Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

07 dicembre 2010

Silenzio sul dramma degli Eritrei prigionieri nel deserto del Sinai
l'Unità, 07-12-2010    Italia-razzismo
Sono in 250. Tra loro donne in stato di gravidanza, bambini. 9 uomini hanno riportato gravi ferite per le violenze subite. Ad altri è stata imposta, pare, l’asportazione di un rene, unica loro proprietà per pagare il riscatto. Alcuni sono stati uccisi. Quelli sopravvissuti sono ostaggi: tenuti in catene nel deserto del Sinai, ricattati da trafficanti che pretendono 8.000 dollari in cambio della loro vita, picchiati, marchiati a fuoco, minacciati, senza acqua potabile e con un pezzo di pane e una scatola di sardine ogni tre giorni. La maggior parte è di nazionalità eritrea, ma ci sono anche etiopi, somali, sudanesi. Hanno pagato 2.000 dollari per riuscire ad arrivare in Israele affidandosi a schiavisti che ora chiedono il quadruplo per liberarli. In 80 hanno iniziato il viaggio da Tripoli e tra loro ci sono quegli uomini e donne che, fino al luglio scorso, erano prigionieri nel carcere libico di Al Braq. Alcuni erano stati respinti prima dell’arrivo sulle nostre coste per via dell’accordo d’amicizia siglato con la Libia e il nostro governo si era impegnato a fornire risposte e a trovare soluzioni per garantire la protezione che il loro status di rifugiati esige. Ora ci risiamo: il governo italiano non ha fatto niente allora e non sembra intenzionato a fare qualcosa adesso, quando sarebbe, invece, il momento di assumere una posizione netta. Con il governo libico, innanzitutto, per porre fine alla pratica dei respingimenti e con il governo egiziano sul cui territorio si trovano i prigionieri. Oggi alle ore 11, presso la sala stampa del Senato, A Buon Diritto organizza un incontro a cui parteciperà Don Mussie Zerai, sacerdote eritreo che è in contatto telefonico con alcuni ostaggi e con i loro familiari.



Eritrei ostaggio in Sinai, appello all'Italia: "Fate presto, stiamo morendo"
La richiesta d'aiuto lanciata attraverso il Mediterraneo dai profughi e raccolto dall'Agenzia Habeshia, che rilancia un appello alle istituzioni affinché possano fare pressione sul governo egiziano

ROMA - "Fate presto perche' qui stiamo morendo". È la richiesta d'aiuto lanciata attraverso il Mediterraneo dai profughi tenuti in ostaggio nel deserto del Sinai ormai da una trentina di giorni e raccolto dall'Agenzia Habeshia, che questa mattina nella sala stampa di Palazzo Madama, sede del Senato, rilancia un appello alle istituzioni italiane affinche' possano fare pressione sul governo egiziano per far sì che i circa 250 profughi eritrei, etiopi, somali e sudanesi prigionieri possano salvarsi dal baratro su cui pendono.

L'iniziativa, organizzata dall'associazione 'A buon diritto' e il Consiglio italiano per i rifugiati, e' stata voluta per porre l'attenzione del mondo politico sul ruolo dell'Italia in una nuova tragica vicenda di cui sono vittima i profughi che scappano da scenari di guerra e da condizioni di vita difficili.

La situazione aggiornata delle condizioni di vita dei profughi la fornisce don Mussie Zerai, sacerdote cattolico eritreo, direttore dell'Agenzia Habeshia. "Ho chiamato alle 9.30 di stamattina per chiedere la situazione attuale- ha spiegato Zerai-. Ogni ora che passa è sempre più drammatica". In catene come schiavi: umani, uomini, donne -alcune incinta- e bambini. Tenuti in ostaggio da beduini trafficanti per chiedere un riscatto. Ma ora dopo ora, ha affermato Zerai, la situazione diventa sempre piu' critica. "Mi hanno riferito che non è cambiato nulla- ha raccontato-. Sono ancora in catene, in condizioni disperate. Una delle donne è incinta e mi ha detto che non ce la fa in queste condizioni. Vivono nella sporcizia, in condizioni igienico sanitarie pessime. Alcuni sono feriti a causa delle botte prese, soprattutto con lo scadere degli ultimatum lanciati dai trafficanti sabato e domenica, quelli che non hanno versato neanche un centesimo sono stati picchiati selvaggiamente. Parlano di teste fracassate, braccia e gambe rotte. C'è chi zoppica e chi sanguina, c'è un'urgenza di cure".

L'obiettivo dei trafficanti è ottenere un riscatto dai familiari. Don Mussie Zerai, infatti, riesce a mettersi in contatto con loro fingendo di essere un parente. Ma chi non ha parenti o possibilità economiche per pagare il riscatto fa una brutta fine, le intenzioni dei trafficanti vanno oltre ogni immaginazione. "Dalle informazioni che ci hanno dato ci risulta che li costringono a chiamare i familiari. Chi fa resistenza viene marchiato con il fuoco. Sabato, poi, hanno prelevato 4 persone che dicevano di non aver nessuno che poteva pagare il riscatto. Sono stati portati in clinica per poter asportate un rene e venderlo. Di loro non hanno avuto piu' notizia. Ogni ora che passa diventa sempre piu' pericolosa per queste persone".

Ma in questo scenario qual è il ruolo dell'Italia? La richiesta di un impegno immediato nel far pressione alle autorità egiziane, si affianca anche ad un'accusa alle politiche dei respingimenti. "La decisione di respingimenti e la chiusura dei propri confini porta anche a queste situazione. L'Italia in questo senso è coinvolta. Molti dei prigionieri sono partiti dalla Libia, sono circa 80. Tra loro anche una donna con un bambino di 8 mesi che era stata respinta il 6 giugno di questo anno, quando erano vicino a Lampedusa. Fui io stesso a lanciare l'allarme alle autorità. Hanno aspettato tre giorni perchè arrivasse una motovedetta italiana con agenti libici. Questa donna ora è lì". Oggi, però, sul nodo dei respingimenti prevale la necessità di salvare queste persone. "L'unico che puo' intervenire è lo Stato egiziano- ha affermato Zerai-.

Occorre insistere e premere sul governo egiziano perche' intervenga. Sono a poche distanze dal confine israeliano. Le informazioni sulla loro posizione e il numero di telefono a cui chiamo sono già state consegnate alle autorità italiane e all'Unhcr del Cairo per localizzarli al più presto possibile. I trafficanti sono al corrente del tam tam mediatico e c'è il rischio che vengano spostati in un altro luogo".(Dire - Redattore Sociale)

7 dicembre 2010 - Dire




Sul Sinai si aggrava la situazione degli eritrei rapiti, «il rischio è che li spostino»

Pubblicato da Emilio Fabio Torsello il dicembre 7, 2010 in Mondo, Società
Sul Sinai si aggrava la situazione degli eritrei rapiti, «il rischio è che li spostino» Thumbnail

«Adesso il rischio più immediato è che li spostino». A lanciare l’allarme sulla sorte dei profughi eritrei sequestrati in Libia è ancora una volta don Mussie Zerai, sacerdote eritreo della ong Habeshia, intervenuto oggi durante un incontro in Senato sulla questione degli ostaggi sequestrati sul Sinai.

La situazione dei 250 rapiti resta drammatica. Sei persone sono già state uccise, quattro sono sparite dopo essere state costrette a donare i loro organi per pagarsi il riscatto, numerosi sono i feriti. Almeno 80 dei rapiti, inoltre, fanno parte del gruppo di eritrei respinti dall’Italia il 6 giugno scorso, fuggiti in Egitto dopo la “sanatoria” del governo libico che ha svuotato le carceri di Gheddafi. Nonostante il Paese di Mubarak, a differenza della Libia, abbia ratificato la Convenzione di Ginevra, però, sembra che i migranti non abbiano alcuna garanzia. «L’Egitto – continua Zerai – non è nuovo a deportazioni di eritrei verso il loro Paese d’origine e quindi è necessario che quando la situazione si risolverà qualcuno si faccia carico di queste persone».

«Sono state trasmesse – ha proseguito Zerai – al sottosegretario agli Esteri, Stefania Craxi, tutte le informazioni utili a individuare il luogo di detenzione degli eritrei. Trovarli anche attraverso le schede telefoniche per i governi non dovrebbe essere difficile». Secondo alcune informazioni, infatti, i rapiti si troverebbero alla periferia di una citta’ da cui riuscirebbero anche a sentire la voce del muezzin che chiama alla preghiera.

Christopher Hein, direttore del Consiglio Italiano Rifugiati, ha poi sottolineato come Israele stia costruendo un muro di 110 chilometri proprio nel Sinai, al confine con l’Egitto, per arginare l’immigrazione clandestina.  «Abbiamo notizia di alcune uccisioni di eritrei – spiega- perché i soldati hanno l’ordine di impedire l’attraversamento del confine».

«Si continua a fuggire da paesi come l’Eritrea o la Somalia, ma la gente non arriva più in un posto sicuro» ha aggiunto Laura Boldrini, portavoce italiano dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati. E l’unica conseguenza della politica italiana dei respingimenti è numerica: si è passati dalle 31mila domande di asilo del 2008 alle circa 10mila previste per quest’anno. «Questa vicenda – ha concluso la Boldrini – non puo’ essere considerata come qualcosa che non ci appartiene».
Diritto di Critica 7 dicembre 2010



Nuovo ultimatum ma i 250 profughi restano in catene
DOMENICA IL PAPA HA FATTO APPELLO PER LA LORO LIBERAZIONE
il Fatto Quotidiano, 07-12-2010
Corrado Giustiniani
"L' Egitto si assuma la responsabilità di ogni vita che viene persa nel deserto del Sinai in questi giorni". Usa parole forti don Mussie Zerai, il prete eritreo che da Roma si batte perché siano salvati i 250 profughi africani ridotti in schiavitù un mese fa da una banda di trafficanti: catene ai piedi, cibo ogni tre giorni, acqua salata come risposta alla sete e bastonate a sangue.
A mezzanotte di domenica era scaduto il secondo ultimatum, e per questo il contatto di ieri mattina si annunciava drammatico : ma alla fine Biniam, il ragazzo venticinquenne di cui don Mussie si finge un parente ricco, è venuto al telefono: "Ci hanno chiesto 500 dollari per restare ancora in vita, e glieli abbiamo fatti arrivare". Cinquecento per non essere uccisi, 8 mila per riconquistare la libertà. Ha detto anche, Biniam, che i soccorsi debbono giungere in fretta, per-ché gli ostaggi sono allo stremo delle forze e i carcerieri appaiono infastiditi dal tam-tam mediatico che si sta creando attorno al loro caso, grazie anche all'appello che il Papa ha rivolto domenica all'Angelus. Benedetto XVI ha invitato a pregare perché "Gesù porti consolazione, riconciliazione e pace" in tutte le situazioni di violenza facendo specifico riferimento "alle vittime di trafficanti e di criminali" e al "dramma degli ostaggi eritrei e di altre nazionalità nel deserto del Sinai".
MA IL NOSTRO governo, cosa sta facendo? "Siamo in contatto con il viceministro egiziano degli Affari consolari Abdel Akam - risponde Stefania Craxi, sottosegretario agli Esteri con delega per l'Africa del Nord - È lui che coordina l'Interno, i Servizi di sicurezza e il Governatorato del Sinai. Ci ha fatto sapere che  sono  continuamente  alle prese con bande di beduini che fanno azioni del genere. L'Egitto è tutt'altro che connivente, ma non hanno informazioni sul caso specifico". Ma non eravamo noi a dover dare informazioni a loro? Non aveva saputo, don Mussie e dagli stessi prigionieri, il nome della città del nord piuttosto vicina al confine con Israele dove i profughi vengono tenuti in catene? "Io stesso ho mandato una mail alla segreteria dell'onorevole Craxi, contenente il nome della località - afferma stupito don Mussie - e l'inviata pure agli uffici Unhcr del Cairo". La onlus umanitaria Everyone ha esteso queste indicazioni, strettamente confidenziali, agli uffici Onu di Ginevra e, ieri, addirittura al ministero dell'Interno egiziano. Anche l'altro sottosegretario, Alfredo Mantica, in missione all'estero, promette di darsi da fare: "Non per mia competenza specifica, ma come amico del popolo eritreo". Non sapeva di quelle precise indicazioni geografiche e ieri sera ha allertato l'ambasciatore italiano al Cairo, Claudio Pacifico. Anche l'onorevole delpdl Margherita Boniver é all'oscuro del nome della città: "Quando ho incontrato don Mussie, non si conosceva ancora. Ma ci siamo mossi ai livelli più alti, allertando ministro e capo della sicurezza egiziana". Mentre i prigionieri hanno dovuto comunicare ai parenti europei, attraverso il satellitare dei carcerieri, il numero segreto con il quale al Cairo, via Western Union, i trafficanti hanno incassato il denaro, ci si continua a chiedere come possa essere tenuta in catene, in un luogo abitato, tutta questa gente senza che la polizia se ne accorga. "L'Italia deve operare una pressione molto più forte sul governo egiziano - osserva Luigi Manconi, presidente dell'associazion A Buon Diritto - Alcuni di questi schiavi sono stati respinti in mare dalle nostre motovedette, imprigionati nel carcere libico di Al Braq e Frattini aveva assicurato che, liberati, avrebbero ottenuto un lavoro".



Asmara, una «prigione» militarizzata dal dittatore

Avvenire, 07-12-2010
GIULIO ALBANESE
La vicenda dei profughi eritrei abbandonati al loro destino nelle mani di una banda criminale lungo il confine tra Egitto e Israele dovrebbe indurre l'opinione pubblica a domandarsi quali siano le ragioni di questo esodo forzato. Anche perché il flusso di persone che abbandona l'Eritrea in cerca di libertà è ormai in crescita esponenziale, sebbene sia impossibile avere informazioni certe sul numero e la sorte di coloro che tentano di attraversare il deserto in cerca di libertà.
La questione di fondo è che nel loro Paese, l'Eritrea, vige una delle più feroci dittature presenti in Africa. L'uomo forte del regime, il presidente Isaias Afewerki, ha imposto il monopartitisnio impedendo lo svolgimento di libere elezioni. Dall'indipendenza (avvenuta il 24 maggio 1993) in poi, molti oppositori politici sono stati arrestati e l'economia nazionale è allo stremo. Afewerki e i suoi stretti collaboratori hanno praticamente il controllo di tutto: assetti istituzionali e mili-
tari, scelte politiche e programmi economici. L'opposizione è costretta a vivere in esilio, mentre sia Amnesty International sia il Parlamento europeo denunciano gravi abusi in flagrante violazione dei diritti umani.
Afewerki ha ridotto il Paese a una sorta di prigione a cielo aperto, respingendo qualsiasi tentativo di dialogo internazionale in tema di diritti umani. Mi-gliaia di oppositori politici e di persone che hanno osato criticare il governo sono attualmente detenuti in località segrete, senza alcun contatto con il mondo esterno. Nessun di loro è mai comparso di fronte a un tribunale per rispondere di un'accusa specifica, né è stato sottoposto a un regolare processo. La tortura è sistematicamente applicata negli interrogatori e a scopi disciplinari, specialmente per punire chi ha eluso la leva, i disertori, i soldati accusati di reati militari o gli appartenenti a minoranze religiose. Le pessime condizioni in cui molti di essi sono trattenuti - celle buie, sporche e sovraffollate -sono da considerare trattamenti crudeli, inumani e degradanti; ecco che allora molti eritrei cercano disperatamente riparo all'estero.
Inoltre, la bilancia commerciale dell'Eritrea è largamente passiva - e il governo è in difficoltà nel garantire la sussistenza della popolazione. Un fenomeno, questo, acuito dal militarismo voluto da Afewerki, che ha costretto in maniera coercitiva buona parte della cosiddetta forza lavoro a prestare servizio nelle Forze armate. Il recente Rapporto del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (Sprar), rileva che il servizio militare - obbligatorio per gli adulti di età compresa tra i 18 ed i 50 anni - viene realizzato in maniera obbligatoria e spinge ogni anno migliaia di giovani ad abbandonare il Paese.
Come se non bastasse, fonti indipendenti della società civile esprimono grande preoccupazione per la "guerra fredda" con la vicina Etiopia, che complica non poco la situazione nel Corno d'Africa, uno scenario - linea di faglia in territorio africano tra Oriente e Occidente - già compromesso dalle crisi in atto sia nel Darfur sia in Somalia. Sebbene nel 2001 il governo di Asmara avesse dichiarato il proprio sostegno a Washington nella guerra al terrore, la situazione da allora è mutata notevolmente e i rapporti tra l'Occidente e l'Eritrea si sono gravemente inaspriti.
Nel contenzioso tra Etiopia ed Eritrea, che determinò una cruenta guerra dal 1998 al 2000, Washington tiene infatti le parti del governo di Addis Abeba. Secondo fonti autorevoli della diplomazia internazionale, dietro le quinte dello strapotere politico di Afewerki  si  celerebbero lauti finanziamenti di un certo mondo arabo di matrice   salafita,   che  vede l'Occidente come il fumo negli occhi. Pare   che   questa contaminazione ideologica   dalla sponda saudita sia finalizzata a consolidare la Mezzaluna   nel   Corno d'Africa. Non è un caso che l'Eritrea abbia appoggiato con uomini, armi e mezzi,   almeno   fino   al 2009, l'ala radicale delle ex Corti Islamiche in Somalia. E non è detto che non stia continuando a farlo.



YARA
Il solito sospetto
il manifesto,
Luca Fazio
Un errore clamoroso, il solito. Mohamed Fikri, il ventiduenne arrestato l'altra sera al largo delle coste italiane con un arrembaggio alla nave che lo stava portando in Marocco, probabilmente non c'entra niente con la sparizione di Yara Gambirasio, la ragazzina di Brembate scomparsa lo scorso 26 novembre. Il pm di Bergamo, Letizia Ruggeri, dopo due giorni di interrogatorio, non ha chiesto la custodia cautelare in carcere del marocchino. La magistrata è arrivata alla conclusione che, in questo caso, mancano gli indizi.
La  frase intercettata al telefonino che avrebbe potuto costare l'ergastolo all'uomo - «Allah mi perdoni, non l'ho uccisa io» - sarebbe stata tradotta male dagli inquirenti. E così la vasta letteratura degli errori di traduzione dall'arabo, un classico che sempre si ripete dall'11 settembre 2001, si arricchisce di un altro capitolo che avrebbe potuto avere conseguenze molto dolorose - e non solo per il «solito sospetto».
La clamorosa svolta, se verrà confermata, ricorda l'abbaglio preso da altri inquirenti per la strage di Erba -quando il tunisino Azuz Marzuk fu in un primo tempo accusato di aver ucciso moglie e figlio - e mette a tacere alcune voci xenofobe che avevano dettato il tono delle prime cronache da Brembate. Un paio di cartelli idioti fotografati a più riprese (e in diverse location) dai più importanti quotidiani italiani. Tanto che ieri anche il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, per contrastare quello che ormai è un riflesso condizionato, nel suo discorso alla città ha riservato una preghiera anche «perché non si sovrapponga genericamente a tutti gli immigrati la categoria della delinquenza e ogni persona, di origine italiana o straniera, deve essere sempre giudicata singolarmente, per quello che è». O, aggiungiamo, non giudicata per quello che non è. Ieri intanto sono proseguite le ricerche del corpo della ragazzina, mentre si fanno più insistenti le voci di un coinvolgimento di due persone, italiane.
Il probabile esito doloroso della vicenda ha spinto il garante della privacy a chiedere ai media di «evitare accanimenti informativi»; Mohamed Fikri forse l'ha scampata bella, ma per Yara Gambirasio e la sua famiglia sarà molto più difficile.



Yara, la logica del dossier

Precipitazione, ansia, imprecisione: che succede alle indagini?
Il Foglio, 07-12-2010
I giornali e le tv chiamano Mohamed Fikri "cittadino tunisino" o "di origine tunisina", dove il preziosimo civile e l'eufemistico riferimento all'origine nazionale dicono l'imbarazzo culturale di un tempo di migrazioni e disagi di civiltà. Fikri, come prima di lui il cittadino tunisino di Erba, Azouz Marzouk, sembra la nuova perfetta figurina depositaria del sospetto e del rancore comunitario con sfumature etnicizzanti, con la speciale caratteristica di non essere colpevole del reato per cui gii si è data la caccia: prima con i cani svizzeri in frettolosa sniffata alla ricerca di indizi nel cantiere in cui lavorava, poi intercettandolo al telefono, più avanti traducendo malmente il testo della spiata, decìdendo infine, precipitosamente e senza controllare i documenti di viaggio, che il sospettato già interrogato senza conseguenze stava fuggendo via nave, sbagliando in un primo tempo il traghetto in partenza per Tangeri, poi dirottando quello su cui si era effettivamente imbarcato e facendolo rientrare nelle acque italiane per procedere alla cattura e all'interrogatorio notturno nel carcere di Bergamo.
Non ha senso fare lezioncine agli inquirenti. Non ha senso mettere al bando astrattamente i sentimenti di paura e malessere che circondano ogni delitto, con particolare accensione e irrazionale supplemento di odio quando si tratti di delitto straniero, cioè presuntivamente opera di stranieri. Ma con tutta la modestia del caso, e ancora per certi versi nell'incertezza di un'indagine priva "praticamente di tutto, compreso il corpo introvabile di una bambina che forse è stata sequestrata e uccisa, ma forse no come è lecito sperare, è doveroso chiedere una pubblica riflessione su come si indaga oggi in Italia. Domenica, dopo la cattura di Fikri, la lettura dei giornali lasciava smarriti. L'indizio accampato era un'intercettazione, strumento già di per sé equivoco, soprattutto se usato come unico mezzo di indagine e fonte di prova, in cui il catturando diceva di "non" aver ucciso la bambina. Si scoprirà poi che non diceva nemmeno questo, e che una buona traduzione obbliga a gettare nella spazzatura l'indizio telefonico raccolto. Ma è già significativo che una affermazione a propria discolpa confidata al telefono da un ragazzo controllato e interrogato nell'ambito di indagini per omicidio (non era nemmeno una excusatio non petita, accusatio manifesta), condita di un riferimento al Dio dei musulmani,  Allah, possa essere considerata un indizio tanto pesante da autorizzare un mandato di cattura e una caccia all'uomo di quelle proporzioni.
In un pamphlet sugli errori giudiziari scritto dal celebre e controverso avvocato francese Jacques Vergès, che l'editore Liberilibri sta per mettere in circolazione, è detto che all'origine dell'errore giudiziario, oltre a vari generi di pregiudizio compreso quello etnico, sta spesso la "logica del dossier". Fatto un errore, gli altri conseguono, segue il disastro finale per le concatenazioni del partito preso, e per la difesa corporativa degli inquirenti, polizia giudiziaria e magistrato. Si vivono queste ore con l'angoscia per la ragazzina Yara, per lo stato di dolore composto della sua famiglia, ma anche
per le conseguenze aberranti, che i media dovrebbero sorvegliare invece di rimbalzare acriticamente, di una precipitazione e di un frettoloso affastellamento dei dati di una accusa penale, fino alla deriva detta "logica
del dossier". Speriamo che questa volta, dopò un primo passo nel buio, si sia in grado di evitarla.   



Il corpo non si trova, il marocchino sarà rilasciato

Intercettazioni, errori, razzismo Non c'è ancora pace per Yara
LIbero, 07-12-2010   
ALESSANDRO DELL'ORTO

Mohammed Fikri nega. No, lui non c'entra niente con questa brutta storia di Yara e in Marocco, a casa sua, ci va tutti gli anni in questo periodo. Per vacanza. Mohammed non cede (...)
(...) ed è convincente, anzi rinforza la sua tesi, interrogatorio dopo interrogatorio, e anche ieri pomeriggio, quando Vincenza Maccora, giudice per le indagini preliminari, l'ha sentito per due ore (presente il pm Letizia Ruggeri) nel carcere di Bergamo dove è rinchiuso da sabato sera, ha scosso la testa e allargato le braccia, dimostrando una serenità che finora non aveva mai avuto: «Non l'ho mai conosciuta quella ragazzina». Mohammed, 23 anni, ripete la stessa versione da tre giorni, da quando sabato sera è stato bloccato su una nave partita da Genova, destinazione Marocco. Mohammed giura di aver acquistato il biglietto di quel viaggio un mese e mezzo fa e che mai nei giorni scorsi ha pensato di fuggire e che il suo contratto di lavoro con l'azienda di Padova era scaduto e che dunque avrebbe ricominciato a lavorare da febbraio e che proprio per questo motivo avrebbe approfittato dei due mesi da disoccupato per tornare in Africa e andare a trovare la famiglia e bla bla bla.
«MIO DIO, MIO DIO...»
Già. Credibile. E la sua posizione sembra essere sempre meno decisiva nella scomparsa di Yara Gambirasio, 13 anni, che manca da casa da 10 giorni. Tanto che l'avvocato che lo difende, Roberta Barbieri, ha richiesto al gip  la   scarcerazione  (questa mattina sarà presa la decisione). Tanto che - soprattutto - lo stesso pm Letizia Ruggeri non ha chiesto alcuna misura cautelare perché non sembrano esserci gravi indizi e perché l'intercettazione telefonica attorno cui ruotavano inizialmente i sospetti, in realtà, potrebbe essere stata tradotta male: il famoso "Allah mi perdoni, non ho ucciso nessuno", sarebbe un semplice "Mio dio, mio dio fa che mi risponda", frase pronunciata verso un non precisato interlocutore.
Risultato: questa mattina Mohammed Fikri quasi sicuramente tornerà ad essere un uomo libero e tutte le polemiche e le insinuazioni, la rabbia xenofoba e il razzismo (ieri l'Arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, ha dato già un segnale forte: «Prego perchè non si sovrapponga genericamente a tutti gli immigrati la categoria della delinquenza») dovranno farsi da parte. E le indagini dovranno subire l'ennesima svolta. E gli inquirenti dovranno buttarsi nelle piste alternative. Tutto da rifare.
Anche le ricerche di Yara nelle campagne attorno Brembate Sopra, questa mattina, riprenderanno in attesa di nuovi indizi, nuove idee, nuove ipotesi.
IPOTESI CONFESSIONE
Riprenderanno, comunque, da dove si sono fermate ieri sera alle 19. Dal piccolo stagno gelato dietro il cantiere dove lavorava Mohammed. Già, perché per qualche ora, ieri pomeriggio, il caso Yara sembrava a una svolta vera.
Ore 14.30, mezz'ora dopo l'inizio dell'interrogatorio di Mohammed, nella campagna di Brembate, proprio nell'area indicata una settimana fa dai cani molecolari, arrivano a tutta velocità due auto della Polizia. La zona si anima a sorpresa, sotto gli occhi stupiti di qualche lavoratore, tre fotografi e due giornalisti. Ecco una volante dei Carabinieri. Discorsi fitti, una perlustrazione nel cantiere in cui, un anno fa, sono iniziati i lavori (interrotti) per la costruzione delle Fonderie Mazzucconi. Tensione e prime ipotesi, corse e agitazione, mentre dal carcere di Bergamo non si sa ancora nulla: che il ragazzo marocchino abbia confessato qualcosa? Perché le ricerche, sospese ufficialmente in mattinata, riprendono a colpo sicuro sotto la neve? Pochi minuti, ed ecco un camion dei Vigili del Fuoco di Bergamo. Poi un furgone dei Vigili del Fuoco di Dalmine. Sotto osservazione un piccolo laghetto, di una trentina di metri di diametro, una sorta di buca scavata per raccogliere l'acqua piovana ed impedire così che vengano allagate le aziende della strada interrata lì a fianco. Sono le 15, sul posto arrivano altri Carabinieri, Polizia e furgoni dei Vigili del Fuoco. Due sommozzatori. Si inizia a lavorare, ma non è semplice: l'acqua è mista a fango e al centro la profondità può raggiungere i sei¬sette metri, è pericoloso immergersi, meglio utilizzare uno scavatore e poi mettere in azione due idrovore, pompa usata per assorbire ed asportare grandi masse d'acqua. Il campo viene recintato, ora ci sono giornalisti, televisioni, curiosi di passaggio che sbirciano in punta di piedi, paparazzi appostati sul balcone di una casa. Fa freddo e fa buio. Quando l'idrovoro principale finalmente entra in azione, si scopre che al centro dello stagno, segnalate da quattro pali, ci sono due specie di reti. Sono gli ingressi di due fosse biologiche che, probabilmente, la scorsa settimana non erano ricoperte d'acqua. La zona viene illuminata a giorno fino ale 19, poi la decisione di rimandare tutto ad oggi. Anche perché nel frattempo si capisce che, anche questo, è un semplice tentativo senza nessuna certezza. Da Bergamo rimbalzano le prime notizie: Mohammed, nell'interrogatorio delle 14, non ha confessato proprio niente. Anzi, ha negato fermamente ancora un volta: lui, con questa brutta storia, giura su Allah di non c'entrare nulla e il pm Letizia Ruggeri ora sembra credergli e questa mattina Mohammed quasi sicuramente sarà scarcerato. La sparizione di Yara Gambirasio, 13 anni, resta un mistero.



Il pressing di Tettamanzi sui politici  "Basta scontri e caccia ai facili consensi"

L'arcivescovo di Milano propone "quattro cantieri per la coesione sociale: facciamo rivivere la città"
"Chi governa i cittadini non può discriminarne una parte. Spazzare via ogni sentimento di depressione"
la Repubblica, 07-12-2010
ZITA DAZZI
Una campagna elettorale che non sia all’insegna dello scontro e della demagogia anche sui temi caldi dell’immigrazione, ma piuttosto della volontà di affrontare i problemi veri della città e della gente, a partire dal lavoro. L’arcivescovo Dionigi Tettamanzi nella solennità di Sant’Ambrogio, parlando dal pulpito della basilica dedicata al santo patrono, davanti a tutte le autorità, invoca «un progetto ampio, con uno sguardo allargato e il coinvolgimento di tutte le persone e le realtà che hanno a cuore Milano. Serve una corresponsabilità, per superare la frammentazione e per spazzare via quel sentimento di depressione che spesso si respira». Il cardinale parla anche degli immigrati, dei rom, del diritto di culto per tutte le religioni, dei recenti fatti di cronaca che tornano a far discutere sulla presenza degli stranieri in Italia. E se il sindaco Moratti accetta il monito del porporato, fioccano subito le proteste della Lega.
Nel tradizionale Discorso alla città, il cardinale regala una visione immaginifica di una Milano divisa in «terreni fertili» (la famiglia, gli imprenditori, il volontariato, le università, gli ospedali), «soffocati dai rovi» (i poveri, i malati, i disoccupati, le «varie forme di disumanizzazione») e terreni pietrosi (le periferie abbandonate, i giovani e le famiglie dimenticati, gli immigrati e i nomadi), ammonendo chi governa ad «amare la Città e servirla integralmente, nel suo insieme, senza discriminarne una parte. E se c’è una predilezione da accordare sarà per il figlio più debole, per chi ha bisogno di maggiori cure. Alleviare le difficoltà di chi si trova nelle condizioni peggiori significa provocare una ricaduta positiva sulla città». Bisogna essere sempre meno «meno sorveglianti dello status quo, meno rappresentanti di una parte e non di altre, ma sempre più strateghi del futuro della nostra città e del suo benessere complessivo».
E citando esplicitamente il «dibattito politico e la campagna elettorale» invita a trovare «argomenti portanti che non siano solo questioni strumentali alla contrapposizione e alla ricerca facile del consenso, bensì i temi concreti e realistici». Propone anche una sorta di decalogo: «Siate responsabili, esemplari, liberi, obbedienti alla retta coscienza, all’istanza fondamentale del bene comune». E cita Sant’Ambrogio, che puntava il dito contro «chi compra i voti col denaro, chi cerca l’applauso del popolo più che il giudizio dei saggi».
Tettamanzi propone «quattro cantieri sociali per far ripartire e rivivere Milano», parla della crisi economica che ancora morde e della necessità di un «accompagnamento per cercare lavoro che si accompagni al sostegno economico», della necessità di un impegno collettivo per «investire sul futuro di interi territori». Ricorda «le innumerevoli risorse», tra cui il no profit. Anche se, dice il vescovo, «il volontariato da solo non ce la fa: ha bisogno di essere formato, sostenuto economicamente. Una minore distribuzione di finanziamenti pubblici, nuove normative fiscali, la distorsione di alcuni intelligenti strumenti di finanziamento — si pensi per esempio al 5 x 1000 — stanno penalizzando queste realtà di aiuto, fino a metterne a rischio la stessa esistenza».
Letizia Moratti esce dalla Basilica sorridente: «Condivido in pieno l’appello del cardinale agli amministratori riguardo al loro spirito di servizio. Il suo è stato un discorso pieno di stimoli, con la bellissima proposta dei cantieri sociali. L’accoglienza agli immigrati? Nel quadro dei diritti e dei doveri, come dice il cardinale». Va all’attacco invece l’eurodeputato leghista Matteo Salvini: «Il cardinale rifletta sul fatto che i cittadini stranieri a Milano sono il 16 per cento, ma portano a casa dal 40 al 70 per cento dei sussidi pubblici». Roberto Formigoni, assente perché all’estero, ha comunque voluto dire la sua sul 5 per mille: «Condivido la preoccupazione sui tagli alle cooperative e alle associazioni di volontariato. Lo Stato deve aiutare chi aiuta, la difesa del 5 per mille è irrinunciabile».



L’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi al fianco degli immigrati nel discorso alla città per Sant’Ambrogio.

Immigrazione Oggi, 07-12-2010
Riconoscere agli immigrati e ai rom “i diritti di cui sono nativamente portatori”. Sui fatti di Bergamo “prego perché non si sovrapponga genericamente a tutti gli immigrati la categoria della delinquenza”.
Per gli immigrati occorre pretendere “leggi giuste” riconoscere “i diritti di cui sono nativamente portatori e quelli che hanno maturato con il loro lavoro, premiamo, in chi ha un comportamento irreprensibile, il desiderio di diventare milanesi, italiani. Perché si agisce invece come se nessuna 'cura' fosse possibile per loro?”.
L’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, torna a parlare degli immigrati e dei rom nel tradizionale discorso che precede la festa di Sant’Ambrogio davanti alle istituzioni cittadine.
Il cardinale ha ricordato come “spesso ci si accanisca contro i nomadi per rendere ostile, a tutti i costi, il terreno in cui vivono, impedendo l’integrazione di chi vuole intraprendere percorsi di legalità e cittadinanza con il rischio di esporli ancor più alla delinquenza. Non manca persino chi spreca risorse, quasi nel tentativo di impedire la giusta integrazione, strumentalizzando la 'questione nomadi' per ottenere consensi”.
Secondo l’Arcivescovo di Milano “compito di chi amministra la città è di amarla e servirla integralmente nel suo insieme, senza discriminarne una parte e se c’è una predilezione da accordare, come fanno ogni padre e madre di famiglia, sarà per il figlio più debole, per quello che inizia svantaggiato il percorso della vita, per chi ha bisogno di maggiori cure”. Tettamanzi ha preso spunto dal capitolo ottavo del Vangelo secondo Luca in cui Gesù “davanti alla folla accorsa da ogni città per ascoltarlo” narra la parabola del seminatore che gettò la sua semente, oltre che sulla terra buona anche tra le pietre, tra i rovi e sulla strada. Milano, nelle parole dell’Arcivescovo è appunto “il terreno su cui seminare”. Un terreno che, come per il seminatore dell’Evangelista Luca, non è solo terreno buono: i semi infatti cadono anche su quello cosparso di rovi, di pietre, e infine sulla strada, un luogo impossibile da far germogliare dove gli stessi semi “vengono calpestati e diventano preda di uccelli”. La strada infertile, nella parabola moderna ispirata a Luca, è quella parte di città dove sopravvivono gli immigrati, la cui protesta sulla torre di Via Imbonati ha riproposto anche a Milano la drammaticità della situazione. “Non io ma molti altri, purtroppo – ha spiegato il cardinale – paragonano questo terreno, ad esempio, alle persone immigrate che vivono la paradossale situazione di clandestinità: ben note ai propri datori di lavoro ma invisibili alle Istituzioni che non riescono a realizzare un possibile e rispettoso progetto di emersione da quella illegalità formale in cui sono relegate. E’ per il bene di queste persone e della città che occorre offrire loro il seme della speranza, per aiutarle a costruire un futuro di cittadinanza vera, all’insegna dei doveri e dei diritti, per sé e le loro famiglie, così da rendere pieno il loro apporto alla società, per allontanarle dalla tentazione e dalle scorciatoie della delinquenza”.
L’erede di Sant’Ambrogio come titolare della diocesi di Milano ha poi rivolto un pensiero all’attualità, parlando della scomparsa della giovane Yara a Bergamo di cui uno degli accusati è un immigrato marocchino. “Prego – ha dichiarato Tettamanzi – perché non si sovrapponga genericamente a tutti gli immigrati la categoria della delinquenza. Ogni persona, di origine italiana o straniera, deve essere sempre giudicata singolarmente, per quella che è, non dimenticando mai che il giudizio più vero e definitivo è quello di Dio”. Per l’arcivescovo “davanti ai gravissimi fatti che stiamo apprendendo dalla cronaca di questi giorni restiamo profondamente addolorati, anzi sconcertati. Prego per le vittime di queste e di tutte le violenze, per i loro familiari”.



La Lega insiste: l'equazione clandestino-criminalità è sempre vera. Padania contro la giustizia lassista

il Sole, 07-12-2010
Resta invariata, per la Lega, l'equazione clandestini- criminalità. La svolta nelle indagini sulla scomparsa di Yara, con il diradarsi dei sospetti sul giovane marocchino per il quale il Pm ha chiesti infine la scarcerazione, non modifica la linea del Carroccio secondo cui rimane in ogni caso l'allarme criminalità cresciuta negli ultimi anni a causa di quel fenomeno che Mario Borghezio definisce «immigrazione selvaggia».
Certo, c'è la presa d'atto da parte del Carroccio della "svolta" nelle indagini e sia Matteo Salvini, sia Borghezio sottolineano come l'obiettivo sia quello di assicurare i veri colpevoli alla giustizia siano essi connazionali o meno (anzi, dice Borghezio, «se fossero italiani il fatto sarebbe ancora più grave»). Eppure la prima pagina del quotidiano "La Padania" di martedì, non lascia dubbi sullo stato d'animo che attraversa la Lega dopo gli ultimi fatti di cronaca che hanno visto extracomunitari responsabili di gravi reati (come la strage di ciclisti a Lametia Terme).
Sotto il titolo "Ma che giustizia è?" il quotidiano leghista punta il dito contro una immigrazione incontrollata e contro una giustizia ritenuta lassista e si elencano recenti casi di cronaca: «Per la Cassazione ergastolo eccessivo per chi ha seviziato e fatto a pezzi i coniugi Pellicciardi»; e poi «immigrato drogato uccide sette ciclisti in un colpo. Ma l'arresto non è ancora convalidato»; per arrivare al caso di Yara: «Verso la scarcerazione del marocchino in fuga. Intercettazioni ritenute deboli».
Il giornale della Lega ospita anche un intervento di Luca Zaia, governatore del Veneto, che rincara: «Che giustizia è quella che non riconosce il carcere a vita nemmeno per un omicidio efferato come quello di Gorgo al Monticano? Cancellare l'ergastolo e una pena di vent'anni di reclusione per i due albanesi che hanno seviziato e ucciso Guido e Lucia Pellicciardi, sessantenni - come ha deciso una sentenza della Cassazione - significa scrivere una brutta pagina nella nostra storia».
Il marocchino non è responsabile? «Meglio così», ha risposto Salvini, per il quale però «l'equazione clandestino-alto tasso di criminalità la confermano la questura e il numero di stranieri nelle carceri, con buona pace - ha aggiunto - del cardinale Tettamanzi (che aveva invitato a non sovrapporre alla categoria degli immigrati quella dei delinquenti). Anche per Borghezio rimane un punto fermo per il Carroccio l'allarme immigrazione incontrollata- criminalità.
Massimo Curiazzi, assessore a Brembate (il più giovane assessore leghista) dopo la svolta nelle indagini ha tenuto a puntualizzare: »Nel mio paese non c'è assolutamente alcuna intolleranza, noi non giudichiamo le persone dal colore della pelle e dalla loro razza ma da quello che fanno e se il marocchino fermato viene scarcerato ne siamo contenti così come se fosse accaduto a un italiano«. »Eventuali reazioni rabbiose - ha infine spiegato - sono state per quello che è successo a Yara, non certo per questioni di razza o di colore della pelle, se ci sono stati episodi di intolleranza l'amministrazione si è già dissociatà«.



Le luminarie
Cadeo fa retromarcia  'In via Padova tornino gli auguri multietnici '
la Repubblica, 07-12-2010
ALESSIA GALLIONE
ANCHE l'assessore al Decoro Maurizio Cadeo fa retromarcia sulla luci di via Padova. A quelle insegne natalizie con gli auguri in tutte le lingue del mondo, adesso, ha fatto sapere che non si opporrà. Un'assicurazione fatta arrivare sia al sindaco, ma soprattutto a chi quelle luci le aveva volute. Le luminarie potranno essere montate se le associazioni e gli abitanti che avevano pensato alle scritte non solo in italiano, ma anche in inglese, spagnolo, cinese e arabo, faranno richiesta a Palazzo Marino. La stessa posizione del sindaco Letizia Moratti a cui Cadeo ha deciso di allinearsi.
Era stato proprio l'assessore a farle ritirare, quelle luci. Per poi tornare a più miti consigli, però, in queste ore. È disposto a seguire le indicazioni del sindaco, Cadeo. Dopo le tante polemiche e la rivolta della strada. E un segno lo ha inviato.«Un segnale di accoglienza per le comunità di  stranieri che abitano la zona»: ecco qual è il senso delle luminarie multilingue per gli abitanti e le associazioni di via Padova. Una deriva verso i «quartieri ghetto» per l'assessore Cadeo che a novembre, appena quei fili luminosi erano comparsi lungo i quattro chilometri di strada, ne aveva chiesto l'immediato ritiro. Soltanto l'inizio di un pasticcio per l'amministrazione. E per la giunta che, a cominciare dal sindaco, ha cambiato spesso posizione.
Dopo il blitz, l'assessore aveva assicurato che le luci sarebbero state trasferite altrove, magari in viale Forlanini. Poi, aveva gridato alla «legalità»: «Erano abusive». Adesso la nuova marcia indietro: se i cittadini le vogliono, anche lui non si metterà di traverso. Ma dovranno essere comitati e associazioni a chiederlo formalmente.
Uno spiraglio, insomma, si è aperto. Toccherà alle tante realtà di zona, però, fare un passaggio formale. Questo chiede la politica, che si trincera ancora dietro la burocrazia. Politicamente, però, un pezzo di muro è abbattuto. «Personalmente credo che se vogliono una richiesta la faremo — dice Daniela Airoldi Bianchi del teatro Officina— anche se prima do-
vremo riunirci per avere il parere di tutti». Uno dei problemi, infatti, era proprio questo: chi avrebbe dovuto fare domanda per liberare le luci dai magazzini dell'artigiano che le ha realizzate? Lo stesso Pd, in chiave provocatoria, ha annunciato di voler presentare una richiesta a Palazzo Marino. I cittadini, intanto, si stanno organizzando. Hanno annunciato per sabato prossimo un flash mob natalizio per scambiarsi auguri multietnici. Un momento di incontro in cui tutti dovranno avere indosso qualcosa di rosso. Se le luci saranno tornare a illuminare il Natale di questo pezzo di città, sarà un modo di festeggiare. Altrimenti sarà una giornata di protesta per far sapere che, nonostante tutto, alle loro luminarie non rinunciano.    



Acqua purissima, farro biologico e libertà ecco la birra che ha conquistato i sommelier

Prodotta artigianalmente da due rifugiati afgani, la bionda "Alta quota" è stata una delle sorprese del Salone del gusto di Torino. Ma il suo valore va oltre il gusto inimitabile: "Ha il sapore della dignità ritrovata"
la Repubblica, 07-12-2010
VALERIO GUALERZI
CITTAREALE (RIETI) - Farro biologico autoprodotto in montagna e acqua purissima che sgorga a oltre 1.600 metri, nel cuore della Valle del Velino. La birra artigianale "Alta quota" al recente Salone del gusto di Torino ha conquistato pubblico e sommelier, ma non è la genuinità di questi straordinari ingredienti a renderla speciale. A farne una bevanda unica è lo speciale gusto di libertà e di dignità riconquistata. A produrla sono Amid e Mohammed. Nascosti in un tir che ha attraversato mezzo continente sono arrivati dall'Afghanistan per chiedere asilo politico in Italia. Del paese che li ha costretti a scappare portano ancora le ferite, nell'animo e sul corpo. Le prime si colgono a occhio nudo, nello sguardo smarrito e allucinato di chi ha vissuto troppo tempo nel terrore. Le piaghe del corpo le ha viste invece Claudio Lorenzini, l'uomo che sta cercando di restituir loro una vita normale. "Per lavorare nel birrificio dovrebbero indossare scarpe antinfortunio, ma Amid ai piedi ha ancora i segni delle torture e ha difficoltà ad indossarle", racconta Lorenzini, amministratore del "Gabbiano", una cooperativa sociale che da anni si occupa di favorire in Italia l'inserimento di chi chiede asilo. Alle sue "cure" sono stati affidate decine di somali, iraniani, kosovari e libanesi.
"Il ministero dell'Interno  -  spiega  Lorenzini - attraverso il 'Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati' stanzia circa 30 milioni di euro
l'anno per permettere alle amministrazioni locali di accogliere i fuggitivi". Dal 2001 ad oggi a beneficiare di questo servizio sono stati oltre 40 mila cittadini stranieri, 7.845 dei quali nel 2009. Uno sforzo che vista la portata del fenomeno andrebbe ampliato ulteriormente. "Oltre 40 milioni di persone nel mondo -  ricorda la portavoce dell'Alto commissario Onu per i rifugiati Laura Boldrini - sono costrette a vivere lontano dalle proprie case, da tutto quello che avevano a causa di guerre e violazioni dei diritti fondamentali. Nei 27 paesi Ue ve ne sono 1,4 milioni, in Italia 55mila".
Ci sono disperati analfabeti, ma anche persone che in patria hanno lasciato attività professionali redditizie; vittime di una violenza cieca e persone perseguitate per la loro militanza politica. "Per tutti si tratta di trovare un alloggio, di mantenerli e di favorirne l'integrazione insegnando loro la lingua e avviandoli a un lavoro che li renda quanto prima indipendenti", sottolinea Lorenzini. Il "Gabbiano" attualmente gestisce due progetti dello Sprar: uno nato attraverso la collaborazione tra i comuni reatini dell'Alta Sabina per l'accoglimento di 25 rifugiati e un altro, sostenuto dall'amministrazione di Cittareale, un piccolo comune situato nell'ultima propaggine nordorientale del Lazio, che offre ospitalità ad altri 15.
E' da una costola di quest'ultima iniziativa, lanciata non solo per nobili ragioni umanitarie ma anche per salvare l'asilo nido incrementando il numero di famiglie residenti, che è nata l'idea di iniziare a produrre la "Alta quota". "Per la formazione professionale  -  spiega Lorenzini - ci siamo appoggiati a lungo a degli esterni, ma spesso l'attenzione rivolta ai rifugiati era limitata e il rapporto si chiudeva inesorabilmente a conclusione del periodo concordato. L'esigenza era quindi quella di fare in proprio, creando le condizioni per una vera occupazione". Il primo esperimento è partito a Poggio Moiano, un altro piccolo comune del reatino, con la costruzione di 400 metri quadrati di serre pensate sia per istruire i rifugiati a lavori che ormai nelle campagne gli italiani evitano accuratamente sia per sostenere quella che Lorenzini chiama "l'autosufficienza alimentare". "La cosa ha funzionato talmente bene - ricorda - che la verdura hanno iniziato a venderla al dettaglio". Ad occuparsi delle serre sono due afgani e un curdo scappato dalla Turchia. Anche loro sono arrivati in Italia dopo vicende drammatiche e né il tempo né la distanza sono riusciti a far sparire la sensazione di essere ancora braccati, ma per fortuna c'è spazio anche per aneddoti divertenti. Come la scelta di fissare prezzi folli per le amate cipolle nella speranza che vadano invendute.
Rispetto alle serre la scommessa di realizzare il birrificio è stata ancora più azzardata dovendosi confrontare anche con i precetti religiosi. "Sono musulmani credenti e in particolare Mohammed è molto osservante", racconta Isabella D'Attila, una delle operatrici del "Gabbiano" che segue il progetto di Cittareale. "Per fortuna ci hanno spiegato che per loro fabbricare una bevanda alcolica non è un problema, l'importante è non berla. Portare avanti il lavoro durante il mese del Ramadan, tra preghiere ripetute e digiuno, è stata però una bella impresa". Di questo aspetto, come del loro passato e del viaggio per arrivare in Italia, Amid e Mohammed preferiscono non parlare. "All'interno del birrificio facciamo tutto noi, dalla macinazione dei malti fino all'imbottigliamento", si limita a dire con malcelato orgoglio Amid. "Ma per loro il massimo della soddisfazione è stato spillare la 'Alta quota' alla sagra del paese  -  racconta Lorenzini -  Quando davanti a loro si è formata la coda si sono finalmente sentiti importanti e apprezzati. In quel momento vedere i loro occhi brillare è stato qualcosa di impagabile".
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