Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Rom questione di muscoli?

Ubaldo Pacella
L’allontanamento dei rom, decretato dal presidente francese Sarkozy con il piglio tipico di una muscolarità tutta di facciata, ha trovato in Europa la sponda inascoltata del Presidente del Consiglio italiano.

Non è a ben vedere questione di poco conto, tant’è che nella società contemporanea le entità numeriche, le minoranze, i gruppi assumono una dimensione di rappresentanza non in funzione delle idee, piuttosto di come possono essere utilizzati da quella sorta di circo mediatico rappresentato dai media.
Un derelitto pastore del profondo degli USA, per questo perverso gioco di specchi incrociati, ha con farneticanti dichiarazioni costretto lo stesso presidente Obama ad un lavoro diplomatico di certosina pazienza. Tutto costruito sulle sabbie mobili del nulla.
Fenomeno inverso quello dei Rom. Fanno notizia ormai raramente, relegati ai margini della cronaca, così come lo sono della società. L’ambigua sopportazione che li circonda descrive l’essenza liquida entro la quale restano confinati.
Dimenticate per sempre alcune belle pagine di letteratura che  descrivono queste popolazioni nomadi, lasciata nella biblioteca di montagna la prosa di Sgorlon, non ci resta che fare i conti con fugaci immagini livide e straccione propinate dai più disparati Telegiornali. Trasuda da queste una sorta di insensibilità alle disgrazie,  un alzare il proprio schermo cencioso quale metafora di una autonomia, della diversità che queste etnie conservano, pur nello smarrirsi entro la società contemporanea, dove il nomadismo classico ha lasciato il posto a quello virtuale. Dove ci si muove per un progetto, almeno ipotetico, di lavoro, di libertà, di benessere. I Rom spesso non sono interessati a questo. Le malversazioni di cui è intessuto l’immaginario collettivo sovente restano legate all’ancestrale necessità di mantenersi, anche in modo illecito, senza radicarsi in alcuna forma con il territorio e le comunità.
Sono una minoranza che sembra non chiedere dignità, né attenzione. Difficilmente protesta, rifiuta la ribalta pubblica, perché da essa ha quasi tutto da rimettere. Muovono raramente a compassione e comunità e amministratori pubblici sono ben lieti di non ospitarli, o comunque di confinarli in zone il più marginali possibili.
Ecco perché l’irrompere sulla scena della questione Rom, dettata dal Sarkò parigino con il fragore di un temporale estivo, appare destinata ad essere altrettanto rapidamente dimenticata. Tanto complesso è il rapporto con la gestione sociale dell’accoglienza di questi simulacri di tribù nomadi delle più diverse etnie e nazionalità. Si fa fatica a confinare la stessa riflessione nei diversi ambiti giuridici, sociologici, culturali e politici. Ogni parola d’ordine per quanto becera non è in grado di definirne i contorni. Le grida di greve sapore leghista che potrebbero levarsi da oscure coscienze tanto neglette quanto ignoranti con il fatidico: “ Rimandateli a casa” lasciano il posto al sorriso, se si pensa che molti Rom sono italiani. Che dire poi del fatto che in queste comunità allignano cattolici e ortodossi, musulmani e sincretisti. I Rom non sono un gruppo di diseredati uniti da destini diversi, bensì popolazioni con un passato fiorente di allevatori di cavalli o di artigiani, che la storia a finito per lasciare ai margini. Appartengono ad un passato sconosciuto, sono una presenza “ diversa” per questo considerata ostile. Un problema difficile da affrontare, più facile da rimuovere, con una manciata di euro e l’esibizione di quella autorità dello stato che d’altro canto non è in grado di controllare il territorio, di contrastare la criminalità organizzata, di sostenere politiche di accoglienza o di inserimento, di creare campi attrezzati e di costruire un reticolo sociale positivo che sappia coniugare con il sostantivo Rom valori positivi, non esclusivamente quelli del delinquere o della marginalità.
Comprendere  risulta assai complicato, sciogliere i nodi della storia impegnativo, affrontare gli squilibri e le contraddizioni tra le comunità locali e i Rom un rompicapo, anche per quei progressisti che a colpi di supponente lassismo, di ricette improntate ad una prodigalità dovuta da altri, di consigli lasciati piovere dai salotti buoni tra un tè e una conversazione colta hanno per decenni alimentato quella sorda indifferenza che si fa strada tra il popolo minuto. E’ questa che drammaticamente riaffiora oggi, nella crisi del pensiero, dei valori, degli ideali, quando il fumo di una economia dissennata si dirada e sul campo restano le spoglie di una società impaurita, fradicia di speranza, desiderosa di trovare un futuro che scivola via dalle mani come sabbia.
Affrontiamo con umiltà e metodi nuovi piste di dialogo inclusive con i Rom, più che con altre minoranze. Dismettiamo i panni di chi ha la prosopopea di vantare soluzioni che altro non sono che fangose imitazioni di antiche e orrende devianze. Non pensiamo che la rimozione, anche quella coatta, possa aiutarci.
Il problema non è solo giuridico, normativo, comunitario o sociale è una questione di strumenti culturali, di primato dell’etica. Nessuna sopraffazione potrà seminare la speranza e il cambiamento necessari per uscire dai ghetti e sovente questi presentano i confini della maggioranza silenziosa, dei cittadini onesti, delle comunità in buona fede. Non abbiamo il diritto di additare nessuno al ludibrio, tanto meno quello di zittire le nostre coscienze, soprattutto quando a proporlo in maniera strisciante sono politici cui si addice meglio il palco dell’avanspettacolo ringhioso e sboccato, che lo scranno dello statista.


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