Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

07 ottobre 2010

Sicurezza Il velo
Il governo: vietare il burqa ma senza nominare l'islam
Corriere Della Sera, 07-10-2010
Fabrizio Caccia
Il parere alle Camere: evitare riferimenti alla religione
ROMA—«Se vogliono evitare di fare una legge islamo-foba, allora perché non vietare anche ai Sìkh di andare in giro con il loro pugnale?», polemizza Mario Scialoja, ex ambasciatore e direttore della sezione italiana della Lega Musulmana Mondiale. La legge in questione è quella che, sulla scia della Francia, vieterà pure in Italia l'uso del burqa nei luoghi pubblici. Ieri il sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano, ha illustrato il parere inviato il 21 luglio scorso dal ministro Roberto Maroni alla commissione Affari costituzionali della Camera, che sta esaminando le proposte di legge in materia: «L'uso del burqa e del niqab non costituisce, secondo il Corano e secondo l'opinione prevalente della dottrina giuridica islamica, adempimento di un obbligo religioso». Per questo il governo suggerisce al Parlamento «di disciplinare la materia facendo riferimento esclusivo a profili di ordine pubblico, prescindendo dalle motivazioni che spingono le persone» ad indossarli. Dunque: vietarli sì, ma senza citare l'Islam. L'obiettivo, ha spiegato ieri Mantovano, è quello di «deconfessionalizzare» la legge per non alimentare ulteriori polemiche.
Il parere, fatto proprio dal governo, era stato espresso nei mesi scorsi dal «Comitato per l'Islam italiano», costituito presso il Viminale. Ejaz Ahmed, mediatore culturale e direttore del giornale dei pachistani in Italia Azad, uno dei membri più autorevoli del Comitato, spiega: «L'uso del niqab (indumento che copre il capo e buona parte del busto lasciando scoperti soltanto gli occhi) e del burqa (che copre tutto il corpo compresi gli occhi) non ha un'origine coranica. Il Corano, anzi, non li cita mai. Qui non c'entra la religione, il burqa in molte zone del pianeta c'era già prima dell'avvento dell'Islam. E indumenti simili vennero usati anche in epoca romana, bizantina, persiana. Portarli non è dunque un obbligo religioso. Non c'è un nesso causale tra burqa e niqab e religione islamica. Anche le donne Sikh portano il velo ma non per questo sono musulmane...».
Vietare il burqa, dunque, non perché espressione dell'Islam. Ma per «assicurare dignità alla donna e tutelare l'ordine pubblico — continua Ahmed — visto che in Pakistan molti kamikaze si celano sotto il burqa». E così la legge che verrà, secondo il governo italiano, dovrà tenere prioritariamente in conto «la considerazione di ordine pubblico secondo cui persone travisate in modo da non essere riconoscibili non possono essere identificate dalle forze dell'ordine». In questo modo sarà modificato l'articolo 5 della legge 152 del 1975, che vieta l'uso di caschi protettivi 0 di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in un luogo pubblico, senza giustificato motivo. Il parere del governo, pero, suggerisce anche di modificare parallelamente l'articolo 85 del Testo unico di pubblica sicurezza, inserendo una norma per consentire l'uso del burqa o del niqab almeno nelle moschee. Ejaz Ahmed annuncia, infine, che il 27 ottobre prossimo ci sarà un'altra importante riunione al Viminale con il sottosegretario Mantovano: «Parleremo della formazione dei circa 700 imam che vivono in Italia, delle nuove moschee da inserire armonicamente nel territorio e delle loro forme di amministrazione. Perché oggi le moschee in Italia figurano quasi tutte come centri culturali e invece un giorno potrebbero diventare associazioni regolarmente registrate con atto notarile e avere diritto, magari, anche al cinque per mille. Confidiamo in Maroni che è persona apertissima, mentre la sinistra per la paura di perdere voti al di là delle parole non ha mai fatto nulla...».



Il governo: «Burqa da vietare ma senza nominare l'islam»

il Giornale, 07-10-2010
Vietare per legge l'uso del burqa e del niqab in Italia, senza fare però riferimento alla religione islamica. Questo il parere fornito ieri dal Governo alla commissione Affari costituzionali della Camera che sta esaminando le proposte di legge in materia. Il parere adottato dal Governo è quello proposto dal Comitato per l'Islam italiano istituito presso il Viminale. Nel parere - illustrato in commissione dal sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano - si fa presente che l'uso del niqab (l'indumento che copre il capo e buona parte del busto lasciando scoperti soltanto gli occhi) e del burqa (che copre tutto il corpo compresi gli occhi) non ha un' origine coranica. Indumenti simili sono stati usati in diverse zone in epoca romana, bizantina, persiana. Portarli non è dunque «un obbligo religioso». La legge in materia dovrà quindi, secondo il Governo, tenere prioritariamente in conto «la considerazione di ordine pubblico secondo cui persone travisate in modo da non essere riconoscibili non possono essere identificate dalle forze dell'ordine, individuate dai conoscenti e, se del caso, descritte dai testimoni. La riconoscibilità delle persone deve essere garantita, tanto più a fronte del rischio internazionale collegato al terrorismo». Il documento non è però d'accordo con le proposte di legge che prevedono il divieto degli «indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab». Parlare esplicitamente di «religione islamica», infatti, secondo il Governo, rischia di alimentare polemiche, oltre a non essere storicamente corretto.
Si raccomanda quindi di omettere dai testi di legge ogni riferimento alla religione o all'islam, limitandosi alla formulazione se-condo cui nel divieto devono intendersi ricompresi «gli indumenti denominati burqa e niqab, prescindendo dalle motivazioni che spingono le persone ad indossarli». L'obiettivo, si sottolinea, è quello di «deconfessionalizzare» la legge per non alimentare polemiche.
L'Italia si avvia così a seguire l'esempio della Francia che è stata il primo paese europeo a mettere al bando per legge al velo integrale islamico su tutto il territorio na-zionale, incluse strade e piazze, nonostante il parere negativo del consiglio di Stato e il disagio espresso dalle comunità musulmane. Sarkozy del resto aveva più volte ripetuto che il burqa «non è benvenuto nel territorio della Repubblica». Chi viola la legge paga una multa di 150 euro o in alternativa può seguire un un corso di educazione civica. Chi obbliga una donna a coprirsi integralmente rischia invece un anno di carcere e una multa da 30.000 euro. Pene raddoppiate se la donna è minore. Quella francese in ogni caso è la prima comunità musulmana d'Europa (quasi 6 milioni di persone, ma solo 2.000 donne indossano burqa o niqab).



Burqa, il governo: vietarlo  per legge ma senza fare riferimenti all'Islam

Il Messaggero, 07-10-2010
Carlo Mercuri
Parere alla commissione Affari Istituzionali: motivi di ordine pubblico
ROMA - L'Italia si avvia a fare ciò che hanno già fatto la Francia e il Belgio e che stanno per fare Olanda, Spagna e forse Germania: cioè vietare il Burqa (l'indumento che copre tutto il corpo delle donne) e il Niqab (l'indumento che copre il capo e buona parte del busto delle donne lasciando scoperti solo gli occhi). Il Governo, dopo   aver sentito il Comitato per l'Islam  italiano, istituito al Viminale, ha fornito il seguente parere alla Commissione Affari istituzionali della Camera (che sta esaminando le proposte di legge in materia): vietare l'uso del Burqa e del Niqab in Italia senza però fare riferimento alla religione islamica.
Il   sottosegretario all'Interno  Alfredo Mantovano   ha spiegato  perché: perché sia il Burqa che il Niqab non  hanno un'origine coranica.   Dunque, non si può dire che le donne che indossano il velo integrale lo facciano perché siano     obbligate dalla loro religione. E' vero invece che la legge italiana «deve garantire   la riconoscibilità delle persone, tanto più di fronte al rischio internazionale collegato al terrorismo». Quindi il Governo, per bocca di Mantovano, chiede di «omettere dai testi di legge ogni riferimento alla religione o all'Islam» prescindendo dai motivi che spingono le donne a indossare Burqa e Niqab. L'obiettivo è quello di «deconfessionalizzare» la legge, per non alimentare polemiche.
D'altronde, neanche la moglie di Maometto ha mai messo il Burqa ma solo il velo e il Grande Imam dell'Università "Al Azhar" del Cairo ha affermato a chiare lettere che «indossare il Niqab è un'abìtudine che non ha nulla a che fare con la religione».  Secondo  la  deputata Souad Sbai, di origine marocchina e firmataria di una delle proposte di legge per abolire il Burqa, l'uso di tale indumento «è un obbligo imposto alle donne da estremisti che vengono dall'Afghanistan, dal Pakistan e da altri Paesi dove c'è ancora il retaggio di costumi disumani e di violenze familiari inaudite e inammissibili, sia in linea di principio sia, in particolare, se le donne vivono in Paesi civilmente evoluti».
Nelle audizioni in Commissione, i rappresentanti delle Associazioni islamiche in Italia hanno tutti ripetuto lo stesso concetto: il Burqa e il Niqab sono simboli di schiavitù. «Sono tradizioni nate negli anni Settanta, con i Talebani», ha detto Mustapha Mansouri, segretario della Confederazione delle comunità marocchine in Italia; «Il velo integrale non è una prescrizione religiosa dell'Islam. Nel Novecento era un capo per le donne dei ceti superiori, affinché fossero protette dagli sguardi del popolo; poi, sotto il regime teocratico dei Talebani, è stato imposto a tutte le donne», ha spiegato Sandra Chabib, presidente dell'Associazione delle donne marocchine.
La legge che sta per vedere la luce godrà presumibilmente di un ampio consenso parlamentare, giacché anche molti settori dell'opposizione sono convinti della giustezza della proposta. Restano, a Sinistra, alcune resistenze da parte di chi pensa che la legge voglia colpire gli immigrati nel loro intimo. E c'è pure chi ricorda che anche le suore sono velate...



IL PARERE DEL GOVERNO ALLA COMMISSIONE
Vietare burqa e niqab senza riferirsi all'islam
la Padania, 07-10-2010
Roma - Due i principi generali: vietare sì per legge l'uso del burqa (indumento che copre tutto il corpo compresi gli occhi) e del niqab (che copre invece il capo e buona parte del busto lasciando scoperti soltanto gli occhi) in Italia, ma senza fare riferimento alla religione islamica. Questo il parere fornito dal Governo alla commissione Affari costituzionali della Camera che sta esaminando le proposte di legge in materia; parere che è poi quello proposto dal Comitato per l'islam italiano istituito presso il ministero dell'Interno.
Nel parere - illustrato in commissione dal sottosegretario all'Interno, Alfredo Mantovano - si fa presente che l'uso del niqab e del burqa non ha origine nel Corano. Indumenti simili sono stati usati in diverse zone in epoca romana,
bizantina, persiana. Portarli non è dunque «un obbligo religioso». La legge in materia dovrà quindi, secondo il Governo, tenere in conto «la considerazione di ordine pubblico secondo cui persone travisate in modo da non essere riconoscibili non possono essere identificate dalle forze dell'ordine, individuate dai conoscenti e, se del caso, descritte dai testimoni. La riconoscibilità delle persone deve essere garantita, tanto più a fronte del rischio internazionale collegato al terrorismo».
Il documento non concorda tuttavia con le proposte di legge che prevedono il divieto degli «indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab». Parlare esplicitamente di «religione islamica», secondo il Governo, rischia di alimentare polemiche, oltre a non essere storicamente corretto. Si raccomanda quindi di «omettere dai testi di legge ogni riferimento alla religione o all'islam, limitandosi alla formulazione secondo cui nel divieto devono intendersi ricompresi "gli indumenti denominati burqa e niqab", prescindendo dalle motivazioni che spingono le persone ad indossarli». L'obiettivo, si sottolinea, è quello di «deconfessionalizzare» la legge per non alimentare polemiche.



MARONI E IL PARERE DEL COMITATO PER L'ISLAM
Il governo vieterà il burqa "Ma nella legge nessun riferimento religioso"
La Stampa, 07-10-2010
Va bene vietare burqa e niqab nei luoghi pubblici ma nella legge bisogna omettere ogni riferimento alla religione o all'Islam. È la raccomandazione del Comitato per l'Islam italiano, organismo collegiale costituito presso il ministero dell'Interno, contenuta nel parere trasmesso alla commissione Affari Costituzionali della Camera dal titolare del Viminale Roberto Maroni il 21 luglio scorso e illustrato ieri dal Sottosegretario Alfredo Mantovano.
«Il comitato - scrive Maroni nella lettera di accompagnamento del parere indirizzata al presidente della Commissione Donato Bruno - rilevato che l'uso del burqa e del niqab non costituisce, secondo il Corano e secondo l'opinione prevalente della dottrina giuridica islamica, adempimento di un obbligo religioso, suggerisce di disciplinare la materia facendo riferimento esclusivo a profili di ordine pubblico. Deconfessionalizzata - è la conclusione -, la questione si risolve in quella più generale concernente l'uso di qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona in luogo pubblico o aperto al pubblico».



"Stop al burqa, ma senza citare l'Islam"

Dal governo parere positivo al divieto: "Però non è il Corano a imporlo "
la Repubblica, 07-10-2010
VLADIMIRO POLCHI
ROMA—Via il burqa dalle strade italiane. Il governo si schiera a favore del divieto del velo integrale, ma avverte: la legge non dovrà far riferimento alla religione islamica. Il Corano infatti non prevede tale obbligo per le donne. Questo il parere fornito dal governo alla commissione Affari costituzionali della Camera, che sta esaminando le proposte di legge in materia. Il parere è frutto del lavoro del Comitato perdi  l'Islam italiano, istituito al Viminale dal ministro Roberto Maro ni. Le proposte all'esame della Camera puntano a modificare l'articolo 5 della legge 152 del 1975 che vieta l'uso, "senza giustificato motivo", di caschi o qualunque altro indumento che impedisca il riconoscimento della persona, in luogo pubblico, Alcuni testi in discussione, oltre a proporre di togliere il riferimento al "giustificato motivo", chiedono di vietare «gli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab». E qui sta il punto: la formulazione non piace infatti al Comitato per l'Islam Il parere, fatto proprio dal governo, ricorda infatti che l'uso del niqab (che copre il capo, lasciando scoperti solo gli occhi) e del burqa (che nasconde anche gli occhi) non ha un'origine coranica. Portarli non è «un obbligo religioso». Insomma, tra velo integrale e religione islamica non ci sarebbe alcun «nesso causale».
Ciò detto, la legge dovrà, secondo il governo, tenere conto della «considerazione di ordine pubblico secondo cui persone travisate in modo da non essere riconoscibili non possono essere identificate dalle forze dell'ordine, individuate dai conoscenti e, se del caso, descritte dai testimoni. La riconoscibilità delle persone — si aggiunge — deve essere garantita, tanto più a fronte del rischio internazionale collegato al terrorismo». E i riferimenti religiosi? Il governo raccomanda di «omettere dai testi di legge ogni riferimento alla religione o all'islam, limitandosi alla formulazione secondo cui nel divieto devono intendersi compresi gli indumenti denominati burqa e niqab, prescindendo dalle motivazioni che spingono le persone a indossarli. L'obiettivo dichiarato è quello di "deconfessionalizzare" la legge, per non alimentare polemiche. Nonsolo. Si sugge-risce anche di introdurre una norma per cui «l'autorità locale di pubblica sicurezza può prevedere deroghe al divieto all'interno dei luoghi aperti al pubblico», il che «consentirebbe di autorizzare l'uso del burqa e del niqab nelle moschee».
«Queste proposte di legge restano assurde — sostiene Ah-mad Gianpiero Vincenzo, presidente degli Intellettuali musulmani italiani—cosa aggiungono infatti alla legge del '75 sull'ordine pubblico? Non bastava applicare con rigore le norme già esistenti? Il rischio ora — prosegue Vincenzo — è di assecondare una campagna islamofobica. Il governo e il Comitato per l'Islam pensano con questo parere di lavarsi le mani, ma ben sanno che la legga anti-burqa sarà in ogni caso strumentalizzata». Che il parere sia frutto di un compromesso all'interno del Comitato, non lo nasconde chi ne fa parte, come l'imam Yahya Pallavicini, vicepresidente della Coreis: «Un compromesso — spiega — che ben soddisfa sia l'esigenza di non criminalizzare l'islam, che quella di chi vuole a tutti i costi aggiungere una specifica sul burqa alla legge del'75. Ma mi chiedo— conclude—quanti burqa girano in Europa? Non è un forse un falso problema?».



MILLENNIO SENZA ROM

il Manifesto, 07-10-2010
Salll Shetty*
Maria Dumitru e Marius Alexandru sono due rom ventottenni di origine romena. Hanno tre figli. Dal 2004, anno del loro arrivo in Italia, hanno subito cinque sgomberi forzati e in nessuno di questi casi è stato dato loro un alloggio alternativo. L'ultima volta sono stati sgomberati dal campo abusivo di via di Centocelle. Ora vivono in un rifugio di fortuna poco lontano.
«Siamo venuti in Italia sei anni fa per guadagnare qualcosa ma non abbiamo ancora nulla» - dice Maria. «All'inìzio siamo stati nel campo di Ponticelli, a Napoli, ma la polizia ci ha sgomberati. Mi hanno detto che se ci avessero visto un'altra volta nella zona mi avrebbero sottratto i figli e li avrebbero messi in un orfanotrofio».
Maria e Marius hanno avuto esperienze simili a Caivano (Napoli) e a Roma, sulla Cristoforo Colombo. «La polizia ha distrutto tutto» - racconta Marius. All'inizio del 2008, la famiglia si era trasferita al campo di via di Centocelle, era stata sgomberata ad aprile, vi era tornata subito dopo, per essere sgomberata ancora una volta nel novembre 2009.
Prima dell'ultimo sgombero, Maria aveva raccontato la loro vita ad Amnesty International: «Provo un po' di vergogna, perché mio marito va in giro a rimediare pezzi di ferro e di rame nella spazzatura per rivenderli. In questo modo, compriamo qualcosa da mangiare. Marius cerca nella spazzatura anche i vestiti, perché non abbiamo soldi per comprarli nei negozi. È solo grazie a lui che abbiamo qualcosa da mangiare. Dobbiamo pagare la scuola, il maestro ci dice di comprare i quaderni per gli esercizi e le penne e riusciamo alla fine a racimolare altri cinque euro».
Maria riflette sul passato e parla del futuro: «Siamo diventati genitori presto. Non voglio che i nostri figli facciano la stessa nostra vita Voglio che vadano a scuola e che riescano a trovare un lavoro. Voglio che abbiano una vita migliore della nostra».
Il futuro di Maria, Marius e dei loro tre figli resta incerto. Nelle ultime settimane, il sindaco di Roma ha annunciato un nuovo piano per sgomberare tutti i piccoli insediamenti non autorizzati di Roma. Il piano è iniziato. L'unica alternativa che pare le autorità abbiamo offerto alle persone rimaste senza tetto è una sistemazione temporanea d'emergenza per donne e bambini.
Gli sgomberi forzati, a Roma, a Milano, a Parigi e a Bucarest, lasciano le famiglie senza casa e ancora più alla mercé di violazioni dei diritti umani, interrompono i percorsi scolastici e rendono vani i tentativi di integrazione. Come gli altri stati membri delle Nazioni Unite, il governo italiano e quelli europei si sono impegnati a fornire alloggi adeguati, nell'ambito degli Obiettivi di sviluppo del millennio (Osm) adottati dalle Nazioni Unite nel 2000. Gli Osm rappresentano una promessa senza precedenti di affrontare la povertà globale, attraverso l'adozione di otto obiettivi, che vanno dalle forme estreme di povertà alla salute, dall'educazione agli standard di vita, da conseguire entro il 2015.
Dieci anni dopo, tuttavia, l'esito degli Osm è in dubbio. Le Nazioni Unite hanno lanciato un. allarme chiaro: molti di questi obiettivi non saranno raggiunti salvo un cambio di rotta radicale. Anche dando retta alle stime più prudenti, oltre un miliardo di persone vengono lasciate indietro.
In questi anni, l'azione di Amnesty International ha mostrato come la discriminazione e l'esclusione possano spesso causare o acuire molti dei problemi che gli Osm cercano di affrontare. Nei paesi ricchi come in quelli in via di sviluppo le persone vulnerabili che si trovano ai margini della società subiscono spesso violazioni dei loro diritti a un alloggio adeguato, alla salute, all'acqua, ai servizi igienici e all'educazione, per citarne alcuni. Sono frequentemente tenute fuori dalle consultazioni su questioni che le riguardano o ignorate quando cercano di far sentire la loro voce. Come Amnesty International ha evidenziato, l'uguaglianza e l'inclusione sono essenziali per far andare meglio le cose.
Dieci anni dopo, è importante fermarsi a riflettere su dove siamo e dove dobbiamo andare per raggiungere i risultati prefissi dagli Osm. Coloro che li hanno elaborati, li avevano considerati come un punto di partenza
per progredire. Era stato concordato che gli stati avrebbero fissato i loro obiettivi specifici, adattati ai contesti nazionali pur nell'ambito della struttura degli Osm. Un compito affidato agli stati su base volontaria e che, purtroppo, la maggior parte di essi ha deciso di non svolgere.
Alcuni paesi hanno adottato obiettivi al di sopra degli Osm. Per esempio, i paesi latinoamericani e caraibici hanno ampliato il loro impegno nel campo dell'educazione fino a includervi l'istruzione superiore. In Africa e in Asia meridionale, Kenya, Sudafrica e Sri Lanka hanno adottato obiettivi più forti degli Osm per quanto riguarda l'accesso all'acqua è ai servizi igienici. Il Perù ha intrapreso azioni per sconfiggere gli ostacoli cui vanno incontro le donne più povere nell'accesso alle cure mediche, il Nepal ha esplorato modalità per migliorare la salute materna. Questi paesi hanno dimostrato che è possibile adattare gli Osm per affrontare alcune delle necessità più impellenti e per rafforzare i diritti umani di alcuni tra i gruppi più vulnerabili. Il resto del mondo dovrebbe fare lo stesso.
Abbiamo l'opportunità di assicurare che il fermento politico intorno agli Osm può essere usato come catalizzatore per ottenere un cambiamento più profondo e duraturo, necessario per le persone che vivono in povertà. Un cambiamento che, tuttavia, può essere ottenuto solo se i leader mondiali s'impegneranno in favore dei diritti umani delle persone che necessitano del sostegno maggiore. La discriminazione contro le donne e l'esclusione dei gruppi emarginati devono essere al centro di tutti gli sforzi riguardanti gli Osm, se questi vogliono essere concreti.
Perché ciò avvenga, occorre che i governi siano onesti nel valutare i progressi fatti in tema di Osm, che agiscano per porre fine alla discriminazione e per promuovere uguaglianza e partecipazione, garantendo che i passi avanti nel raggiungimento degli Osm siano inclusivi, dicano basta alla discriminazione, assicurino l'uguaglianza di genere e diano priorità ai gruppi più svantaggiati.
Infine, occorre che i governi rammentino che la Dichiarazione del millennio, da cui gli Osm derivano, aveva promesso
per promuovere e proteggere tutti i diritti umani, civili, culturali, economici, sociali e politici, per tutti.
Mentre al Summit delle Nazioni Unite si è   discusso sui progressi fatti in tema di Osm poco è cambiato per i rom dei campi di Roma, Milano, Parigi o Bucarest Le comunità rom, che già vivono in insediamenti abbandonati, vengono spesso sgomberate senza preavviso o consultazione idonea e senza che venga loro offerto un alloggio alternativo adeguato. Sta a noi contribuire affinché ciò cambi.
*Segretario generale di Amnesty International



Una risposta sui campi rom

Famiglia Cristiana, 07-10-2010
La Casa della carità è stata accusata di voler regalare le case popolari ai Rom. In realtà, abbiamo aderito, in accordo con Prefettura e Comune, a un ampio progetto di superamento del più grande campo nomadi di Milano, il Triboniano, dove vivono oltre 600 persone. L'intervento prevede rimpatri assistiti, ricerca di abitazioni sul mercato privato e l'assegnazione di 25 appartamenti esclusi dalle graduatorie dell'edilizia residenziale pubblica da destinare a famiglie in particolare fragilità sociale. Abbiamo individuato questi nuclei tra i Rom che vivono al Triboniano. Dopo aver condiviso tutta l'operazione e sottoscritto i contratti, le istituzioni hanno fatto marcia indietro. Da qui le polemiche e le tensioni su cui ora, però, non vogliamo più ritornare.
Preferiremmo rileggere quest'esperienza con uno sguardo diverso. Quello di affermare la nostra scelta di stare nel mezzo dei problemi animati dal principio di carità solidale, lascito morale del cardinale Martini. Questo stare nel mezzo ci ha fatto crescere un amore immenso per questa città e per chi la abita, a partire dai più poveri.
La nostra scelta non è dettata da un generico sentimento di buonismo, ma deriva dal guardare in faccia le persone, conoscere le storie, ascoltare i bisogni. Bambini, donne e uomini che hanno manifestato una collaborativa volontà di uscire da quel campo nomadi per non vivere più in condizioni disumane. Abbiamo ascoltato anche i cittadini resi-denti lì vicino, che legittimamente chiedono da anni sicurezza e tranquillità.
Vogliamo superare i campi, ma non stiamo con chi invoca e pratica sgomberi come unica soluzione. Non siamo difensori dei Rom a priori. Siamo per le proposte serie che riguardino lavoro e casa, siamo per l'intelligenza che mira alla risoluzione dei problemi, vogliamo contribuire alla costruzione di
legami di giustizia e solidarietà evitando sofferenze inutili. Continueremo il nostro lavoro, perché se si fermasse vincerebbe la logica di lasciare i campi lì dove sono, a prosperare nella disumanità e nell'illegalità.   



Parigi Iniziativa congiunta per chiedere una riunione d'urgenza
Lettera di Italia e Francia all'Ue «Discutere subito di immigrati))
Corriere della Sera, 07-10-2010
PARIGI — Dopo le polemiche anche aspre delle settimane scorse, sulla questione dell'immigrazione l'Europa torna disattenta e indifferente. È l'allarme lanciato dal ministro per le Politiche europee, Andrea Ronchi, che ieri nei locali dell'ambasciata d'Italia a Parigi ha annunciato una lettera congiunta di Italia e Francia alla presidenza belga, per chiedere una riunione urgente dei ministri dei 27.
«Di fronte all'avanzata dell'estrema destra, dall'Olanda alla Svezia, l'Europa dovrebbe rispondere con concretezza è rapidità per rassicurare i cittadini, e contrastare così gli atteggiamenti di rifiuto e di paura. Ho il tenore di un'Europa che torna indietro di sessantanni», ha detto Ronchi. Dopo l'incontro con l'omologo francese Pierre Lellouche, ieri è partita la lettera che punta in primo luogo a ottenere da Bruxelles gli strumenti per attuare la direttiva europea sulla libera circolazione delle persone. Da tempo Francia e Italia collaborano in modo molto stretto nella lotta contro l'immigrazione clandestina, e più volte il premier Silvio Berlusconi e il presidente Nicolas Sarkozy sono intervenuti assieme per sollecitare una gestione del problema a livello unitario e non dei singoli Stati membri. «Una road map europea è stata messa a punto da tempo, ma rischia di restare inattuata», ha ricordato l'ambasciatore Giovanni Caracciolo di Vietri.
«Mi aspetto una risposta immediata alla nostra lettera», ha detto Ronchi, sottolineando la scadenza importante della primavera prossima, quando la Ue dovrà decidere dell'apertura del trattato di Schengen a Romania e Bulgaria. Dopo lo scontro tra Sarkozy e la commissaria europea Viviane Reding sui rom, la Germania è apparsa allentare il rapporto con Parigi. «La Germania ha una sua specificità, storica e sociale, che non le impedisce però di collaborare pienamente sulla questione dell'immigrazione».



L'INTERVENTO E' DIRETTO AD ADULTI MA ANCHE A RAGAZZI IN ETA SCOLASTICA
L'integrazione si fa studiando l'italiano
Ciociaria Oggi, 07-10-2010
Alessandro Redirossi
Acli e Provìncia hanno attivato il centro Doc per aiutare gli stranieri
Acli e Provincia puntano sull'integrazione degli immigrati.
E' attivo, infatti, il centro Doc (direzioni orizzonti di cooperazione) di Frosinone, fulcro di una serie di interventi finalizzati all'integrazione dei cittadini stranieri sul territorio. Il progetto, finanziato dalla Provincia, settore politiche sociali e migratorie, è   rrealizzato dalle Acli provinciali con il supporto della Fondazione Il Giardino delle Rose Blu e del consultorio Anatolè. Livia Borzì, presidente dell'Acli Lazio ha delineato i tratti del progetto, «Le linee di intervento sono fondamentalmente tre. Il progetto Eda si rivolge agli immigrati fra i 18   e i 50 anni per l'approfondimento dell'italiano di base. Fra i partecipanti ai corsi ci sono già persone provenienti da sette diverse nazioni. Il progetto Stop prevede l'apertura di uno sportello per la gestione di un servizio di accoglienza e di orientamento individuale. Il progetto Kites è rivolto invece ai ragazzi fra gii  11  e i  15 anni, con il sostegno all'attività scolastica». Responsabili dell'iniziativa
sono Irene Palmigiani e Mi-chele Mannini. I servizi ed i corsi si svolgeranno del Punto amiglia di via Vado del Turo 156/A. Per informazioni ed iscrizioni è possibile contattare lo 0775/1880384,






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