaese: soprattutto marocchini, albanesi e rumeni. È quanto emerge da un rapporto pubblicato ieri da Eurostat, l'ufficio statistico dell'Ue.
Per la precisione, nel 2008 i ventisette Stati membri dell'Unione hanno concesso la cittadinanza a 696 mila immigrati, registrando un calo di circa 10rnila unità rispetto all'anno precedente. Sotto questo profilo, l'Italia è in controtendenza. Roma ha concesso la cittadinanza a circa 54mila residenti stranieri nel 2008: circa 9mila in più rispetto all'anno precedente. L'Italia però non è in testa alla classifica dei Paesi più "generosi". In termini assoluti, la Francia si è aggiudicata il primo posto con 137mila persone. A seguire il Regno Unito con 129mila e la Germania con 94mila. Tuttavia la classifica cambia se si tiene conto del rapporto tra il numero di abitanti e il numero di cittadinanze concesse. In questo caso la palma spetta alla Svezia per aver concesso in media 3,3 cittadinanze ogni mille abitanti. A seguire il Lussemburgo con 2,5 e il trinomio costituito da Francia, Portogallo e Regno Unito con 2,1. Tenendo presente che la media europea si assesta intorno a quota 1,4 ci sono dieci Paesi che hanno concesso meno di una cittadinanza per mille abitanti, tra cui l'Italia (0.9). Il tasso più basso è stato registrato in Polonia (0.0), seguita da Repubblica Ceca, Lituania e Slovacchia (0.1). Secondo i dati pubblicati da Eurostat, i cittadini che hanno beneficiato maggiormente della cittadinanza in uno dei Paesi europei sono stati quelli del Marocco (64mila persone), della Turchia (50mila) e dell'Ecuador (28mila). Quasi la metà di quei 64 mila marocchini sono diventati cittadini francesi e quasi la metà di quei 50mila turchi sono diventati cittadini tedeschi. Per quanto riguarda i 28mila ecuadoregni, più del 90% sono diventati cittadini spagnoli. I ma¬rocchini rappresentano il primo gruppo non solo in Francia, ma anche in Italia, con più di 9mila cittadinanze (il 17% del totale). Seguiti da più di 4mila albanesi (8.5%)   e da quasi 3mila romeni (5.3%).



La Casa Bianca porta l'Arizona in tribunale

il Sole, 07-07-2010
Daniela Roveda
LOS ANGELES- Barack Obama è passato dalle parole ai fatti sulla legge contro l'immigrazione illegale in Arizona. Come promesso, ieri il presidente degli Stati Uniti ha fatto causa contro uno dei suoi stati per avere approvato una legge «malconcepita e che crea divisioni» e in quanto tale contraria ai princìpi della Costituzione americana.
La sfida di Obama contro l'Arizona rischia di portargli però una vittoria in tribunale ma una sconfitta in piazza: la maggioranza degli americani, il 58%, si è detta infatti d'accordo con la legge antiimmigrazione che conferisce alla polizia ampi poteri di fermare chiunque appaia sospetto.
L'Arizona aveva fatto esplodere la bomba immigrazione il 23
aprile scorso, quando la governatrice Jan Brewer aveva firmato la legge approvata dal parlamento statale e appoggiata dalla stragrande maggioranza degli abitanti. Punto di passaggio e di smistamento per il traffico di droga e di clandestini provenienti dal Messico verso gli Stati Uniti, l'Arizona da anni chiede a Washington una legge per regolamentare l'immigrazione e aiuti per pattugliare la frontiera e combattere il crimine dei narcos. L'escalation dei reati di droga, dei regolamenti di conti, dei rapimenti e delle quotidiane intimidazioni di comuni cittadini si sta rivelando insostenibile per una popolazione esasperata e spesso terrorizzata. La legge dovrebbe entrare in vigore il 29 luglio a meno che un giudice non decida di sospenderne l'applicazione in attesa del verdetto del tribunale sulla sua costituzionalità.
Il ministero della Giustizia ritiene che la legge usurpi i poteri federali di proteggere i confini della nazione, una prerogativa del governo centrale e non degli stati. La legge è anche in odore di razzismo in quanto consente alla polizia di chiedere i documenti a chi appare sospetto di essere nel paese illegalmente. Negli Stati Uniti il cosiddetto "racial profiling", la prassi di fermare sospetti in base al colore della loro pelle, è in palese violazione dell'emendamento che garantisce l'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
Simili tentativi di scoraggiare  l'immigrazione illegale sono stati sistematicamente bocciati in passato dai tribunali americani, e per questo motivo gli esperti ritengono che Obama vincerà. Il tentativo più famoso fu il referendum approvato in California nel 1994, la proposition 187, che tentò di negare ai clandestini i servizi sanitari e l'istruzione pubblica ai loro figli.
Da allora tuttavia molto è cambiato. La crociata anti-immigrazione dei repubblicani in California negli anni 90 mobilitò per la prima volta l'elettorato ispanico e costò caro al partito nei succes¬sivi 15 anni di ascesa democratica. Ma questa è l'era dei Tea parties, è un momento di crisi economica, e l'atteggiamento della nazione sul problema dell'immigrazione si è indurito. L'ultimo sondaggio del Washington Post del 16 giugno rivela la frustrazione della popolazione contro un governo che non fa abbastanza per proteggere i confini della nazione. Forse la provocazione dell'Arizona non troverà conferma nelle sfere giuridiche d'America, ma ha ottenuto l'attenzione del presidente su una questione scottante e rivelatasi finora intrattabile: proprio la settimana scorsa il presidente Obama ha promesso infatti una nuova legge sull'immigrazione.



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