Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

22 aprile 2011

No immigrati, no crescita
Massimo Livi Bacci
Europa quotidiano 22 aprile 2011
Il diavolo sta nei dettagli, e qualche volta anche nelle note a piè di pagina. Nel nostro caso, sta nella nota 25, alla pagina 74 del “Documento di economia e finanza 2011” (Def): il documento che, tra l’altro, disegna i contorni del rientro dal colossale debito pubblico nei prossimi venti anni, come imposto dal Patto di stabilità europeo.
Ebbene, questo rientro è subordinato a una condizione specificata dalla nota in questione: «Nel periodo 2005-2060, il flusso netto medio di immigrati previsto...è pari a 226mila unità».
Traduciamo ciò che il governo e Tremonti dicono (sottovoce) al parlamento e all’Europa: per rientrare dal debito – ovvero per ridurlo alla metà, cioè al 60 per cento del pil, nel 2026 – occorre soddisfare vari presupposti che debbono tradursi in un consistente avanzo primario. Occorre che l’economia reale cresca con tassi tra l’1,5 e il 2 per cento, ma perché questo avvenga devono crescere anche la produttività e l’occupazione.
Ma siccome la popolazione in età attiva italiana è destinata a diminuire rapidamente nei prossimi vent’anni, l’unica possibilità di contrastare questo declino è affidata all’immigrazione. Cioè al quarto di milione di immigrati all’anno previsto dal Def; e siccome questa cifra è al netto dei rientri, ciò significa un flusso annuo in entrata nel nostro paese di almeno 300mila persone.
Niente immigrati? Niente crescita, niente rientro dal debito. Del resto, lo stesso Tremonti, durante un’audizione alle commissioni bilancio riunite di camera e senato, ha riconosciuto che i «bambini non si fabbricano» lasciando intendere che si devono far venire da fuori, magari una volta arrivati all’età adulta.
Sgradevole verità, per un governo che ha dato alla Lega il timone della politica migratoria e che tenta di accreditare l’idea che l’immigrazione è – comunque e sempre – uno spiacevole accidente congiunturale, che oggi occorre sopportare ma magari, domani, no. Sgradevole verità, per un ministro dell’interno che ha spregiudicatamente utilizzato Lampedusa come spauracchio per il paese sui pericoli delle migrazioni.
Per fortuna Maroni ha avuto un soprassalto di saggezza, concedendo il permesso temporaneo di soggiorno agli immigrati tunisini. Accettando la proposta delle Regioni di sparpagliarli sul territorio – anziché accentrarli nelle tendopoli – lo tsunami umano (definizione di Berlusconi) si è stemperato in un’innocua onda migratoria assorbita senza problemi da un paese ricco di solidarietà.
Lo stesso prefetto Gabrielli, commissario straordinario all’immigrazione, ha illustrato con chiarezza al Comitato interparlamentare Schengen come la “emergenza” migratoria tunisina si sia trasformata in normalità. Il governo però si guarda bene dal dichiarare a voce alta ciò che mimetizza in nota: e cioè che il nostro paese ha bisogno strutturale di immigrazione e che bisogna trarne le conseguenze politiche. La più importante è che i migranti, da che mondo è mondo, tendono a radicarsi nel paese di accoglienza, Che questo avvenga è un bene per la coesione sociale, è vantaggioso per i migranti, lo è per l’economia.
Le politiche debbono favorire questi processi e non ostacolarli, come ora avviene, con corti permessi di soggiorno, intralci ai rinnovi, percorsi ad ostacoli per ottenere la carta di “lungoresidente”, per non parlare della cittadinanza.
L’alternativa è un’immigrazione di corto periodo, ad alta rotazione, senza radici, più vulnerabile, tenuta ai margini della società, fondamentalmente subalterna. Il governo ci dica cosa vuol fare di questo ulteriore stock di migranti (3,5 milioni in più – tra oggi e il 2026 – secondo i suoi stessi calcoli) che si aggiungerà a quello (5,5 milioni) già presente.
E se vuole che l’immigrazione sia un fenomeno normale, oppure un’emergenza, anzi uno tsunami, perenne.

 



Alì, clandestino alla luce del sole
il Sole 24 Ore 22 aprile 2011
Clandestino alla luce del sole. Sveglia all'alba per Alì, 32 anni, che dall'Egitto è arrivato nell'estate del 2003 dopo la sosta di un mese in Libia. «Esco di casa alle 4 meno 10 e vado a piedi fino al magazzino, poi da lì andiamo con il camion all'ortomercato, carichiamo e andiamo a vendere.
Tutti i giorni, da sette anni». Se il lavoro è un miraggio per i giovani nordafricani è anche "colpa" di Alì e di quanti, come lui, vivono e lavorano senza permesso. È arrivato clandestino e così è rimasto, perché nonostante la Bossi-Fini, i flussi, le code alle Poste e poi il click day telematico, non è mai stato regolarizzato. Nemmeno mai fermato o espulso, nonostante il reato di clandestinità introdotto dal pacchetto sicurezza ad agosto 2009.
Non sono pochi. I lavoratori stranieri irregolari in Italia sono circa 400mila secondo le ultime stime della Fondazione Ismu, un po' meno di qualche anno fa: perché la sanatoria del lavoro domestico ha concesso il contratto a molte straniere, per lo più impegnate nell'assistenza a tempo pieno, e la crisi ha ridotto gli arrivi nel 2010 di circa 100mila unità. Ma non è stato eliminato lo zoccolo duro della clandestinità che si concentra nel settore dell'edilizia e del commercio.
Il decreto-flussi non ha funzionato: nonostante la finzione delle assunzioni di stranieri che dovrebbero stare all'estero, ha "sanato" in parte gli irregolari già in Italia, ma non è bastato ad assorbire e ad eliminare l'irregolarità. Mercati comunali all'ingrosso, cassette di frutta e verdura da caricare, trasportare, consegnare: il lavoro c'è. Alì ha avuto un datore per i primi quattro anni, da tre ha un altro "titolare", ma nessuno dei due è stato disposto a metterlo in regola. Nel 2009 ci sperava: c'era la sanatoria colf e badanti, una regolarizzazione per chi era già in Italia, senza tetti numerici né gara di velocità. «Ci contavo - racconta - anzi ero sicuro, ma poi il mio titolare ha dovuto fare la domanda per la badante della madre e alla fine per me niente documenti».
Non ha patente né macchina, ma grazie ai mezzi pubblici e alla bicicletta (per le consegne) gira a Milano dall'alba al pomeriggio. Alla luce del sole. L'ancora di salvataggio, in Italia, sono stati amici e parenti. «Grazie a loro mi sono sistemato piano piano e ora spero ancora nel permesso di soggiorno perché un amico ha fatto domanda per me a dicembre con le quote. Ma se non arriva, resto qui».

 



Immigrati risorsa inesplorata
Giorgio Barba Navaretti
il Sole 24 Ore 22 aprile 2011
Il dramma del Nordafrica ha a che fare con l'emergenza umanitaria e deve essere affrontato con la solidarietà necessaria in questi casi. Ma allo stesso tempo evoca le ansie dell'immigrazione incontrollata e oscura la percezione dei benefici economici del lavoro dei cittadini stranieri in tempi normali.
Quando le acque si calmeranno, sarà bene ricordarsi che la migrazione può avere e ha già un ruolo essenziale per la crescita economica di un Paese come il nostro, con una popolazione sempre più anziana, dove pochi sono disposti a svolgere mansioni fondamentali e dove i confini globali dei mercati e della ricerca ci obbligano a importare talenti. Cosa deve fare l'Italia per rafforzare il ruolo dei migranti nel far girare le pale dell'economia?
Le misure attualmente in vigore limitano questo effetto benefico in quanto determinano un tasso di clandestinità elevato, sono poco efficaci nel favorire il match tra le competenze dei cittadini stranieri e i fabbisogni del nostro sistema produttivo e infine scoraggiano l'immigrazione di persone altamente qualificate attraverso pratiche burocratiche vessatorie. I nodi da affrontare per una riforma della politica migratoria sono dunque tre.
Il primo è ridurre la presenza di clandestini. Come già discusso su queste colonne nei giorni scorsi, secondo le stime più affidabili, le persone senza permesso di soggiorno in Italia sono oltre il 19% della popolazione straniera residente, un tasso più elevato degli altri principali Paesi europei. Questo è il risultato della combinazione tra una relativa tolleranza della clandestinità e una ragionevole certezza di regolarizzazione. L'irrigidimento delle sanzioni per chi dà lavoro clandestino e la penalizzazione della presenza irregolare sul territorio sono applicate in modo blando e non sono state un deterrente sufficiente a limitare gli afflussi.
Del resto, nel regime attuale la presenza di stranieri senza permessi è inevitabile, in quanto favorisce l'incontro tra domanda e offerta di lavoro. I processi di regolarizzazione nell'ambito dei decreti-flussi, infatti, partono sempre dalla richiesta di un datore di lavoro di voler assumere una determinata persona, ufficialmente ancora all'estero. Di fatto nessuno è disposto ad assumere alla cieca un lavoratore sconosciuto e nella gran parte dei casi il risultato è una regolarizzazione ex post di rapporti di lavoro già in essere. La clandestinità è come un cuscinetto a sfera che attutisce gli attriti del mercato e permette ai datori di lavoro di osservare con certezza le caratteristiche dell'immigrato da assumere. Il punto è che questo meccanismo è inefficiente, come se ogni casa dovesse avere un grande serbatoio perché arrivi acqua ai rubinetti. La clandestinità costa al Paese: servizi sociali comunque erogati senza contributi, maggiore probabilità di fenomeni di disadattamento e criminalità.
Ecco allora, e qui veniamo al secondo nodo, che l'Italia dovrebbe introdurre meccanismi chiari di selezione ex ante degli immigrati, che derivino dalle effettive richieste del mercato del lavoro. Perché non seguire il Canada, l'Australia e la Nuova Zelanda e ora la Gran Bretagna che hanno introdotto un sistema per concedere visti di lavoro "a punti"? Un individuo avrà un punteggio più elevato e più possibilità che il permesso gli venga concesso se avrà le caratteristiche richieste dall'economia locale.
Infine, e qui siamo al terzo nodo, la politica per l'immigrazione dovrebbe anche porsi esplicitamente il problema di come attrarre talenti, persone altamente qualificate che possano svolgere ruoli di elevata responsabilità. Questa è un'esigenza fondamentale per le imprese che devono operare sul mercato globale. Oggi in Italia le procedure per i permessi di soggiorno sono uguali per un ricercatore pluri-laureato come per un addetto alle pulizie di un treno. Anche le imprese multinazionali devono fronteggiare oneri burocratici e grandi incertezze per far lavorare in Italia manager non europei, il che scoraggia anche gli investimenti.
Di conseguenza, solo il 13% dei residenti stranieri ha una laurea, contro il 25% nell'Unione Europea e solo il 6,2% dei cittadini extraeuropei svolge mansioni qualificate. Questo è grave, in quanto vi è una particolare forte associazione tra l'ingresso di stranieri con qualifiche elevate e la crescita economica. Negli Stati Uniti il 47% degli scienziati e degli ingegneri con un dottorato sono immigrati. L'economista di Harvard William Kerr e il suo collega dell'Università del Michigan William Lincoln hanno stimato che un aumento del 10% dei detentori di visti H1-B cinesi e indiani (i visti concessi agli individui con elevate qualifiche) fa crescere tra l'1 e il 4% le innovazioni sviluppate in America da questi gruppi etnici, senza spiazzare la ricerca dei nativi.
Le leggi che favoriscono l'immigrazione d'individui qualificati sono particolarmente efficaci. Non dimentichiamo che mentre le persone a bassa istruzione non hanno possibilità di scelta e sono disposte ad accettare molti disagi per essere regolarizzate, gli individui ad alta istruzione scelgono ed emigrano se le condizioni non sono ostative. Perché allora l'Italia non si dota di misure esplicite per attrarre i talenti di cui abbiamo assai bisogno? Esiste tra l'altro già un riferimento europeo (la Blue Card) che definisce le condizione di circolazione dei cittadini ammessi sotto questo programma nell'ambito di tutti i Paesi dell'Unione.Infine, un'ultima nota sugli accordi con i Paesi di origine per la migrazione, come quelli negoziati in passato.


 


L'efficienza dell'ufficio di Modena
il Sole 24 Ore 22 aprile 2011
Si allontana l'incubo dei 400 giorni di attesa per un permesso di soggiorno, la burocrazia cambia marcia e prova a recuperare.
L'ufficio battistrada abita a Modena, dove l'istruttoria delle pratiche per i flussi d'ingresso 2010 è stata completata in tempi record alla Direzione provinciale del lavoro (Dpl): la graduatoria con i nominativi dei datori di lavoro che - per velocità o per buona sorte - si sono aggiudicati una delle assunzioni regolari in palio è passata alla fase successiva, agli uffici della Prefettura. È qui che vengono convocati i datori di lavoro, solo alcuni di quelli che a fine gennaio hanno partecipato alla gara telematica dei tre click day, più di 400mila in tutta Italia per 83mila posti di lavoro. «È diventata una sanatoria continua ed è sempre più una lotteria. Qui sono arrivate più di 10mila domande e il tutto è durato 25-30 secondi al massimo - ammette Eufranio Massi, responsabile della Dpl modenese - La nostra Provincia ha un'alta concentrazione di stranieri, conta 80mila immigrati regolari. Solo i più fortunati e più veloci si sono classificati e sono arrivati all'istruttoria».
Con un sito-modello che totalizza 70mila accessi alla settimana, la Dpl di Modena è già un punto di riferimento per gli addetti ai lavori. Ma l'ultima performance ha stupito tutti: l'esame delle pratiche è stato affidato a un solo funzionario, ispettore del lavoro distaccato per un periodo dall'ordinaria attività di vigilanza. E l'efficienza di Modena ha fatto scalpore, con il passaparola tra i 5 milioni d'immigrati regolari che vivono e lavorano in Italia. Tempi record che per un po' fanno dimenticare le lunghe code e i mesi di attesa a cui gli immigrati sono abituati per ottenere il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno. «È razzismo burocratico», denunciano gli stranieri. «È vero, la burocrazia è il male inestirpabile del nostro Paese, ma è anche questione di organizzazione», replica il direttore della Dpl di Modena.
Certo, i 103 sportelli unici dell'immigrazione, uno in ogni Prefettura, sono sottodimensionati rispetto all'Italia multietnica di oggi. Creati nel 2005, avrebbero dovuto essere uffici modello, responsabili «dell'intero procedimento relativo all'assunzione di lavoratori subordinati stranieri». Ma la mission è fallita: lo ha decretato l'indagine svolta qualche anno fa dalla Corte dei conti. E lo confermano le grandezze: una squadra di un migliaio di dipendenti in tutta Italia, otto su dieci impiegati precari.



Nei centri solo 735 migranti
Marco Ludovico
il Sole 24 Ore 22 aprile 2011
I tunisini con il permesso di soggiorno presenti ieri nel sistema di accoglienza organizzato dalla Protezione civile con le Regioni sono 735. Il 17 aprile erano 1.351 e sono più o meno diminuiti fino a venerdì.
C'è una notevole mobilità in corso: molti di loro vogliono andare in Francia, altri comunque escono dai luoghi assegnati per l'assistenza e hanno diritto alla libera circolazione. Molti confluiscono nella capitale, ma si tratta spesso di un punto non di arrivo ma di partenza. Tanto che la Protezione civile ha pagato alla stazione Termini a Roma il biglietto per 150 di loro, 65 con destinazione Ventimiglia, altri in viaggio per tutta Italia, anche se con arrivo in prevalenza nelle regioni del Centro Nord. Ieri, tra l'altro, alla frontiera di Ventimiglia sono stati respinti dalla polizia francese i tunisini con il permesso ma senza il minimo di reddito giornaliero previsto (circa 60 euro, la metà se ospiti di parenti).
I dati delle presenze nei centri devono tener conto, peraltro, del fatto che ogni giorno ci sono nuovi arrivi, legati ai rilasci dei permessi di soggiorno temporaneo. Di certo un numero molto elevato ha preferito, subito o dopo qualche giorno, non usufruire del sistema accoglienza. Lo stesso prefetto Franco Gabrielli, commissario straordinario all'emergenza immigrazione, in una nota alle prefetture e alle Regioni precisa che «l'assistenza viene assicurata solo nel luogo di destinazione assegnato» all'inizio, cioè dopo che l'immigrato ha avuto il permesso e viene inviato dal Dipartimento di Pubblica sicurezza nella sede indicata dalla regione. Gabrielli precisa che «la possibilità di ricevere assistenza decade ove il migrante si allontani dalla struttura di accoglienza senza giustificato motivo per un periodo superiore a tre giorni».
In serata poi è stata firmata un'ordinanza di Protezione civile che istituisce, tra l'altro, tre Cie (centri di identificazione ed espulsione) temporanei, a Potenza, S. Maria Capua Vetere e Trapani: ospiteranno in totale circa 400 clandestini, coloro cioè che sono giunti in Italia dal 6 aprile in poi, dopo la scadenza per ottenere il permesso. I migranti saranno identificati e rimpatriati e, benché si tratti di tendopoli, i numeri ridotti spiegano un sistema di sorveglianza a tutti gli effetti per evitare, secondo le intenzioni del Viminale, le fughe.



Alemanno e la Francia si palleggiano i profughi
IL sindaco dà i biglietti del treno ai tunisini e svuota Roma. Ma a Ventimiglia i gendarmi li rimandano indietro
Libero 22 aprile 2011
Rita Cavallaro
Biglietti gratis e i profughi lasciano la Capitale, diretti a Nord. Alemanno ce l'ha fatta a liberarsi dei tunisini, che da giorni "assediavano" la stazione Termini in attesa di salire su un treno per Ventimiglia, da dove tenteranno di varcare il confine francese. Dove però i gendarmi respingono quelli che non hanno con sé almeno 62 euro. Ieri dallo scalo ferroviario sono partiti oltre duecento nordafricani, muniti di permesso di soggiorno temporaneo per motivi umanitari, a cui la Protezione civile ha distribuito biglietti del treno gratuiti per allontanarsi dalla Città Eterna. A rendere più facile la vita al sindaco Gianni Alemanno gli stessi profughi, che non ci pensano minimamente a rimanere a Roma, decisi come sono di andare Oltralpe.
Alla stazione Termini, dove nei giorni scorsi gli immigrati hanno bivaccato in attesa di iniziare il viaggio e protestato per avere i tickets gratuiti, ieri è stata una processione. I primi
cento tunisini, che le ultime due notti avevano dormito nel Centro per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, hanno preso un convoglio per Genova nella mattinata, mentre altri settanta sono partiti per Ventimiglia nel primo pomeriggio.
TUTTI AL NORD
Oltre ai biglietti per la cittadina al confine francese, la Protezione civile ha distribuito ai migranti sedici titoli di viaggio per Milano, undici per Parma, tre per Modena, un paio per Como e Torino, tredici per Bologna e uno per Reggio Emilia. Un piccolo gruppo di stranieri ha scelto di raggiungere Perugia, mentre pochissimi si sono diretti nelle località del Sud, soprattutto a Bari e Catania, per ricongiungersi con alcuni parenti.
La meta preferita dai tunisini resta dunque il Nord, che paga lo scotto più alto dell'emergenza sbarchi. E con le partenze di ieri sono pochissimi, e soltanto di passaggio, i migranti che affollano la Capitale. Roma, infatti, non si è re-
sa disponibile a fornire alloggi ai profughi.
Alemanno l'aveva detto chiaramente: «Ho avuto rassicurazioni dal ministro, noi non possiamo accogliere i migranti». E così è stato. Il Campidoglio, comunque, non si è tirato indietro, offrendo aiuto al governo nell'assistenza temporanea. Nella Città Eterna i profughi possono essere ospitati solo per pochi giorni. «Si tratta di un alloggio che forniamo per alcune notti, su richiesta della Protezione civile, agli immigrati che devono ripartire», ha spiegato l'assessore capitolino alle Politiche sociali, Sveva Bei-viso. Insomma, Roma non può, tra la beatificazione di Papa Wojtyla e le troppe emergenze in città, prima tra tutti quella dei rom, ma anche gli 8mila rifugiati politici, senza contare i senzatetto. Posto per i nordafricani non ce n'è, ma il biglietto del treno è comunque garantito.
RESPINTI
Anche i tunisini che la settimana scorsa erano stati trasferiti da Caserta in tre strutture romane sono ormai lontani, forse in Queste ore si trovano
tra i tanti disperati a Ventimiglia che stanno tentando di varcare il confine con la Francia.
La situazione è molto tesa, anche ieri ci sono stati nuovi respingimenti. La Gendarmerie ha riportato in territorio italiano cinque tunisini muniti di permesso di soggiorno temporaneo e di titolo di viaggio, ma privi dei requisiti economici minimi previsti. I magrebini sono stati respinti perché non avevano i soldi necessari per un «sostentamento decoroso».
I cinque, una volta riammessi dagli agenti alla frontiera di Ventimiglia, hanno raccontato di essere stati fermati alla stazione di Nizza, insieme a trenta connazionali, poco dopo essere scesi dal treno. Loro, però, avendo in tasca solo 20 euro non hanno superato il requisito economico previsto dalle direttive Schengen (e applicate alla lettera dalla Francia) e per questo sono stati respinti. Servono, infatti, 62 euro all'immigrato che non ha un alloggio, 31 se lo straniero dimostra di avere un punto di appoggio.



La lunga catena che spinge l'Africa su quei barconi
Giorgio Bocca
il Venerdì di Repubblica 22 aprile 2011
Qualche domanda legittima su come andrà a finire l'assalto all'Europa degli africani. Quanto dura la riserva di barche e barconi da pesca che aspettavano sul-Mediterraneo di essere impiegati in modo redditizio? Pare una quantità senza fine, di tutte le stazze, dalla barchetta alla quasi nave, che al termine della loro traversata scompaiono, requisite o affondate. Lo spirito di accoglienza dei ricchi della sponda Nord sembra alto e duraturo, ma in quanti cominciano a pensare, alcuni leghisti a dire, che prima o poi per respingere gli invasori bisognerà sparare? E sparare come? Dei colpi a salve per spaventarli o proprio ad alzo zero per farli a pezzi?
Domande ciniche da professionisti delle stragi, ma davvero nessuno se le pone? Poi ci sono quelli che uniscono la filantropia alla convenienza: facciamo una cosa, dicono, tiriamo fuori un po' dei nostri molti soldi e diamoglieli, a patto che tornino a casa loro, dove potrebbero grazie a noi vivere meglio. Davvero? Una volta chiesi a uno di questi arrivati per mare che cosa lo avesse spinto ad affrontare il rischio del viaggio, il rischio della vita. Eravamo vicini a una fontanella: «Vedi quella?» mi disse: «Al mio pae-se per trovare l'acqua da bere devo fare due ore a piedi sotto un sole che brucia, qui allungo la mano con un bicchiere». Non c'era obiezione da fare.
Ci sono quelli, come si è detto, che pensano di levarseli di torno con un po' di soldi: vi diamo un po' di denaro a testa cosi potete tornare a casa vostra e farvi anche la fontanella a portata di mano. Ma non sono mica scemi, sanno benissimo che a casa loro non manca solo la fontanella, ma tutto o quasi l'apparato civile del benessere, e sono ancora fermi a tecniche, a lavori primitivi. Insomma, si trovano di fronte a questa meravigliosa scelta: o continuano a vivere di fatiche e di sudore come a casa loro, o rischiano di annegare per arrivare dove si vive con minor fatica e minor dolore, ma anche con meno pietà e meno solidarietà.
Il dramma di queste rischiose migrazioni in cerca di una vita migliore è che sono mosse dai sogni, dall'imitazione di ciò che fa 0 gregge, più che da una scelta
meditata. Qualcosa di simile lo abbiamo conosciuto nel dopoguerra, quando gli italiani fuggirono dalle campagne come dall'inferno, dal lavoro nei campi come
da qualcosa di disonorante, umiliante. E corsero nelle periferie urbane, nelle città dormitorio, dove l'aria era puzzolente e il rumore assordante. Perché? Perché così facevano gli altri, perché era suonato il richiamo irresistibile della migrazione, dell'andare verso la speranza, senza sapere bene se era una speranza che valeva la pena di tanti sacrifici.



In fuga con i tunisini
l'Espresso 22 aprile 2011
FABRIZIO GATTI
Una generazione di tunisini in fuga dal Mediterraneo. Una generazione di politici in fuga dagli ideali dell'Unione europea. La voglia di libertà e democrazia di migliaia di ragazzi sbarcati a Lampedusa. L'incapacità di dialogare dei principali governi europei. La forza che spinge gli immigrati a sfidare la frontiera del mare. La paura che ha spinto la Francia a ripristinare le frontiere con l'Italia. E quello che "l'Espresso" sta raccontando in diretta on line, seguendo giorno e notte il viaggio delle persone appena rilasciate dai campi di accoglienza: i protagonisti sui quali si è aperta una delle più gravi crisi della Ue. Seguiamo il loro viaggio istante per istante, raccogliamo le loro storie e aggiorniamo continuamente il sito (espressonline.it) con sms e foto del viaggio. Siamo partiti dalla Puglia. Ancora non sappiamo quale sarà la meta finale.
Alla partenza a metà settimana avevamo due piccoli zaini. In uno la telecamera, le batterie, una microcamera e due telefonini per l'invio di sms e foto. Nell'altro due maglioni, una carta geografica dell'Italia, una delle Alpi e dieci metri di corda per gli eventuali passaggi sulla neve ghiacciata. Non si sa mai.
Per raggiungere i confini europei dalla Puglia si impiegano mediamente due giorni di treno. Ai tunisini la polizia consegna un permesso di soggiorno di sei mesi per motivi umanitari. E un documento di viaggio e di identità che sostituisce la carta d'identità e il passaporto. È proprio questo il documento contestato dal ministero dell'Interno francese, ma anche dal governo tedesco. Sul documento di viaggio è scritto che è valido in tutti i paesi riconosciuti dal governo italiano. Ma, Come si è visto nei giorni scorsi, la Francia non lo reputa valido disconoscendo cosi gli accordi di Schengen e la stessa autorevolezza del nostro governo. Che è il vero cuore del problema.
Per quanti non vengono trasferiti in autobus ai centri di accoglienza, il primo ostacolo è il biglietto del treno. Chi parla solo arabo non trova nessuna spiegazione nella sua lingua nelle macchinette automatiche. Tanto meno in biglietteria. Così a volte partono senza biglietto, anche perché non tutti hanno abbastanza euro per pagarlo. Domenica scorsa su un Freccia-rossa del mattino da Roma a Milano sono saliti 30 tunisini senza biglietto, arrivati dalla Puglia. A Firenze è scoppiato il caos perché altrettanti passeggeri che avevano pagato il biglietto volevano giustamente i loro posti. E salito un poliziotto in borghese. Ha chiesto ai profughi di scendere. Ma parlava soltanto italiano e alcuni tunisini all'inizio non capivano perché dovessero lasciare il posto visto che erano saliti prima degli altri. Un passeggero ha tradotto in francese la richiesta del poliziotto. I tunisini si sono scusati e sono subito scesi. Per prendere un Intercirty del pomeriggio, meno costoso e meno affollato.
Clima tornato tranquillo anche nel bellissimo paese di Oria, a cinque chilometri dal campo di identificazione di Manduria, tra le province di Brindisi e Taranto. I tunisini, liberi di uscire dal campo durante il giorno, affollano la strada fino ai negozi di alimentari del paese. «Andiamo a comprare un panino, a bere un caffè», racconta Fhami, trentenne tunisino sbarcato a Lampedusa a fine marzo: «Il cibo nel campo non è molto ricco, sembra quello dell'ospedale e a metà giornata torna la fame». Angelo Leo, sindacalista della Cgil, è però preoccupato: « Alcuni esponenti locali della destra stanno distribuendo agli abitanti volantini con notizie false, per fomentare gli animi».
Fhami vuole andare a Parigi dalla moglie francese conosciuta a Djerba e dalla sorella che fa l'insegnante. Un ennesimo caso di ricongiungimento negato dai con¬solati francesi in Tunisia. «La polizia italiana non mi ha ancora dato i documenti», racconta: «La sera nel campo espon¬gono le liste dei fortunati. Non appena esce il mio nome parto, inshallah».

 


Eritrei: ecco l'andata e il ritorno dall'inferno
Avvenire 22 aprile 2011
Paolo Lambruschi
Erano 250 eritrei colpevoli di inseguire un sogno di libertà. Fuggivano da un regime oppressivo, volevano raggiungere Israele. Invece sono stati rapiti per mesi nel Sinai da una rete criminale composta da clan di beduini Rashaida. Circa 85 di loro fuggivano dalla Libia, "chiusa" ai migranti dopo il trattato di amicizia con l’Italia, gli altri provenivano dal Sudan. La loro odissea è iniziata il 23 novembre, per la maggior parte è terminata tra Natale e febbraio con il pagamento del riscatto variabile dagli 8 ai 10mila dollari. Abbiamo seguito la loro tragedia – grazie anche alle denunce del sacerdote eritreo Mosè Zerai – con una lunga campagna giornalistica tra novembre e dicembre per rompere il silenzio di media e governi occidentali su questa nuova rotta del traffico di esseri umani.
Ora possiamo rivelarlo, la libertà di alcune donne povere in stato interessante è stata pagata anche da alcuni nostri lettori sdegnati dall’orrore, che non è stato fermato neppure dopo una risoluzione del Parlamento europeo a metà dicembre che sollecitava l’intervento del Cairo. Solo la società civile si è mossa. Ma il Sinai è terra di nessuno, anche dopo le rivolte, e l’industria dei sequestri resta fiorente. Dove sono, come stanno gli eritrei rapiti in autunno e liberati tre mesi fa? Siamo andati a Tel Aviv a scoprirlo e, per la prima volta, i profughi raccontano un’odissea infinita.
Zion tiene gli occhi bassi mentre entra nella sede di Ardc, associazione israeliana che aiuta i richiedenti asilo in Israele. È eritrea e sul volto porta i segni di un viaggio di andata e ritorno all’inferno. Ora vive in un limbo con poche prospettive per lei e la vita che porta in grembo. Ha 28 anni, è incinta di sette mesi. Indossa una tuta da ginnastica larga e porta il guardaroba in una borsa della spesa. Li hanno rilasciati a gennaio, dopo tre mesi di sequestro. «Ringrazio i benefattori italiani, devo loro la vita. La mia famiglia ha venduto tutto, ma non riusciva a coprire tutto il riscatto. Per me e mio marito sono stati pagati 11mila dollari a testa». Dopo la liberazione la coppia è stata un mese nel campo profughi israeliano di Saharonim, quindi è arrivata a Tel Aviv. Hanno un permesso provvisorio, ma Israele non ha una legge sull’asilo e i profughi non trovano lavoro facilmente. Dividono una stanza con altre sei persone e fanno letteralmente la fame. Chiedo della loro odissea.
«Siamo arrivati in Libia nel 2009, ma non potevano più restare: rischiavamo di finire in galera come clandestini. Non era più possibile partire per l’Italia a causa dei respingimenti. Ci hanno arrestato e abbiamo dovuto pagare per uscire. Allora ad ottobre 2010 un eritreo di nome John ci ha detto che ci avrebbe fatto arrivare in Israele con 2.500 dollari. Siamo partiti in 49, nel Sinai ci siamo uniti a un altro gruppo proveniente dalla Libia. Eravamo 85 in tutto. I beduini ci hanno tenuti nel deserto una settimana senza cibo. Poi si sono fatti consegnare soldi, cellulari, ci hanno messo delle coperte addosso e spinti dentro alcune caverne dove c’erano altri prigionieri, in tutto eravamo 250. Lì è cominciato il calvario».
Zion scoppia a piangere al ricordo della prigionia. «Ci tenevano incatenati, ci maltrattavano. Ci davano da mangiare solo pane e pomodori. Soffrivamo di diarrea e dovevamo fare i bisogni davanti a tutti. Non ci hanno mai fatto lavare né cambiare, bevevamo acqua sporca o le urine. Ci picchiavano con spranghe, poi chiamavano i parenti per sollecitare i pagamenti».
Conferma l’omicidio di sei eritrei. «A fine novembre hanno cercato di scappare. I beduini ne hanno uccisi quattro a fucilate, due li hanno ammazzati a bastonate. Si chiamavano John e Goitom, avevano 25 anni».
Durante il giorno gli uomini incatenati venivano impiegati come schiavi per costruire case. Alle donne andava peggio. «Eravamo nove e ci facevano pulire. Cinque le hanno stuprate davanti a tutti, io sono stata risparmiata perché ero malata. Eravamo prigionieri del trafficante Abu Khalid, i beduini avevano complici eritrei».
Conferma che oltre a lei, le offerte italiane hanno contribuito a liberare tre eritree in stato di gravidanza.
«Una è impazzita per le violenze subite e ha abortito come altre donne stuprate. Le altre due devono partorire. Non abbiamo neppure i soldi per mangiare, ma vogliamo andare fino in fondo sperando in Dio».
Al rifugio di Ardc, in un quartiere abitato da migranti africani, vivono in stanzette sovraffollate 20 donne e 25 bambini tra 0 e 16 anni. Trovo M., 22 anni, incinta al sesto mese. L’hanno rapita a ottobre. Era nel gruppo dei 250 sequestrati che abbiamo imparato a conoscere. Lei è stata liberata con il contributo italiano a dicembre.
«Sono fuggita da casa in agosto con un gruppo di amici e volevo lavorare in Sudan. I Rashaida mi hanno ingannata dicendomi che mi portavano a Khartoum, invece mi sono trovata nel Sinai dopo un viaggio infernale di una settimana. Ci tenevano stipati nei camion, sotto quintali di verdura e frutta. Alcuni sono morti soffocati. Eravamo prigionieri di Abu Abdel, per me sono stati pagati 8mila dollari».
M. sapeva di essere incinta del suo compagno quando era nel Sinai. Nonostante ciò è stata abusata da uno dei rapitori, un egiziano. Quando l’hanno liberata voleva abortire: per ignoranza temeva che il bambino fosse figlio anche dell’aguzzino. Quando medici le hanno spiegato che il padre era il compagno ancora prigioniero, ha scelto di partorire. M. è in miseria, ma, nonostante il dolore, non ha perso la speranza. Come tutti le donne e gli uomini eritrei che ho incontrato, il suo sogno di libertà non è stato spezzato nel Sinai.

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