Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

29 maggio 2013

Profughi, accuse tedesche all’Italia
Avvenire, 29-05-2013
Paolo Lambruschi
Dure accuse da Amburgo alle autorità italiane, accusate di aver pagato 500 euro a testa a 300 profughi africani finti in mezzo alla strada per fargli raggiungere la Germania. Una violazione degli accordi di Schengen. In realtà all’origine delle tensioni tra Italia e Germania sul fronte dell’immigrazione c’è una coda dell’Emergenza Nordafrica, una delle pagine peggiori del Belpaese nell’accoglienza dei rifugiati, e una mezza bufala.
Andiamo per ordine. Ieri il quotidiano conservatore di Amburgo "Die Welt",  mai tenero con il nostro paese, ha pubblicato un articolo secondo cui 300 profughi africani sarebbero arrivati nella città anseatica pagati dal Viminale, che non avrebbe accolto questi migranti - detti "libici", ma provenienti da Nigeria, Ghana e Togo - e li avrebbe incitati a proseguire. L’articolo attribuisce le accuse al ministro regionale per gli Affari Sociali, il socialdemocratico Detlef Scheele. Secondo "Der Spiegel", settimanale noto per le uscite anti italiane, in marzo il Ministero federale dell’Interno ha inviato alle autorità dei länder una missiva per informarli che l’Italia avrebbe offerto ai profughi soldi e documenti validi per tre mesi che autorizzano a viaggiare nell’area Schengen.
Non è andata così. I 300 accampati ad Amburgo dietro il monumento di Bismarck sono stati ospitati in Italia per 18 mesi con altre 40 mila persone nei centri di accoglienza dell’Emergenza Nordafrica chiusi lo scorso febbraio. Sono i migranti fuggiti dalla Libia in preda alla guerra civile, dove lavoravano, e sbarcati a Lampedusa. Erano originari di paesi terzi subsahariani, quindi proporre loro il viaggio verso Tripoli o un rimpatrio era impossibile. Va detto che non c’è stata un’uscita programmata dai centri e che l’Emergenza Nordafrica è terminata in modo concitato, all’italiana. Alla chiusura venne effettivamente elargito mezzo migliaio di euro di buonuscita a ogni profugo.
Quanto ai documenti, le nostre autorità hanno concesso loro una protezione umanitaria temporanea con un titolo di viaggio per l’area Schengen. Con i quali non possono stabilirsi fuori dai confini nazionali né  lavorare. Forse di questo non sono stati informati. O forse si, comunque la locomotiva tedesca con la sua richiesta di manodopera è una tentazione irresistibile per molti bisognosi, Schengen o no. Ora la situazione dei 300 profughi di Amburgo è diventata pesante. In mezzo a una strada al freddo del Nord, perché senza permesso di lavoro non si ha diritto alle prestazioni sociali. In più il titolo di viaggio è in scadenza. Associazioni e chiese amburghesi li stanno aiutando, ma Scheele ha rincarato la dose: «Sarebbe irresponsabile dar loro false speranze, il viaggio di ritorno in Italia è l’unica opzione».
Un sito tedesco in lingua inglese «Local.de» aggiunge che i profughi sono ammalati e senza soldi. Ma, nonostante Amburgo abbia offerto loro un biglietto ferroviario gratuito, nell’Italia in crisi nessuno vuole tornarci.



Germania: "L'Italia paga gli immigrati per venire qui"
Scrive il giornale Die Welt: "Centinaia di extracomunitari hanno ottenuto 500 euro e documenti validi tre mesi dalle autorità italiane per lasciare i centri di accoglienza"
iL gIORNALE, 29-05-2013
Raffaello Binelli
La Germania accusa l'Italia di aver violato gli accordi europei in materia di immigrazione, spingendo alcune centinaia di profughi africani che avevano raggiunto il nostro Paese a proseguire il viaggio, fino ad Amburgo, in cambio di denaro e permessi di soggiorno.
Dura protesta dell’amministrazione della città-Stato di Amburgo contro le autorità italiane. Il ministro regionale per gli Affari Sociali, il socialdemocratico Detlef Scheele, ha avvertito che i migranti che arrivano in Germania dall’Africa "non hanno alcuna possibilità, diversamente che in Italia, di ottenere un permesso di lavoro, non hanno diritto all’alloggio e nemmeno alle prestazioni sociali". Il ministro ha poi sottolineato che "sarebbe irresponsabile incentivare false attese, il ritorno è l’unica opzione" e bisogna rispedirli "dove possono lavorare e dove hanno un diritto di soggiorno: ciò è possibile in Italia o nei loro Paesi d’origine".
Il quotidiano Die Welt pubblica il contenuto di una lettera di due pagine che il Ministero federale dell’Interno ha inviato alle autorità dei laender responsabili per l’accoglienza degli stranieri in cui si afferma che l’Italia avrebbe offerto 500 euro a parecchi migranti provenienti dall’Africa, incoraggiandoli a recarsi in Germania, dopo averli muniti di documenti validi tre mesi, che autorizzano a viaggiare nei Paesi dell’area Schengen. Nel documento è scritto che "cittadini di Paesi terzi (esterni all’Ue, ndr), secondo quanto da loro dichiarato, hanno ottenuto 500 euro dalle autorità italiane per lasciare volontariamente i centri di accoglienza in via di chiusura".
Nella lettera del ministero dell’Interno, citata dal giornale, si aggiunge che "ai profughi il denaro è stato messo in mano con l’invito a recarsi in Germania". Nel frattempo sono arrivati ad Amburgo oltre 300 migranti, provenienti da Nigeria, Togo e Ghana, che dopo lo scoppio della guerra civile in Libia, invece di tornare in patria si sono rifugiati in Europa. Molti di loro sono attualmente accampati all’aperto nella città anseatica dietro il monumento a Bismarck.



"I tedeschi sapevano di quei soldi incomprensibile che protestino solo ora"
la Repubblica, 29-05-2013
ALBERTO CUSTODERO
ROMA — «I tedeschi sapevano. Perché protestano adesso?». AI ministero dell'Interno l'attacco della Germania ha suscitato stupore. «Ma come — dicono al Víminale — eravamo andati a Berlino a spiegare che non si trattava di una circolare anti Merkel. Com'è possibile che ci sia stata un'incomprensione?».
La decisione di dare soldi ai profughi perché cercassero fortuna nei Paesi dell'area Schengen è stata adottata dal dipartimento Immigrazione quando, passata l'emergenza della "primavera araba", sono finiti i soldi per l'accoglienza degli immigrati approdati sulle coste italiane.
A quel punto, il Viminale ha deciso di dare 500 euro a quegli stranieri {fra i 13mila accolti nelle strutture italiane) che volessero tornarsene nei Paesi d' origine. Oppure recarsi in altri Stati europei con condizioni di lavoro migliori rispetto a quelle italiane. Gran parte di loro e andata in Germania, raggiungendo parenti, amici e connazionali giä presenti da anni in cittä tedesche.
Per scongiurare il rischio di una crisi diplomatica tra Roma e Berlino, per quel mini esodo tra Italia e Germania di maghrebini, «lo scorso 17 maggio —si legge in una nota del ministero dell'interno — si e tenuta a Berlino la prima riunione della Task Force Italo-Tedesca in materia di immigrazione e asilo». «Sono state illustrate da parte italiana — spiegano ancora al Viminalele iniziative assunte a seguito della cessazione dell'emergenza Nord-Africa avvenuta il 31 dicembre 2012. In particolare, è stato assicurato che continua l'accoglienza per i soggetti vulnerabili e per coloro che sono in attesa dell'esame della loro posizione anche attraverso la collaborazione degli Enti locali». Nell'ambito dell'assistenza prestata dalle autorità italiane, il Viminale ha «avviato percorsi di reinserimento socio-lavorativo volti a facilitare l'integrazione, inoltre in sede di Tavolo di Coordinamento Nazionale, è stato deciso di corrispondere la somma forfettaria di 500 euro, mutuata dallo Sprar, al fine di contribuire alle spese di prima necessita e a supporto di un percorso di integrazione utilizzando esclusivamente fondi nazionali».



Berlino: «L'Italia paga gli immigrati per venire nel nostro Paese»
«Africani arrivano ad Amburgo inviati dagli italiani». Arriva pronta la replica seccata del Viminale
Il Mattino, 29-05-2013
BERLINO - Centinaia di profughi africani approdano ad Amburgo, inviati dall'Italia, che paga fino a 500 euro e dispensa documenti di soggiorno per indurre gli stranieri a lasciare il Paese. L'accusa, in termini sferzanti, arriva dagli enti addetti all'immigrazione della città-Stato, dove si annuncia l'intenzione di rimandare gli stranieri indietro. Ma la replica del Viminale, altrettanto secca, non si fa attendere: i permessi di soggiorno dati a stranieri che poi si sono trasferiti in Germania sono stati rilasciati dall'Italia «a seguito dell'esame della singola posizione, caso per caso, conformemente alla normativa comunitaria».
Mentre il governo tedesco precisa di essere in contatto con quello italiano, con cui c'è un dialogo aperto sul tema. E che Roma - da dove il ministero dell'Interno conferma che in effetti il 17 maggio si è tenuta una riunione della task force italo-tedesca in materia di immigrazione e asilo - si sarebbe comunque mostrata disposta a riaccogliere i profughi che non abbiano diritto a soggiornare in Germania. Il caso resta in ogni modo urticante nei rapporti bilaterali, già provati dalla crisi dell'euro.
E non è inedito. Nel marzo scorso infatti, il ministro dell'Interno della Baviera attaccò duramente la prassi italiana di spingere gli immigrati che arrivavano sulle sue coste altrove, dopo un fermo di 6 stranieri di origine africana e irachena, che provenivano dal Belpaese. Sotto tiro in Germania è una circolare del ministero dell'interno italiano di febbraio (governo Monti) che prevedeva una 'buonuscità di 500 euro per gli immigrati che lasciano i centri di accoglienza allestiti in via provvisoria per l'emergenza profughi provocata dalle rivolte della primavera araba nel 2011.
Un provvedimento che riguarda 13 mila persone; (di profughi in Italia, 3 anni fa, ne arrivarono 62 mila). La stampa tedesca ha riportato la notizia, oggi, accusando l'Italia di violare gli accordi europei: «Circa 300 persone, provenienti da Libia, Ghana e Togo sono finite nella città anseatica, nonostante dovessero essere accudite in Italia», ha scritto l'agenzia di stampa Dpa sottolineando che Roma disattende le intese europee, sollecitando i profughi che arrivano sulle sue coste ad andare in altri paesi d'Europa.
E il senatore socialdemocratico del Land, Detlef Scheele, ha commentato la circostanza così: molti di questi immigrati sarebbero in Germania dei senzatetto, non avendo alcuna possibilità di rivendicare il diritto alle prestazioni sociali, nè alcuna autorizzazione a trovare un lavoro. «Sarebbe irresponsabile dare loro false speranze, il viaggio di ritorno è l'unica opzione».
In toni pacati, il governo tedesco ha reagito richiamando il caso in un vertice di metà maggio con l'Italia. «Qui è noto che enti italiani, con la chiusura dei centri temporanei di accoglienza, hanno emesso documenti che autorizzano il soggiorno e il viaggio conformi a Schengen, in singoli casi dopo verifiche individuali, a rifugiati riconosciuti e a persone con una protezione sussidiaria proveniente dal Nordafrica», ha spiegato il portavoce.
«Tali gruppi di persone ottengono analoghi documenti di viaggio e titoli di soggiorno ai sensi di Schengen anche in Germania. Nel caso in cui però i prerequisiti per l'ingresso e il soggiorno in un Paese non esistano o non sussistano, questo diritto di viaggio non può essere rivendicato, e si possono prendere in considerazione misure che pongano termine al soggiorno», è la sottolineatura che fa intravvedere una reazione a breve.
E il governo tedesco si aspetta che Roma non si opponga: «dialoghiamo con l'Italia su questi temi e in un incontro a metà maggio i rappresentanti italiani hanno spiegato che in casi del genere, come previsto dalla legge, sono disposti a riaccogliere i migranti». Toni più sereni, comunque, di quelli usati dal ministro bavarese Joachim Hermann che, il 15 marzo, definì l'Italia «sfacciata» a disfarsi a pagamento dei profughi. Il caso, intanto, resta chiaramente aperto: e la precisazione di stasera del Viminale dimostra che il governo Letta è deciso a reagire.



Il sigillo di Forza Nuova, chiuse le scuole dei Rom
CIRDI, 29-05-2013
Tre scuole “chiuse” con un finto sigillo con nastro fetucciato rosso e bianco su porta e cancelli e volantini dal senso inequivocabile: «Stop ai rom. Prima gli studenti cagliaritani», oppure «Scuola gratis? Diventa rom» e una lunga contestazione all’amministrazione comunale di Cagliari.
E l’effetto del blitz che il movimento di estrema destra Lotta studentesca di Cagliari ha compiuto nella notte tra domenica e lunedì in tre scuole di Cagliari, la Manno, la Cima e la Pierluigi da Palestrina. Motivo del contendere il progetto finanziato dall’Europa e veicolato dal Comune per 20 mila euro che prevede l’avvio di un programma di corsi per il conseguimento della licenza media destinato ai rom e inserito nei progetti di integrazione. In un post pubblicato sul profilo Facebook di “lotta studentesca Cagliari” i militanti del movimento – che è il gruppo giovanile dei neofasciti di Forza Nuova – rivendicano la chiusura simbolica delle tre scuole e se la prendono con l’amministrazione comunale. «Per Lotta Studentesca questa iniziativa sostenuta dall’amministrazione Zedda è una vergogna – si legge nel post -: gli studenti e le famiglie Cagliaritane sono ancora in attesa dei rimborsi scolastici del 2011».
Nella nota che scrivono sul social network e che riprende quanto scritto nel volantino affisso nelle scuole, un passaggio sulle risorse, ventimila euro, che saranno erogate per far funzionare il progetto di integrazione. Non mancano le fotografie scattate durante la notte, con le porte e i cancelli sbarrati dal nastro rosso e bianco e i volantini con gli slogan e il comunicato.
Non tarda ad arrivare la replica dell’amministrazione comunale. Dal comune «per l’ennesima volta», si chiarisce e si fa una ricostruzione sommaria degli eventi che si sono succeduti da un anno a questa parte. Ovvero da quando è stato disposto lo sgombero del campo rom alla periferia della città e sono partiti i progetti e i programmi di integrazione e inclusione sociale. Programmi che, come rimarcano in Municipio, prevedevano l’impiego di risorse vincolate.
Proprio sui ventimila euro contestati dal gruppo di estrema destra arriva la precisazione dell’amministrazione comunale. «Si tratta di di fondi che arrivano dall’Europa per far funzionare il progetto di integrazione», soldi che qualora non dovessero essere usati, saranno restituiti al mittente perché non appartenenti al bilancio comunale. «Per questo progetto – fanno sapere ancora in Municipio – non sarà utilizzato un euro del bilancio comunale. E al bilancio comunale non è stato tagliato per questo ambito un centesimo».
Matilde Murru e Alberto Vargiu sono due docenti e spiegano che al Ctp «vengono effettuati, inoltre, corsi di alfabetizzazione Italiana per tutti i cittadini stranieri – con regolare permesso di soggiorno – che vogliano imparare la lingua italiana, e corsi di licenza media per gli italiani». Ossia quella che un tempo veniva chiamata “scuola serale” o delle 150 ore aperta a tutti. Non solo: «Il Ctp ha stipulato una convenzione per un progetto di alfabetizzazione e di scolarizzazione delle comunità rom – spiegano i due – . Il progetto si inserisce in un percorso più vasto di integrazione ed inserimento lavorativo ed è propedeutico a un corso di formazione professionale per il quale è necessaria la licenza media. Tale convenzione costituisce un fondamentale fattore di protezione di quelle fasce deboli, come i rom per l’appunto, che vivono in condizioni di disagio economico e sociale».
L’episodio non si ferma agli insegnanti ma finisce anche tra i banchi del consiglio comunale dove non mancano le reazioni. Davide Carta, consigliere comunale del centrosinistra non usa giri di parole quando parla del blitz: «È veramente un’infamia e un atto di puro razzismo – dice – su cui si dovrebbe indagare. Credo che tutti i cittadini stranieri che stanno a Cagliari debbano avere il diritto di un’istruzione adeguata e questo è un diritto per ogni cittadino che sia nato o meno a Cagliari». Non è tutto. «Credo sia un fatto di grande civiltà qualunque spesa per la suola e l’inclusione di tutte le comunità – dice Ninni Depau, presidente del Consiglio comunale di Cagliari -. Sta emergendo che si spende molto meno per includere piuttosto che per escludere». Fra poche settimane in quelle aule si diplomeranno molti immigrati che con il titolo di studio cercano un futuro migliore. Su questi esami adesso vigileranno le forze di polizia.
Fonte: l’Unità



Non solo mamme diploma di italiano per400 immigrate
La scuola come ponte fra le culture
la Repubblica Milano, 29-05-2013
ZITA DAZZI
NON un semplice corso di italiano per donne straniere, ma una scuola e un percorso di integrazione che scommette sulle madri come elemento vitale per un pieno inserimento delle famiglie immigrate nella società italiana. «Mamme a scuola» è un progetto nato nel 2004 e radicato in quattro fra le elementari più multietniche della città: la «Rinnovata Pizzigoni» di via Mac Mahon, la «Cadorna» di via Dolci, la «Narcisi» nell'omonima Strada e la «Guicciardi» di via Bodio. Scuole che ospitano oltre ai bambini, anche le mamme nel ruolo di studentesse, perché l'idea portante dei progetto è che la scuola primaria è il primo ponte culturale all'interno di un quartiere tra le famiglie che vengono da parti diverse del mondo.
Oltre ai corsi di lingua, il programma annuale prevede incontri con mediatori culturali, esperti di diverse discipline e volontari che danno informazioni per accedere ai servizi sociali milanesi, e in generale sui temi della salute, della scuola, dell'alimentazione, del lavoro e sui problemi legati ai permessi di soggiorno e alla cittadinanza. «L'obiettivo è fornire alle mamme gli strumenti per "muoversi verso la città" e in particolare per andare dal medico, parlare con gli insegnanti dei figli, fare i documenti, dialogare con i genitori italiani, diventare consapevoli della realtà in cui vivono», spiega Carla Rolla, vicepresidente del progetto.
In vista della fine delle lezioni, sabato mattina a Palazzo Marino, gli assessori Pierfrancesco Majorino (Servizi sociali) e Francesco Cappelli (Educazione), assieme al presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo, e a Rosanna Tommasi dell'associazione, consegneranno i diplomi con la certificazione dei livello di conoscenza della lingua italiana conseguito dalle donne che hanno frequentato le attività negli ultimi nove mesi di scuola.
Sono oltre 400, ogni anno, le donne straniere — soprattutto nordafricane, cinesi e latino americane — che si iscrivono a questo corso, con la garanzia di poter portare con sé i figli da zero a tre anni, senza dover pagare la baby sitter. Durante le lezioni, i piccoli sono seguiti da animatrici, con cui possono fare giochi ed esercizi utili a socializzare, a staccarsi dalla mamma, in attesa di iscriversi alla scuola materna. «Insegniamo la lingua italiana alle mamme, ma soprattutto facciamo sostegno alla genitorialità perché crediamo che rafforzare le competenze della madre abbia ricadute positive sull'intera famiglia e sul futuro dei figli —spiega Omella San filippo, presidente della onlus (info@mammeascuola. it) —. C'è tanto da ragionare sia sul quotidiano, cioè sui temi della scuola, delle leggi e dei lavoro, ma anche sul ruolo di genitori e sui modelli educativi nelle diverse culture».
Sempre in tema di scuola multiculturale, oggi, alle 12 alla Triennale Francesco Cappelli, assessore all'Educazione, parteiperà alla tavola rotonda «Le sfide della multiculturalità a scuola, oltre la dimensione educativa», organizzata in occasione della mostra-evento «Milano e Oltre», dal Dipartimento di Architettura e studi urbani dei Politecnico.



Umer a Torino - Il premio letterario ad un giovane di origini pakistane
Melting Pot Europa, 29-05-2013
Grazia Satta
Umer è un ragazzo di “seconda generazione” e ha vinto un premio letterario partecipando al Concorso Nazionale Poesie e Filastrocche promosso dall’Associazione Culturale Paidon Poiesis. E’ lo ha vinto con una poesia scritta in italiano.
La scuola superiore che frequenta a Portomaggiore nel ferrarese, orgogliosa di lui, gli ha offerto un soggiorno di due giorni a Torino per il ritiro del premio.
E’ arrivato in Italia che era un bimbo, qui ha frequentato quasi tutte le scuole. Ha la cittadinanza da un anno e ha votato alle ultime elezioni, anche se poco fiducioso, proprio come un qualsiasi ragazzo della sua generazione.
“Ho sentito mio padre che diceva ad un amico pakistano: “voi pakistani”.... lui ama l’Italia, si sente italiano ed è venuto qui per scelta e a noi figli insegna lo stesso amore”. Mi dice.
Umer è un immigrato particolare che sfugge dalle frettolose classificazioni nelle quali siamo condizionati a incasellare tutti. Non è arrivato in Italia per necessità, appartiene alla casta dei Malik, una delle più alte nel suo paese. Il padre era molto vicino a personaggi politici di spicco e forse anche lui avrebbe potuto avere una fetta di potere, ma ha preferito girare per l’Europa che da sempre l’affascinava e stabilirsi definitivamente in Italia dove si è fatto raggiungere dalla famiglia. Gli stessi pakistani, suoi coetanei, lo guardano come uno un po’ diverso da loro.
Nel super veloce treno che vola da Bologna a Torino lo ascolto passare dal un italiano sicuro e quasi ricercato, all’urdu contaminato dall’inglese, altra lingua che conosce molto bene, quando risponde al telefono alla madre che ogni tanto lo chiama, ansiosa come tutte le mamme.
Viene da una città, non dalla campagna anche se le città del Pakistan sono molto diverse dalle nostre, precisa.
Nonostante frequenti una scuola tecnico professionale (come la maggior parte degli immigrati, secondo una logica che spesso sostiene che chi non è nato in Italia ha sicuramente difficoltà linguistiche e perciò è meglio che segua un corso di studi in cui ci siano molte attività di laboratorio), ama le materie letterarie e “da grande” vorrebbe fare l’insegnante.
Anche nell’abbigliamento è difficile da inquadrare: maglietta super trendy, pantaloni tradizionali pakistani, scarpe da tennis, una bella barba ”talebana” e capelli lunghi raccolti in una coda in puro stile filosofo pacifista.
E’ uno dei fortunati che ha ottenuto la cittadinanza in modo relativamente facile, grazie ai dieci anni consecutivi di permanenza e lavoro in Italia del padre, che automaticamente è stata estesa a tutti i figli minori. Meno fortunato il fratello maggiore Bilal ormai maggiorenne da qualche anno e in quanto tale, svincolato dai diritti familiari. Lui, forse anche per questa esclusione, rimarca il suo essere pakistano, a differenza degli altri membri della famiglia. Ha abbandonato la scuola, studia il Corano e si avvia ad essere un buon ortodosso mussulmano.
Umer, invece, a proposito di religione ha un’idea legata all’utopia di giustizia fra gli uomini. Parlare di religione con lui non suscita alcuna contrapposizione. Ama la scuola da sempre, soprattutto le materie letterarie, di quelle tecniche conosce la teoria, la sa pure applicare, ma non gli interessa. Vorrebbe frequentare l’università. Sogna una vita di soddisfazione personale, non gli importa dei soldi ed è polemico col padre che in occidente ha assunto un atteggiamento più materialista nei confronti dell’esistenza.
Chi scrive ha avuto il privilegio di accompagnarlo a Torino.
Il super veloce treno arriva a Torino. Usciamo da una stazione modernissima e ci immergiamo nella città divertendoci uno per la novità, l’altra per le continue espressioni di compunto stupore dell’altro. Lo fotografo quando meno se l’aspetta.
Ogni tanto lo stuzzico suscitandogli l’ansia per la mattina dopo, quando sarà insignito ufficialmente del diploma di poeta.
Che valore ha per un ragazzo ricevere un premio letterario in una lingua diversa da quella madre?
Dovrei capirlo da sola quando mi invita a condividere l’auricolare per ascoltare un gruppo rock di anglo pakistani che qualcuno, dice orgoglioso, paragona ai Beatles. “La loro musica va alla grande, piacciono ai ragazzi inglesi, italiani, in Pakistan hanno avuto un successo enorme e molti si pettinano e si vestono come loro! Anche in classe” . Ascolto ubbidiente aiutata dalla traduzione delle parole, dolci come la poesia che amano i pakistani, ritmate da un rock in piena regola!
La poesia con la quale Umer ha vinto il premio ha un contenuto d’amore, si intitola “Tu” . Non mi rivela chi ci sia dietro quel tu e la mia curiosità antropologica se ci sia un’italiana, una pakistana o l’idea stessa di amore, rimane inappagata.
Il tragitto dall’albergo alla sala conferenze della Galleria d’Arte Moderna è un piacevole percorso per le vie dritte, un continuo attraversamento di incroci perfettamente ortogonali in una mattina di un maggio freddo e grigio.
Arriviamo.
La sala è piena di studenti di ogni ordine e grado da tutta Italia. Sarà una mattinata lunga.
Umer è uno dei primi classificati. L’organizzatore lo chiama scusandosi per la pronuncia non perfetta del suo nome.
“Indiano, Pakistano... Una bella barba, come la mia, ma la mia è bianca mentre la tua è nera!”
Una lunga stretta di mano, un applauso calorosissimo e un neo: l’iPhone scarico non gli permette di leggere i messaggi degli amici né di ricevere le telefonate da casa.
Umer è stato l’unico straniero a ricevere il premio, ma non sembra che la faccenda lo stupisca.
Lui viaggia per altri lidi.
La parola straniero non lo riguarda, è un problema nostro.
Sa che suo fratellino che ha i suoi stessi interessi, sceglierà una scuola più adatta e che lui non si piegherà al concreto materialismo del padre.
Un vero poeta è un professionista del sogno!
“Prof. senta che bella questa!” porgendomi l’auricolare e condividendo la musica andiamo a goderci la mezza giornata che ci resta a Torino.



Per restare in Italia basta trovare marito entro 12 mesi
corriere della sera, 29-05-2013
Roberto Rizzo
Per una ragazza straniera che, come tanti giovani italiani, sopravvive tra occupazioni precarie e lavori in nero, qual è la strada più veloce per rimanere in Italia? «Trovarsi un marito italiano entro 12 mesi, quanto dura il permesso di soggiorno». È la storia di Imen, protagonista di «Extra Comunitaria», romanzo della tunisina Gihen Ben Mahmoud in uscita in versione e-book per Narcissus Self Publishing. La storia è ambientata a Milano dove Ghien, 32 anni, fumettista di professione per diverse case editrici francesi, vive da quando ne aveva 26. «Imen, che è scappata dalla Tunisia dopo la rivoluzione di due anni fa, per trovare l’anima gemella si iscrive ad un sito di incontri e qui parte la girandola di personaggi, molti dei quali corrispondono a persone che ho realmente conosciuto nella mia esperienza milanese. Ma tutto il libro racconta situazioni e tematiche che ho vissuto in prima persona».
Il romanzo, a cui non fa difetto una buone dose di autoironia, è prevalentemente ambientato nella zona dell’Università Statale. «Uno dei mie quartieri preferiti anche se amo tutta Milano», prosegue Ghien. «È stato un innamoramento a prima vista: a parte il costo della vita, non ho motivi per lamentarmi della città che mi ha accolto a braccia a perte quando ho lasciato il mio Paese». Un paio di capitoli di «Extra Comunitaria», sottotitolo «La prima vera araba», sono dedicati alla Tunisia. «Ci torno un paio di volte l’anno e la situazione continua a essere instabile. Soprattutto mi preoccupa la progressiva islamizzazione del Paese».
    Alla fine, Imen troverà il marito italiano? «Questo lo lascio scoprire ai lettori, ma l’importante non è la meta bensì il viaggio che si fa».



La sindrome di Stoccolma
La rivolta giovanile nei sobborghi ha lasciato segni e ferite Lo scontento incrina il modello scandinavo
Ma il premier nega: “Solo teppisti”
la Repubblica, 29-05-2013
Anais Ginori
STOCCOLMA Appena venti minuti di metrò, ma è come dal giorno alla notte. La linea d’ombra che accompagna la perdita d’innocenza è questa. Alla partenza c’è la città maestosa e ignara di quel che accade, affacciata sul mare, i vicoli medievali di Gamla Stan pieni di turisti, con il palazzo reale, il museo dei Nobel, il parlamento. Poche fermate, e appena in superficie cambia tutto. “Stockholm suburbia”, adesso li chiamano così. I sobborghi di case tutte uguali con le parabole puntate a Sud, i giovani che bivaccano negli androni picchiettando sui loro cellulari mentre, intorno, i volontari cercano di cancellare le tracce della battaglia. Macchine bruciate, le finestre rotte dalle sassaiole. «Stiamo lentamente tornando alla normalità», spiega cortese il portavoce della polizia, Lars Bystroem.
Sono durati una settimana, gli scontri notturni tra agenti e bande di incappucciati, che dalla capitale minacciavano di estendersi a tutto il paese. Nelle ultime ore si segnalano incidenti isolati e sempre più sporadici. Solo i rinforzi di polizia arrivati da Göteborg e Malmö, insieme a una pioggia sottile, sono riusciti a rimandare a data da destinarsi, almeno per ora, quella che anche il premier svedese Fredrik Reinfeldt ha battezzato ufficialmente come «rivolta ». Gli osservatori stranieri si sono precipitati a dire che in quei roghi urbani è andato in fumo anche il modello scandinavo, tra i più avanzati del mondo nel garantire eguaglianza e giustizia sociale. La risposta del premier, in modalità legge&ordine — «non ci sono vittime del sistema, solo teppisti» — più che una svolta autoritaria ha rivelato l’orgoglio ferito.
Il poco socialdemocratico Nicolas Sarkozy aveva chiamato “feccia” i ribelli della banlieue parigina. Al di là delle definizioni, sono giovanissimi. La maggior parte delle persone fermate durante gli scontri è minorenne, non ha finito gli studi e non ha un lavoro, come un quinto dei ragazzi delle periferie più povere. Sempre in omaggio a un politicamente corretto che qui è stile di vita, si finge anche di ignorare la nazionalità di questi rivoltosi: la tradizione progressista impedisce alle autorità svedesi di fare classificazioni “etniche”. Ma sono tutti figli di quei profughi balcanici, afgani, iracheni, somali, siriani, che negli ultimi vent’anni hanno trovato rifugio qui e costituiscono ormai il 15% della popolazione svedese. Si sa, ma non si dice, e non lo si può neppure scrivere. Nelle cronache di questi giorni non è permesso fare distinzioni etniche, ma è almeno consentito interrogarsi sul “fallimento dell’integrazione”.
Lo stesso paradosso si ripete a proposito del sessantanovenne ucciso dalla polizia il 13 maggio a Husby, la periferia a nord della capitale, dove tutto è cominciato. Secondo la versione ufficiale, contestata da alcuni testimoni, l’uomo aveva brandito un machete contro gli agenti. Chi era la vittima che ha innescato le proteste? Un giornale locale
ha osato scrivere che non era “autoctona”, ma di origini portoghesi. I media non hanno voluto riprendere la notizia e continuano a garantire l’anonimato dell’uomo, fino a conclusione dell’indagine della magistratura sul caso. Può apparire un atteggiamento miope, un’inutile ipocrisia. Eppure, in passato, è anche attraverso queste prudenze che si è costruito quel patto di convivenza civile, ora pericolosamente entrato in crisi.
Come Londra 2011, e ancor prima Parigi 2005, anche la civile Stoccolma scopre di essere circondata da una cintura di disagio e frustrazione. La violenza degli scontri non è simile a quanto accaduto nelle altre due metropoli europee, questo è pur sempre un paese con appena nove milioni di abitanti. Le scale di grandezza sono diverse, così come il paesaggio urbano. Husby è un quartiere vivibile, di case basse e rosse costruito negli anni Settanta grazie al “milion program”, un visionario piano di edilizia popolare. Parchi curati, scuole, biblioteche e trasporti pubblici perfettamente funzionanti. Ma per le nuove generazioni conta lo scarto tra quel che la società promette e quel che non riesce a mantenere. Dall’alto della sua reputazione e delle aspettative che ne conseguono, la Svezia paga forse un prezzo ancora più alto nello sfogo di rabbia e delusione. Le opportunità professionali e di miglioramento delle condizioni di vita si distribuiscono in modo sempre più asimmetrico.
I giovani di Kista, altra periferia in rivolta, si sentono beffati due volte.
Vivono nel quartiere considerato la Silicon Valley di Stoccolma, ma guardano i grattacieli delle società ultratecnologiche costruiti accanto ai palazzoni dove sono nati come un monumento alla loro esclusione: sanno che difficilmente otterranno un colloquio di lavoro in uno di questi gruppi. Oltre quelle vetrate, non c’è posto per loro. «Sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro momento». Ghamari Hamid, istruttore di origine iraniana che lavora in una palestra di Kista, considera la sparatoria di Husby come un mero pretesto. «Non si può cercare una sola risposta. La disoccupazione è solo una delle tante cause. I ragazzi si sentono isolati, lasciati ai margini».
Sul giornale progressista Aftonbladet l’editorialista Lena Mellin parla di fiasco politico. «Per troppo tempo — scrive — non è stato possibile neanche dire che in un quartiere in cui convivono 114 diverse nazionalità servono più risorse e servizi pubblici». Le derive del “politicamente corretto” sono imputate alla lunga egemonia del partito socialdemocratico. Oggi, in una sorta di contrappasso, sono finite sotto accusa anche le politiche del governo conservatore, al potere dal 2006. Negli ultimi sette anni, il premier Reinfeldt ha tagliato le tasse e la spesa pubblica, che rimane comunque la più alta d’Europa dopo la Francia. Salari e contributo sociali più bassi, istruzione e sanità aperti ai privati. Un’iniezione di liberalismo nel caro, vecchio welfare, con l’obiettivo di rendere più competitiva l’economia nazionale. In parte ha funzionato, come ha sottolineato qualche mese fa l’Economist, plaudendo alla tigre scandinava. La Svezia è sfuggita alla recessione che altrove ha colpito l’Europa senza però sconfiggere la disoccupazione (8,7%) ma ha conosciuto il più rapido incremento delle disuguaglianze nelle società occidentali, dati dell’ultimo rapporto dell’Ocse.
L’illusione che non sia successo niente è di breve respiro. Husby ha già cambiato l’agenda del parlamento, costretto a ridiscutere le politiche di integrazione, su richiesta di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi. La Svezia è stato l’ultimo paese europeo a cedere all’ondata populista. Soltanto nel 2010, il partito xenofobo, che vuole chiudere le frontiere e rimandare a casa i clandestini, è riuscito a entrare nel parlamento con oltre il 5%. Gli ultimi sondaggi prevedono un raddoppio dei consensi in vista delle elezioni dell’anno prossimo.
È ancora presto per dire se la Svezia, dopo gli incidenti di questi giorni, sia pronta a stravolgere una tradizione di tolleranza e accoglienza, cedendo alle sue pulsioni più oscure, così ben raccontate, e quindi esorcizzate, nei noir degli autori scandinavi. «Stoccolma non brucia e la discriminazione non è sempre legata al razzismo», commenta la scrittrice di origine curda Nima Sanandaji. Parte della popolazione, spiega, viene lasciata ai margini per cause economiche, legate all’educazione, al retroterra culturale.
«Smettiamo di colpevolizzare la nostra società», chiede Sanandaji. È cresciuta nelle periferie degli immigrati e diventata intellettuale di successo, così come Zlatan Ibrahimovic è uscito dal ghetto di Rosengärd, fuori Malmö, per diventare un campione di calcio. Henning Mankell, lo scrittore del commissario Wallander, sostiene che la Svezia è abituata a interrogarsi e scrutare il suo cuore di tenebra, in una ricorrente perdita di innocenza, cominciata addirittura con l’omicidio di Olof Palme, quasi trent’anni fa. Finora, dopo ogni esame di coscienza, il paese è sempre riuscito a restare in bilico, camminando sul filo della sua innata capacità al compromesso. Ma anche lassù, nella fredda e civile Svezia, conservare l’equilibrio è difficile, sempre più difficile.



Parla lo scrittore Tamas
“Il razzismo è strutturale ma nessuno lo ammette”
la Repubblica, 29-05-2013
intervista di A. G.
STOCCOLMA «Questo tipo di rivolte urbane sono destinate a ripetersi, siamo in una situazione esplosiva». Gellert Tamas ha pubblicato negli anni Novanta un profetico libro che raccontava come l’odio razziale e il nichilismo stessero crescendo dentro all’idilliaca società svedese. Il giornalista esperto di estrema destra è stato tra i primi narratori a indagare l’ambivalenza scandinava. Il suo bestseller L’Uomo Laser pubblicato in Italia da Iperborea ha ricostruito la storia vera di un killer di immigrati che nel 1991 aveva seminato il panico a Stoccolma. Il primo segnale che nella capitale svedese c’erano problemi di integrazione? «L’immagine della Svezia come paese della tolleranza è superata da ormai un paio di decenni. La società è sempre più divisa. Una parte della popolazione è stata marginalizzata. Esiste purtroppo una discriminazione in base al cognome e al colore della pelle, ma nessuno vuole riconoscerlo. È un argomento tabù».
Eppure, rispetto a Londra e Parigi, le periferie di Stoccolma sembrano più vivibili.
«Gli abitanti delle periferie svedesi non si paragonano alle altre periferie europee. È vero che Husby dall’esterno sembra sicura, non è così brutta come una banlieue parigina. Ma per i giovani di Husby il paragone è con il centro di Stoccolma. È questa differenza che alimenta la frustrazione».
La crisi economica è arrivata fino in Svezia?
«No, le discriminazioni sono legate alle origini etniche. In un quartiere come Husby, la metà degli alunni di origine straniera non arriva al diploma. È il fallimento del nostro sistema di integrazione, non è solo un problema economico».
Il premier Reinfeldt sostiene che si tratta solo di giovani “teppisti”.
«La violenza è da condannare sempre e comunque. Ma usare il termine “teppista” significa puntare il dito contro questi ragazzi senza cercare di capire cosa c’è dietro. Un po’ come quando Sarkozy disse racaille. È un modo di scaricare tutto il disagio sugli altri, mentre c’è anche una precisa responsabilità politica».
Quale?
«Questo governo ha diviso la Svezia, promuovendo una mentalità individualista, legata al successo e alla carriera, una cultura del lavoro sul modello anglosassone lontana dalla tradizione scandinava di giustizia sociale».
Il razzismo nelle forze dell’ordine è davvero così diffuso?
«Nella polizia c’è un razzismo strutturale, del quale abbiamo avuto varie prove. A gennaio, la polizia svedese ha lanciato un piano contro l’immigrazione illegale attraverso il facial profiling, ovvero fermando le persone del metrò solo in base ai tratti somatici. C’è stato un grande scandalo, ma nulla è cambiato».

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