Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

22 marzo 2010

I FINANZIAMENTI ALLE MOSCHEE
L'islam chiaro conviene a tutti
Il Sole,22-03-2010
C'è bisogno di trasparenza e di regole chiare  sui finanziamenti alle moschee in Italia. Nonostante i proclami e le buone intenzioni, il controllo su questi flussi di denaro rischia di restare teorico. Così accade che strutture come il Wafk al Islami, sulla carta ente di gestione dei beni islamici in Italia che raccoglie le offerte dei fedeli e dovrebbe avere lo status e le procedure di una fondazione, sia di fatto una struttura di compra-vendita immobiliare dove lo scopo è il lucro. A parte eventuali accertamenti da parte delle forze dell'ordine, è opportuno che la gestione ordinaria di questi fondi sia improntata alla massima trasparenza: per la buona fede e i diritti di tutti gli islamici onesti che versano le loro offerte in nome di un ideale religioso, ma anche per avere la sicurezza - e questo riguarda tutti, italiani compresi - che questi flussi finanziari non abbiano destinazioni improprie. È necessario, insomma, che il governo dopo le parole intervenga concretamente: guardando per esempio alla Francia, dove da anni le fondazioni islamiche hanno status, regole e riconoscimenti dallo stato.








«Spaventano i bambini del paese» Sindaco leghista vieta burqa e niqab
Libero,22-03-2010
Il sindaco leghista di Codognè, nel Trevigiano, ha firmato un'ordinanza che vieta il burqa in tutti i luoghi pubblici, scuole comprese. La ragione che ha addotto per motivare questa decisione è che il velo potrebbe spaventare i bambini. L'ordinanza proibisce di indossare «qualsivoglia copricapo che renda difficoltoso il riconoscimento, in particolare burqa e niqab». E nella premessa si legge: «È possibile che circolino persone con il volto coperto o con qualsivoglia copricapo (o velo), che può generare insicurezza tra i minori e tale da rendere difficoltoso il riconoscimento alle forze di polizia». Il divieto è esteso a tutti i luoghi privati aperti al pubblico, dunque sono inclusi anche bar, ristoranti e supermercati.
L'ex sindaco e attuale consigliere di opposizione Romolo Romano, dalle pagine della Tribuna di Treviso si dichiara esterrefatto per l'ordinanza: «Invece di pensare ai problemi del paese si fa propaganda. E chi le ha mai viste a Codognè le donne col burqa? A chi è senza lavoro o in cassa integrazione di questi provvedimenti non interessa niente. Occupiamoci di argomenti seri». «Qualche mese fa ne è stata vista una in un supermercato», replica il sindaco Roberto Bet. L'episodio a cui fa riferimento era avvenuto nel settembre scorso in un supermercato di Pieve di Soligo, distante una quindicina di chilometri da Codognè. Una donna con il burqa che faceva la spesa insieme al marito suscitò le proteste di una casalinga, che chiese l'intervento delle forze dell'ordine: «E vedo questa persona, dico persona perché nemmeno so se era una donna o un uomo. E mi inquieta, mi inquieta parecchio, mi fa anche un po' paura». Una protesta che però non ebbe seguito. Sandro Michelet, direttore del supermercato, aveva difeso la cliente - peraltro abituale -, perché «fare la spesa è un diritto di quella donna». E aveva aggiunto: «Noi non siamo razzisti e non troviamo nulla di male se uno osserva le sue tradizioni».
Per chi viene sorpreso a girare a Codognè con il burqa è prevista una multa da 25 a 500 euro, dovranno essere le forze dell'ordine a far rispettare il provvedimento. La Prefettura non ha avuto nulla da eccepire sull'ordinanza, come invece avvenuto in altri casi: non viene citato l'elemento religioso e quindi non ci sarebbe formalmente discriminazione.










FIOR DI FRONTE DEL VIDEO
l'Unità,22-03-2010
Maria Novella Oppo
Lo scandalo non è che sia stato radiato Aldo Busi: lo scandalo è che non sia ancora stato radiato Minzolini. E pazienza. Come dice la sigla di Blob, restano sempre i mostri. Tra i quali alcuni sfilano nelle tribune elettorali, dove abbiamo avuto il dispiacere di conoscere anche il famigerato Roberto Fiore. Il quale ci ha spiegato che lui è contro gli immigrati, ma non proprio tutti, perché quelli del Nord, alti e biondi, non gli dispiacciono. E magari anche alcuni dell'Est, visto che il suo
confine ideale arriva fino alla Russia di Puntin, ricalcando l'impero romano, che resta il suo riferimento storico più attuale. Invece, il capo di Forza Nuova non sopporta i francesi, certo per via dell'odioso motto, «liberté, fraternité, égalité». Anche se lui nega ovviamente di essere razzista. È che gli africani sono troppo diversi da noi. Ma è solo una questione di religione, quindi eminentemente spirituale. Come spirituali sono tutti i nazisti (e i leghisti sono sulla buona strada) .?










UN'ITALIA ANTICRISTIANA

Corriere della Sera,22-03-2010
di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Sempre più di frequente il ma pure, e forse più, chi come il sottoscritto non lo è — è soprattutto l'ovvietà ideologico-culturale della posizione anticristiana, discorso pubblico delle società occidentali mostra un atteggiamento sprezzante, quando non apertamente ostile, verso il Cristianesimo. All'indifferenza e alla lontananza che fino a qualche anno fa erano la regola, a una secolarizzazione per così dire silenziosa, vanno progressivamente sostituendosi un'irrisione impaziente, un'aperta aggressività che non è più solo appannaggio di ristrette cerchie di colti, come invece avveniva un tempo. Il bersaglio vero e maggiore è nella sostanza l'idea cristiana nel suo complesso, come dicevo, ma naturalmente, non foss'altro che per ragioni numeriche e di rappresentanza simbolica, sono poi quasi sempre il cattolicesimo e la sua Chiesa a essere presi in special modo di mira. Dappertutto, ma, come è ovvio, in Italia più che altrove.
Il celibato, il maschilismo, la pedofilia, l'autoritarismo gerarchico, la manipolazione della vera figura di Gesù, l'adulterazione dei testi fondativi, la complicità nella persecuzione degli ebrei, le speculazioni finanziarie, il disprezzo verso le donne e la conseguente negazione dei loro «diritti», il sessismo antiomosessuale, il disconoscimento del desiderio di paternità e maternità, il sostegno al fascismo, l'ostilità all'uso dei preservativi e dunque l'appoggio di fatto alla diffusione dell'Aids, la diffidenza verso la scienza, il dogmatismo e perciò l'intolleranza congenita: la lista dei capi d'accusa è pressoché infinita, come si vede, e se ne assommano di vecchi, di nuovi e di nuovissimi. Ma da un po' di tempo vi si aggiunge qualcosa che contribuisce a dare a quelle imputazioni un peso e un senso diversi, un impatto più largo e distruttivo, finendo per unirle tutte nel segno di un attacco solo complessivo. Questo qualcosa è un radicalismo enfatico nutrito d'acrimonia; è, insieme, una contestazione sul terreno dei principi, un chiedere conto dal tono oltraggiato e perentorio che dà tutta l'idea di voler preludere a una storica resa dei conti. Ciò che più colpisce, infatti, della situazione odierna — e non solo immagino chi è credente la sua facile diffusione, oramai, anche in ambienti e. strati sociali non particolarmente colti ma «medi», anche «popolari». Ai preti, alla Chiesa, alla vicenda cristiana non viene più perdonato da nessuno più nulla. Si direbbe — esagero certo, ma appena un poco — che ormai nelle nostre società, a cominciare dall'Italia, lo stesso senso comune della maggioranza stia diventando di fatto anticristiano. Anche se esso preferisce perlopiù nascondersi dietro la polemica contro le «colpe» o i «ritardi» della Chiesa cattolica.
Tra i tanti e assai complessi motivi che stanno dietro questa grande trasformazione dello spirito pubblico del Paese ne cito tre che mi paiono particolarmente significativi.
Al primo posto l'ingenuità modernista, l'illuminismo divenuto chiacchiera da bar. Ci piace pensarci compiutamente moderni, e modernità sembra voler dire che gli unici limiti legittimi siano quelli che ci poniamo noi stessi.
Le vecchie autorità sono tutte morte e al loro posto ha diritto di sedere solo la Scienza. Siamo capaci di amministrarci finalmente da soli, non c'è bisogno d'alcuna trascendenza che c'insegni dov'è il bene e dov'è il male. Che cosa c'entrano dunque la religione con i suoi comandamenti, i preti con i loro divieti? Accade così che ogni cosa che getta ombra sull' una o sugli altri ci appaia allora come la rassicurante conferma della nostra superiorità: alla fin fine siamo migliori di chi pure vorrebbe farci continuamente la lezione.
E poi — ecco un secondo motivo — la Chiesa e tutto ciò che la riguarda (religione inclusa) ricadono nella condanna liquidatoria del passato, di qualsiasi passato, che in Italia si manifesta con un'ampiezza che non ha eguali. Il che significa non solo che tutto ciò che è antico, che sta in una tradizione, è perciò stesso sempre più sentito come lontano ed estraneo (unica eccezione l'eno-gastronomia: l'ideologia dello slowfood è la sola tradizione in cui gli italiani di oggi si riconoscono realmente), ma significa anche, questa messa in mora del passato, che il pensare in termini storici sta ormai diventando una rarità. Sempre più diffusi, invece, l'ignoranza della storia, dei contenuti reali delle questioni, e l'antistoricismo, l'applicazione dei criteri di oggi ai fatti di ieri: da cui la ridicola condanna di tutte le malefatte, le uccisioni e le incomprensioni addebitabili al Cristianesimo, a maggior gloria di un eticismo presuntuoso che pensa di avere l'ultima parola su tutto.
E da ultimo il cinismo della secolare antropologia italiana, e cioè il fondo limaccioso che si agita al di sotto dell'appena sopraggiunta ingenuità modernista. Il cinismo che sa come va il mondo e dunque non se la beve; che appena sente predicare il bene sospetta subito il male; che ha il piacere dello sporco, del proclamarne l'ubiquità e la forza. Quel feroce tratto nazionale che per principio non può credere in alcuna cosa che cerchi la luce, che miri oltre e tenga lo sguardo rivolto in alto, perché ha sempre bisogno di abbassare tutto alla sua bassezza.









Libertà per i dissidenti di Cuba L'Italia reagisca all'appello
Corriere della sera,22-03-2010
di PIERO FASSINO
Caro Direttore, l'accorato appello  lanciato ieri da Pierluigi Battista sul Corriere della Sera ha il  merito di sollecitare la rimozione    delle omissioni e acquiescenze che spesso e da troppo tempo accompagnano le vicende di Cuba. È un dovere morale, oltre che politico, non assistere passivi e silenziosi di fronte alla tragedia del dissidente cubano Guillermo Farinas, la cui vita è appesa a un filo dopo tre settimane di sciopero della fame. Rischia di ripetersi così il dramma di Orlando Zapata morto dopo 85 giorni di protesta contro la dura repressione a cui sono sottoposti i dissidenti a Cuba.
Una forte iniziativa è tanto più necessaria perché in questi ultimi anni la comunità internazionale non è stata avara di aperture e di comprensione nei confronti del regime cubano. Guidata dalla Spagna — che, in ossequio a una comune cultura ispanica figlia del passato coloniale, ambisce a una sorta di padrinaggio sull'America Latina — l'Unione Europea ha sospeso le sanzioni adottate dopo l'ondata repressiva della «primavera nera» del 2003, riaprendo un dialogo con il regime cubano, cosciente che sanzioni ed embarghi colpiscono più le popolazioni che i potenti. Gran parte dei Paesi latino americani, asiatici e africani — in nome di una solidarietà terzomondista — ha sempre mantenuto rapporti amichevoli e di collaborazione con L'Avana. E gli stessi Stati Uniti, dopo la elezione del Presidente Obama, non hanno mancato di lanciare segnali di disponibilità a un negoziato che consenta il superamento dell'embargo unilaterale, peraltro strumentalmente usato dalle autorità cubane per invocare un perenne stato di emergenza nazionale, soffocare libertà e diritti fondamentali e reprimere chi ne invoca il rispetto.
Ora è giunto il tempo che a L'Avana capiscano che a un atteggiamento amichevole del mondo devono corrispondere atti chiari e inequivoci delle Autorità cubane nella direzione di una evoluzione democratica dell'isola. Non basta aprire agli investimenti stranieri e al mercato perché un Paese sia libero. La libertà c'è quando ogni persona è libera di pensare, di scrivere, di dire, di riunirsi e di organizzarsi per affermare le proprie idee. E nessuna ragione di Stato 0 di partito può
giustificare la violazione di fondamentali e irrinunciabili diritti umani e civili. Battersi perché sia così è responsabilità di tutti: delle istituzioni internazionali e dei governi nazionali che non possono chiudere gli occhi in nome del realismo politico e delle convenienze economiche. È responsabilità dei partiti politici che hanno il dovere di essere coerenti con i valori di libertà e di democrazia iscritti nei loro statuti e nei loro programmi. Ed è un dovere della società civile perché ogni libertà oppressa — anche molto lontano — riguarda ognuno di noi. Per questo anche dall'Italia deve levarsi immediato e forte l'appello alla liberazione dei prigionieri politici cubani e all'adozione di atti politici che muovano nella direzione del riconoscimento dei diritti democratici e di libertà. L'appello lanciato in Spagna da Pedro Almodovar, Fernando Savater, Mario Vargas Llosa e altri autorevoli esponenti della cultura europea non va lasciato solo. E per questo il Partito Democratico vi aderisce con convinzione. Mi auguro che altri lo facciano e che dalla società italiana, anche con l'attivo concorso del mondo della cultura, venga un contributo prezioso a questa battaglia di civiltà.









Sos dal barcone dei clandestini: «Due morti a bordo»

Corriere della sera,22-03-2010
Alfio Sciacca
LAMPEDUSA — Dopo mesi di calma assoluta riprendono i viaggi della speranza verso la Sicilia. Ieri sera un gommone con oltre sessanta persone è stato intercettato 25 miglia a sud di Lampedusa in acque Sar (cioè di ricerca e soccorso) di competenza maltese. Nonostante ciò ad intervenire sono state due motovedette della Capitaneria di porto e della Guardia di finanza italiane. Anche perché dal gommone era partita una disperata richiesta d'aiuto. Ad alcuni connazionali contattati con un telefono satellitare gli immigrati avevano raccontato di essere allo stremo delle forze e di avere anche due cadaveri a bordo. Intercettati dalle motovedette italiane sono stati rifocillati ma a bordo non sono stati trovati cadaveri. «I nostri medici hanno visitato due persone che stavano male — spiegano dalla capitaneria — e che sono state subito trasferite in ospedale. A bordo ci sono anche alcune donne incinte. Gli immigrati, che hanno detto di essere tutti somali, dicono di essere partiti dalla Libia cinque giorni fa». Solo nelle prossime ore si potrà capire se realmente due persone sono morte e poi abbandonate in mare prima dell'arrivo dei soccorsi 0 se gli immigrati hanno cercato di drammatizzare la situazione. A bordo del gommone di circa 8 metri e col motore ancora funzionante, il resto degli immigrati sono apparsi molto provati ma in discrete condizioni di salute. Essendo stata intercettata in area di competenza de La Valletta l'imbarcazione dovrebbe essere scortata fino alle coste maltesi ma è molto probabile che, com'è avvenuto altre volte, faccia rotta verso l'Italia. «Siamo in attesa di indicazioni dal ministero — dicono i soccorritori — in ogni caso li assisteremo fino a quando non riceveremo istruzioni». Molto probabile che vengano scortati fino a Porto Empedocle e non a Lampedusa.







Nel viaggio verso le coste italiane hanno subito ogni genere di sopruso. Poi, l'approdo. Ecco le loro storie
Immigrati Dall'inferno alla Sicilia le voci di un popolo in fuga
la Repubblica,22-03-2010
FRANCESCO VIVIANO
Sono morti che camminano. È gente alla quale hanno strappato anche l'anima e che sopravvive sperando in un miracolo. Soffrono d'insonnia, hanno frequenti incubi, la loro mente è affollata di pensieri di morte e sensi di colpa. Sono "extracomunitari" sopravvissuti alle torture, alle traversate del deserto e del mare, che in questi anni hanno raggiunto Lampedusa o altri approdi siciliani. I loro drammi, le loro storie, le foto con le ferite provocate dai loro carnefici in Nigeria, in Libia, in Somalia, nello Sri Lanka, sono raccolti nei dossier degli ambulatori siciliani che, tra mille difficoltà, sono riusciti a farli parlare. Queste persone sono state incarcerate, incatenate, fustigate. Le donne, violentate davanti ai loro bambini che spesso sono morti senza che loro potessero aiutarli. Un inferno, un calvario che ancora continua. Ecco le loro storie.
O. S. è nata in Nigeria, a Uga, nel 1985, ed è giunta a Lampedusa l'8 settembre del 2008. Quando è arrivata sembrava un fantasma. Non era soltanto stremata dal lungo viaggio in mare su un gommone con altri 40 disperati. Non ragionava per quel che aveva vissuto. «Sono fuggita dalla Nigeria perché ero minacciata dalla famiglia di un uomo che era stato ucciso da mio marito, che era fuggito e di cui non ho avuto mai più alcuna notizia. Così nell'agosto del 2008 ho lasciato la Nigeria insieme a mia figlia di 4 anni. Durante il tragitto nel deserto tra il Niger e la Libia sono stata fermata da un gruppo di uomini che mi hanno aggredita e stuprata ripetutamente, davanti a mia figlia. Durante la violenza mi hanno anche ferita con un coltello». «La paziente—scrive il medico nella sua cartella — non riesce a descrivere gli eventi legati alla morte della figlia nel deserto: ricorda che si era ammalata durante il cammino e che è stata picchiata dagli stupratori poiché piangeva e dava "fastidio"». «Ho paura di avere contratto malattie veneree e di non potere avere più figli», dice ancora la donna. «La Sig.ra O. S. — di nuovo la cartella clinica — presenta importanti  conseguenze   dei
traumi psicologici e fisici subiti. La morte traumatica della piccola figlia durante la fuga aggrava la condizione di smarrimento e di terrore in cui versa tuttora la paziente. O. S. soffre di insonnia, mutismo, inappetenza, disfa¬gia; tale sintomatologia clinica è accompagnata da ricorrenti pensieri di morte, di inutilità della propria esistenza, di colpa nei confronti dei propri familiari rimasti nel loro paese».
D. T. B. è nato in Eritrea il 14/7/1974. Nel giugno del 2000, alla fine della guerra contro l'Etiopia (iniziata nell'aprile del 1998, e durante la quale aveva combattuto) è stato arrestato. «Sono stato spogliato dei miei vestiti e rinchiuso in una stanza piccola e molto calda, non c'era luce né servizi igienici. L'isola-mento è durato 5 giorni, poi mi hanno condotto in un'altrastanza dove si trovavano 4 militari che mi hanno messo la testa dentro un recipiente colmo di escrementi umani minacciandomi di morte. Questo trattamento si è ripetuto ogni 3 giorni, io ero sempre in isolamento e all'oscu¬ro di quale fosse l'accusa. Non ricordo per quanto tempo sia durata questa prigionia, in quei giorni non riuscivo a capire nulla, avevo delle infezioni provocate dagli escrementi nella gola e sono diventato quasi cieco. Sono stato poi condotto in una stanza sotto terra dove dei militari mi hanno fatto firmare un foglio su cui mi hanno fatto confessare di essere una spia etiope. Mi hanno colpito ripetutamente con un bastone al volto, al naso, sulla  testa, anche con un sacchetto di sabbia pieno di pietre».
«I mesi di reclusione successivi vengono definiti dal paziente come infernali—scrive il medico nella cartella di D. T. B. —. Il detenuto è riuscito a fuggire dalla prigione il giorno in cui per la prima volta i detenuti erano stati condotti fuori cella; egli stesso considera miracoloso il fatto di non essere stato cattura-to e ucciso. A piedi ha poi rag-giunto il confine con il Sudan, e da lì è giunto fino a Karthoum (15/10/2000), dove si è fermato per circa 1 anno prima di partire per la Libia con la moglie. Qui la moglie, al 3° mese di gravidanza, è stata catturata dalle autorità li¬biche (verosimilmente a causa della croce tatuata sulla fronte) e da allora non se ne hanno più notizie. D. T. B è giunto in Italia il 28/10/2003».
S. J. è nata ad Harare, nello Zimbawe il primo luglio del 1986. «Mia madre era nigeriana e all'età di 6 anni ci siamo trasferiti con parte della famiglia in Nigeria, nel suo villaggio natale. Da allora non ho avuto più notizie di mio padre, che era un militare dello Zimbawe. Ho avuto una bambina dalla relazione con un uomo politico dell'etnia Shakiri, appartenente al People Democratic Partry. Il nostro matrimonio è stato violentemente ostacolato dalla famiglia del mio ragazzo, in quanto io appartenevo ad un'altra etnia, quella degli Urobo. Fui costretta a fuggire in un altro villaggio, durante la gravidanza, perché minacciata dai familiari del mio ragazzo, ma fui ritrovata e sequestrata. Sono stata tenuta prigioniera per circa un mese: durante i giorni di prigionia sono stata picchiata e maltrattata quotidianamente, perché volevano sapere dove s'era nascosto loro figlio, ma io non lo sapevo. Sono poi riuscita a fuggire e ho lasciato il mio Paese. Sono rimasta ad Agadez, in Niger, per circa un anno, lavorando in un mercato, ma sono dovuta scappare di nuovo perché mi volevano costringere a prostituirmi. Ho raggiunto Dukru, dove sono stata sequestrata da militari e stuprata più volte, poi mi hanno portato in Libia a bordo di un camion. Mi hanno abbandonata per strada, dove sono stata intercettata dalla polizia libica. E qui nuovamente violentata e arrestata perché non avevo documenti. Dopo una settimana di carcere a Tripoli mi hanno mandata a lavorare come cuoca per il proprietario di una delle navi che trasportano
clandestini. Dopo due mesi di lavoro mi sono imbarcata su un gommone e ho raggiunto Lampedusa». Nel 2008 S. J. ha avuto accolta la sua richiesta di asilo politico. Le sue condizioni stanno migliorando.
A. H. è nato in Liberia il 6/2/1958. Ha il volto sfigurato, deturpato dalla soda caustica che i suoi carcerieri gli hanno tirato in faccia. «Sono stato catturato nel giugno del 1998 nella capitale liberiana dalla Atu (Ariti Terrorist Unit) per aver distribui¬to e affisso poster riguardanti gli abusi dei diritti umanitari nel mio paese. Fui accusato di danneggiare la sicurezza dello stato e dopo 5 giorni di interrogatori e di sevizie sono stato colpito al volto con una sostanza liquida caustica. Ho ripreso conoscenza dopo qualche giorno nell'ospedale S. Joseph di Monrovia, dove sono rimasto ricoverato per circa 7 mesi, sottoponendomi a diversi interventi chirurgici ricostruttivi. Nel luglio 2002, dopo aver militato nel Lurd {Liberia United far Restoration of Democracy), sono arrestato nuovamente dai militari e tenuto prigioniero fino al 2 giugno del 2003, data in cui sono riuscito a scappare durante un controllo sanitario in ospedale. I miei familiari ed alcuni amici hanno poi raccolto del denaro e sono riuscito a raggiungere l'Italia, attraverso la Libia, il 15 giugno del 2007».











Felpe e coltelli
La Repubblica,22-03-2010
Le aggressioni di Roma, Torino e Milano. Ma anche giuramenti e codici d'onore. Sono le nuove bande multietniche. Dove i ragazzi italiani si mescolano ad asiatici e sudamericani
PIERO COLAPRICO
MILANO avent'anni, si fa chiamare Ryu,èitalianoeper tre anni ha fatto parte della gang dei Latin King di Milano. È questa la nuova frontiera di chi entra nelle strade dei graffiti: è il mix, è la destrutturazione, il multietnico. «Non ero l'unico non ecuadoregno della gang. Insieme con me — racconta Ryu, con accento milanesissimo — c'erano asiatici, arabi, slavi. Molti di noi pensano che New York, la città delle novanta provenienze, sia il futuro migliore per tutti...».Felpa e coltello. Codici d'onore e regole per combattere. Musica salsa, bachata, merengue, reggaeton, cumbia e «stile» di vita.
siste un mondo giovanile sotterraneo, un impasto di bande e di gruppi, che agli estranei fa l'effetto di un labirinto, dal quale sembra meglio girare allalarga. Gli episodi violenti non sono pochi, come sa anche Manfredi Alemanno, 15 anni, figlio del sindaco di Roma: una settimana fa è stato picchiato al quartiere Parioli da un gruppo di giovani figli di immigrati. Altri giovani sempre più spesso si calano sulla fronte i cappucci delle felpe e vanno all' attacco degli immigrati: a Milano c'è stata per un po' la caccia dei neonazisti ai filippini, a Roma continua quella ai bengalesi. E a Campo de' Fiori l'ultimo agguato, l'altra notte, con uno studente americano accoltellato al torace da una gang sudamericana. «Io — continua Ryu — sono entrato nei Latin King grazie a Internet. Ho cercato contatti, li ho trovati, ho cominciato a uscire con un gruppo, ma poi, una sera, ho incontrato un vero Latin King, mi ha detto che stavo in compagnia di truffatori, di inventori. E non sapete quanti ce ne sono, e secondo me sono quelli che fanno i casini, come le violenze sessuali, per noi vietate... Così, con questo nuovo amico, piano piano, sono entrato nella gang più importante di Milano». Periodo turbolento, così lo ricorda, tra risse e fughe e paure, ma anche «bellissimo, perché c'è un alone di fascino, se stai in una banda. Per le ragazze funziona e mi sentivo tra fratelli, tra gente che avrebbe fatto tutto per me, come io per loro».
Sino alla tragedia: «Una mattina ero alla stazione, perché andavamo fuori città, a un raduno della  nostra Nazione, come ci chiamiamo. Suona il telefono, c'è uno che pian-ge, mi dice che hanno ammazzato "Boriqua"».E cioè David Stenio Betancourt Noboa, 26 anni, ecuadoriano: il Rey, e cioè il capo dei Latin King New York. Era l'aprile scorso, il re usciva dal Thini Cafè, nella zona tra via Brembo e via Nervesa, e a colpirlo sono i rivali, i Latin King Chicago.
«Vado all'obitorio — continua Ryu, ancora emozionato — e l'ho visto, aveva le mani nelle tasche della felpa. L'hanno preso a tradimento. Era stato in carcere, ma voleva la pace tra  i vari gruppi. Poi le tv ci hanno dipinto quasi come assassini seriali, mala realtà è che Bouriqua aveva detto basta alla violenza».Isociologidi«Codici—agenzia di  ricerca sociale»confermano, così come la seconda sezione della squadra Mobile di Milano, che ha acchiappato gli assassini di Bouriqua. E ha collaborato anche all'arresto dei dominicani che tre settimane fa, in via Padova, hanno ucciso un egiziano.
Anche questa storia andrebbe, almeno in parte, rispiegata fuori dai luoghi comuni. I latinos erano stati tutto il giorno a spasso, avevano un appuntamento con un manager musicale e sul bus stavano ascoltando i loro «pezzi». Erano eccitati e contenti, con la speranza di un contratto in serata, quando il giovane, che poi sarebbe morto, gli ha ordinato a brutto muso di smet¬terla. Non c'era alcuno scontro tra africani e latini, la lite scoppia tra chi era felice e chi non sopportava le risate. E—come succede sempre più spesso, ovunque, tra giovani «depoliticizzati», in cerca di emozioni da film noir nelle discoteche, nei parchi, nelle piazze — sono spuntati i coltelli.
«Io — continua l'italiano Ryu — non sto dicendo che siamo santi, però è sbagliato descriverci come emarginati. Prova a pensare. Siamo meglio noi, che abbiamo un codice, o quei ragazzi di buona famiglia, perfettamente a posto, che a Milano hanno massacrato un barbone perché ne hanno schifo? Esiste una violenza notevole, in questi anni, e sono le bande che la tengono a freno . È l'esatto contrario di quello che si dice. E guarda che ti parlo con sincerità. Per un po' ho curato una discoteca dei Latin King nella zona di corso Como. Beh, ero allaporta,per evitare i casini, e facevo le perquise. Ho trovato coltelli nelle mutande, negli stivali, dovunque, ma averli non è come usarli».
Il fenomeno delle «Pandillas». le bande, nacque a Genova, perché qui a metà degli anni '90 approdano dall'Ecuador migliaia di donne con figli al seguito e senza mariti. I ragazzi, senza controllo, ritrovano un'identità nella banda. Nel2003 la prima maxi operazione della polizia porta una decina di arresti e individua otto baby gang e nel 2006 viene firmata una storica pace tra Latin King e Nietas (portoricani) con i capi venuti espressamente dal Sudamerica e dagli Usa. In ogni città, comunque, le spedizioni punitive non finiscono. Basta accen-narecon le mani al gesto di una«corona rovesciata» per togliersi il rosario e andare all'attacco.
Un censimento, per difetto, indica in un migliaio i ragazzi nelle gang in Italia, concentrate soprattutto aMilano, Genova, Torino, Roma, Napoli. Milano è la «città madre», dove tutti passano e trovano rifugio, e a parte i Latin King (ecuadoriani), i Comando (peruviani), i Nietas, presenti ovunque, ci sono Trinitarios (domenicani), i salvadoregni    Ms (Mara              Salva trucha Salvatracha, occhio ai «18» più che ai «13», i primi riconoscibili dal tatuaggio di tre carte da gioco con il sei), poi i filip¬pini riuniti nella gang «Ghetto», più i tanti italiani, come i «Napoletani del Corvetto». E se a Milano i paninari e i sambabilini sono scomparsi da decenni, inserendosi qui e là, a Roma i pariolini esistono ancora, così come i Coatti, gli Emo e i Truzzi. A Torino c'è una proliferare di microgang, dagli Ottogallery, ai Ninja, ai Vatos Locos (latini), ai Truzzi, alle Gotiche, ai Cabinotti. A Genova resta la roccaforte dei Fore-ver e dei Soldao Latinos. A Napoli sono forti i Nietas, ma anche gli italiani R 601.
Ci spiega Paul, un ragazzone dal-le spalle larghe e i denti bianchissimi, quale bisogno porta questi ragazzi nelle gang. Fa l'elettricista nella zona di Rozzano, paesone alle porte di Milano ribattezzato con ironia «Rozzangeles». «Avevo undici anni—racconta Paul—quando in Ecuador sono entrato in una pandilla. C'era mio fratello, più grande di me di un anno, e là ho visto cose terribili. Ti mettono anche in mano la pistola, e ringrazio Dio che a me non è successo di sparare. Quando sono arrivato a Milano, ho conosciuto, grazie a una collana, un nostro segno, altri come me. E mi sono inserito subito nella gang. Abbiamo degli obblighi seri, se an-diamo a scuola dobbiamo essere promossi, se lavoriamo dobbiamo
essere stimati. E le donne della gangnon sono zoccole, devono vestirsi senza volgarità, e l'aborto è proibito, ci devi pensare prima». Perchè entrare nella gang?«Mio padre e i suoi fratelli  bevevano, ho imparato le regole della vita grazie alla banda, sono tra amici, non ho mai sgarrato». Ora Paul è papà, lavora, ed era un pezzo grosso, piuttosto temuto.
Sarebbe però un errore strategico, non solo politico, ritenere le gang un feudo esclusivamente straniero. Se a Torino si sente dire: «Ci sono dei cabinotti da asciugare, diamoci da fare», attenzione. La frase ha un significato: «cabinotti» sono i ragazzi vestiti da ricchi e «asciugarli», preferibilmente in due zone del centro storico, staper rapinarli. E le rapine, le risse, gli agguati, non sembrano finire mai.










Retribuzioni. L'importo medio mensile è di 961 euro, il 23% in meno degli italiani a parità di mansioni e orario :
La busta paga degli immigrati
Uomini svantaggiati dall'inquadramento, donne penalizzate rispetto agli studi
il Sole,22-03-2010
Léonard Berberi
Abdul e Giacomo lavorano nella stessa azienda. Svolgono le stesse mansioni, hanno gli stessi orari e forniscono uguali prestazioni. Ma quando arriva la busta paga, Abdul guadagna un quarto in meno di Giacomo. Non è un caso isolato.
Perché, secondo uno studio della Fondazione Leone Moressa di Mestre, un lavoratore dipendente straniero guadagna, in media, il 23,3% in meno di un suo collega italiano. E la retribuzione mensile - al netto di tasse e contributi - si ferma a 961 euro. Dati che influiscono sul 9,7% della forza lavoro nazionale, tanto è il peso degli impiegati immigrati. L'elaborazione - basata sui dati Istat (rilevazione continua della forza lavoro) del terzo trimestre 2009 -, mette in evidenza che la maglia nera va alla Basilicata, dove uno straniero guadagna il 40,3% in meno di un italiano. Ma è tutto il Mezzogiorno a registrare differenziali retributivi al di sopra del 30 per cento. Un po' meglio al Centro-Nord, grazie al Trentino Alto Adige: in questa regione gli immigrati percepiscono un salario inferiore "soltanto" del 12,7 per cento.
«I differenziali retributivi sono alimentati dal mercato del lavoro degradato e dalle scarse opportunità occupazionali - dice Laura Zanfrini, docente di Sociologia dei processi economici all'Università Cattolica di Milano -. Due elementi presenti soprattutto nel sud del nostro Paese e questo ' spiega il divario».
«La maggior parte degli occupati non italiani sono inquadrati come operai, e già questo comporta uno svantaggio economico - spiega Valeria Benvenuti, curatrice del dossier per conto della Fondazione Moressa -. A questo va poi aggiunto che gli stranieri hanno una bassa qualifica professionale e lavorano in settori poco produttivi».
Le dipendenti immigrate, in tutto questo, risultano le' più penalizzate: guadagnano quasi un terzo in meno delle loro colleghe italiane. E anche dei loro uomini (in media, 799 euro contro 1.088). «Le straniere guadagnano poco perché buona parte si occupa dei servizi alla persona, che sono poco retribuiti» conti¬nua Benvenuti. «Le immigrate si inseriscono prima nel mondo occupazionale - aggiunge Zanfrini - e riescono ad avere il permesso di soggiorno prima degli uomini. Ma poi il loro percorso lavorativo si blocca». Per questo si arriva a quello che la professoressa chiama  un "paradosso": «Alla fine del mese, un immigrato maschio senza istruzione guadagna più di una donna straniera laureata». Un fenomeno che riguarda, in realtà, tutti i dipendenti non italiani. Perché, fa notare la Fondazione Moressa, più uno straniero ha alle spalle un percorso formativo di alto livello (laurea, post laurea), più aumenta il differenziale retributivo. In numeri: un terzo in meno. «Il nostro mercato occupazionale continua a essere poco meritocratico e il capitale umano degli immigrati non viene valorizzato», chiarisce la Zanfrini. Anche la tipologia contrattuale sembra penalizzare lo straniero: più l'inquadramento è stabile più aumenta il divario con gli italiani. Con un contratto a tempo determinato il differenziale con il lavoratore nazionale è di appena il 5,4 per cento.
Ma chi ha un contratto a tempo indeterminato, arriva a prendere, in media, un quarto in meno.
«Il divario è basso nei contratti a tempo determinato perché guadagnano pochissimo anche gli italiani - ci tiene a chiarire Zanfrini -. Ma nella tipologia a tempo indeterminato, incide molto la mobilità». Il discorso somiglia a quello fatto per le donne: «È più facile per un immigrato entrare nel mondo del lavoro - continua -. Una volta dentro, però, per questi è molto difficile fare carriera».
«La rigidità dei contratti collettivi di lavoro incide molto -aggiunge Valeria Benvenuti -. Gli stranieri sono stati assunti da meno tempo e hanno meno scatti retributivi, anche a parità di mansioni e di produttività».
L'elaborazione della Fondazione Moressa sembra confermare questo ragionamento: per i lavoratori stranieri più giovani
la differenza con i coetanei italiani è di appena lo 0,4 per cento. Ma all'aumento dell'età segue l'aumento del divario tra le buste paga. Fino ad arrivare al 35,8% di chi ha tra i 55 e i 64 anni.
E la legge Bossi-Fini, influisce sul differenziale? «Abbastanza - si sbilancia la ricercatrice Benvenuti -. Il rinnovo del permesso di soggiorno è vincolato al contratto di lavoro ed è facile che qualche datore di lavoro sfrutti l'occasione».
Laura Zanfrini non è del tutto d'accordo. «Penso che la légge abbia bisogno soltanto di qualche piccola modifica» dice. Secondo la docente, è più lo scontro tra la norma lavorativa anti-discriminatoria della Uè («là più avanzata al mondo»), e le leggi nazionali («che vincolano il soggiorno legale sul territorio alla condizione lavorativa»), a creare il vuoto retributivo.








Una firma al Riformista per i dissidenti di Cuba
il Riformista,22-03-2010
Nuccio Fava
Caro direttore, Cuba resta per me il posto più bello del mondo. L'ho scoperto negli anni 60, con una di quelle delegazie che affluivano all'Havana del 26 de julio. Si vedeva certo la povertà e la fatica dello sforzo di Fidel per costruire il socialismo. Ma anche si capiva in certa misura la contrapposizione agli Usa dopo il tragico errore del tentativo di sbarco e le gravi conseguenza dell'embargo.
Dall'altro lato la presenza dei sovietici era massiccia, emblematizzata da visi di donne e di uomini arrostiti sotto il sole dei Caraibi. Purtroppo neppure l'evoluzione internazionale, il crollo del muro, il viaggio di Giovanni Paolo II, "l'apertura" di Obama e l'agonia di Fidel, hanno favorito fin'ora evoluzioni positive. Anzi, le tragiche morti di questi ultimi giorni danno un colore ancora più cupo allo spegnersi di Fidel e confermano l'incapacità di una oligarchia di potere, che cerca invano equilibri per il dopo, sempre però ignorando o operando a danno del popolo cubano, e tentando ancora una volta di usarlo come massa di manovra.
Serve una reazione molto forte di tutte le opinioni pubbliche, forse più importante del poco che, temo, possano compiere le istituzioni internazionali. La Chiesa cattolica è forse la sola a potere influire fortemente. Ma, in ogni caso non può ridursi in alcun modo il nostro sdegno e la nostra protesta anche solo attraverso una firma all'iniziativa meritoria del Riformista.








Milano si spegne contro gli immigrati
La Stampa,22-03-2010
SUSANNA MARZOLLA
MILANO
L'ordinanza, letta attentamente, assomiglia alle grida spagnolesche tanto reboanti quanto inutili e disattese. Ma le parole che l'hanno accompagnata - con la richiesta di permettere perquisizioni senza mandato al solo sospetto dell'esistenza di «clandestini» - hanno prodotto immancabili polemiche, con la rievocazione di termini dei nostri tempi più bui: leggi razziali, delazione, rastrellamenti. Che il vice-sindaco Riccardo De Corato ieri ha cercato di rintuzzare:
«Chi dice queste cose sta deformando la realtà; abbiamo sempre agito nel rispetto della legge».
Il provvedimento «per mettere ordine nella zona di via Padova», tanto preannunciato dal sindaco Letizia Moratti, ha preso corpo giovedì sera in due ordinanze di nove pagine complessive.
La prima riguarda una riduzione dell'orario dei pubblici esercizi. Infatti chiude tutto con due ore di anticipo, ma pur sempre dopo molti esercizi analoghi in città: alle 22 per i negozi; a mezzanotte bar, ristoranti pizzerie e kebaberie (citate espressamente); alle 3 i locali. Chi ci rimette davvero sono gli ambulanti e i chioschi, totalmente proibiti in zona, e i phone center: serrande abbassate alle 22, «e per noi - si lamentano i titolari - è un grosso danno, visto il problema dei fusi orari».
La seconda ordinanza riguarda invece «il fenomeno della cessione in uso illegittimo degli immobili, con grave sovraffollamento e presenza abusiva di persone». La soluzione adottata dal Comune è quella di un modulo - praticamente in copia conforme con quello che, già per legge, deve essere depositato alla polizia -che deve essere compilato sia da chi affitta il locale sia da chi lo occupa per «scoprire eventuali discrepanze». In più è previsto l'obbligo per «gli amministratori dei beni condominiali» di «segnalare per iscritto situazioni contrarie alle normative vigenti» ma solo quando «ne avranno conoscenza».
Insomma le premesse per un nulla di fatto, o quasi. Condite però da propositi assai più drastici: «Andremo casa per casa a chiedere i titoli di occupazione» (De Corato); «Chiederò al ministro dell'Interno un decreto per inserire il reato di clandestinità tra quelli che permettono alla polizia perquisizioni senza mandato» (Moratti). E da qui l'accusa dell'opposizione: «Si vuole alimentare la paura».








La scuola dirotta lo straniero
Effetto "tetti" della Gelmini: migliaia di studenti a rischio trasferimento
La Stampa,22-03-2010
Flavia Amabile
Roma -Saranno migliaia gli alunni stranieri a rischio di essere trasferiti a scuole diverse da quelle in cui si sono iscritti. I numeri in questo caso sono una coperta che ognuno tira dalla propria parte. E ministero ha pubblicato un «Focus sulla presenza degli alunni stranieri nelle scuole statali» riepilogando le cifre sulla presenza di studenti immigrati in Italia.
Dal prossimo anno dovrebbe essere applicato il tetto massimo del 30% di alunni stranieri. Le classi in cui la presenza sarà superiore a questa percentuale dovranno adeguarsi e inviare gli alunni in più ad altri istituti o classi.
I ragazzi che quest'anno fanno registrare una presenza di alunni di origine straniera superiore al 30 per cento sono oltre 10 mila: 7.279 nella primaria e 3.122 nella scuola media. II record assoluto tra le regioni è della Lombardia dove il limite viene superato in 2.955 classi. In realtà, come ha precisato il ministro, nel calcolo della percentuale devono essere inclusi solo i ragazzi di cittadinanza straniera non nati in Italia. Di conseguenza, il numero delle classi interessate dal «taglio» si riduce a poco meno di 3.000: 2.893 per la precisione, 641 delle quali in Lombardia.
Il ministero, però, ha tenuto a precisare che a correre il rischio di essere interessate ad un trasferimento di alunni stranieri saranno soltanto il 2,8% delle scuole - una percentuale minoritaria, insomma - perché «circa il 18% delle istituzioni scolastiche ha una presenza straniera compresa tra l'11% e il 20% mentre nell'82,7% degli istituti di II grado la percentuale di studenti non italiani è inferiore al 20%».
Sul territorio italiano gli iscritti stranieri sono concentrati soprattutto nelle regioni del centro-nord, dove si registra una incidenza percentuale superiore alla media: le regioni dove maggiore è la presenza straniera sono l'Emilia Romagna (12,7%) e l'Umbria (12,2%). È comunque la Lombardia ad avere il maggior numero in assoluto di alunni stranieri con 151.899 unità. Al Sud, invece, le percentuali si mantengono al di sotto della media nazionale, in questo caso il valore più alto si registra in Abruzzo con una percentuale pari a 5,5%.
Il 37% degli alunni stranieri (cosiddetti di seconda generazione) è nato sul territorio italiano. In particolare in Lombardia e in Veneto oltre il 40% degli stranieri è nato in Italia». E' anche vero, però, come appare dai dati, che gli studenti con cittadinanza non italiana sono aumentati del 9,6%, mentre nell'anno scolastico precedente erano aumentati del 14,5%. Insomma c'è stato un calo di quasi 5 punti in percentuale. «Probabilmente connesso con la crisi economica mondiale», spiega il ministero.









"Invasi dagli extracomunitari Il rimedio? E' acqua fresca"
La Stampa,22-03-2010
Adesso, lo devo dire, via Padova mi fa paura; eppure la conosco bene, è una vita che sto qua». Una vita, davvero: Bice Cairati, in arte Sveva Casati Modignani autrice di tanti romanzi di successo, da quando è nata sta in una piccola traversa di via Padova, in una casa «costruita da mia bisnonna nel 1901» quando in quella zona di Milano andavano a vivere borghesi (nelle belle case con giardino, come quelle di Sveva) e piccolo borghesi, nei caseggiati più che dignitosi per
l'epoca. Di quella zona la scrittrice conosce tutta la storia e ha visto le trasformazioni negli anni, compresa l'immigrazione    meridionale:«Una   splendida   esperienza d'integrazione».
Fino a trent'anni fa «via Padova era una strada popolare di buona e sana gente». Poi sono arrivati gli stranieri: «Da principio pochi; due ragazzi marocchini praticamente "adottati" dal quartiere». Poi tanti, tanti: «Troppi; la proporzione è mutata in senso inverso. Che integrazione ci può essere quando gli italiani sono assai meno della metà, quando chi arriva qui è costretto a vivere in condizioni bestiali?». Sveva è scandalizzata da certi comportamenti («Fanno ì bisogni per strada»), impaurita da altri («Una sera in macchina una vettura si è affiancata e mi ha bloccato»). Ma soprattutto è arrabbiata «contro chi ha permesso questo, ha lasciato incancrenire la situazione;amministrando malissimo questa città». E adesso nuove misure? «Acqua fresca; anzi, peggio: è come il chirurgo che vede un'ulcera e invece di operare mette un cerotto. Il malato non può che peggiorare e la colpa è del medico».   









Lega, un sapone anti immigrati «E istigazione all'odio razziale»

Proteste contro la distribuzione di bustine di detergente in Toscana
Il Messaggero,22-03-2010
di ALBERTO GUARNIER!
ROMA - Razzismo o cattivo gusto? Il dubbio resta, come spesso davanti alle manifestazioni in difesa del "territorio" della Lega. Che stavolta almeno si prende la briga di precisare. se non di rettificare il tiro.
E sotto tiro oggi ci sono dei leghisti "del Sud", di Sansepolcro e di altre piccole frazioni della provincia di Arezzo, in Toscana. In alcuni dei tanti mercati della zona, militanti della Lega Nord hanno distribuito delle bustine contenenti sapone liquido con l'avvertenza di usarlo dopo aver toccato un immigrato.
«La lesa si conferma razzista e xenofoba. Distribuisce detergente anti-immigrati per lavarsi dopo aver toccato gli extracomunitari. È vergognoso, una vera e propria istigazione alla violenza», denuncia Leoluca Orlando. «Noi dell'Italia dei Valori - aggiunge l'ex sindaco di Palermo - chiediamo l'intervento del ministro Maroni. perché qui si tratta di una vera e propria istigazione all'odio razziali."Suggeriamo a Bossi -conclude Orlando- dato che oggi (ieri per chi legge - ndr), salirà sul palco di San Giovanni, a Roma, di distribuire ai suoi alleati il sapone perché, tutto hanno tranne che le mani pulite».
Di tono analogo la reazione di Giovanna Melandri del Pd. «L'ennesima manifestazione razzista della Lega è disgustosa dal punto di vista sociale e culturale ed è una grave aberrazione giuridica. Gli italiani -continual'ex ministro - si scuotano contro chi offende il loro spirito, la loro storia e la loro natura di popolo solidale e accogliente verso tutti. Tutte le istituzioni condannino in modo compatto ed esplicito un atto che è un reato di istigazione al razzismo. Lo faccia per primo il ministro dell'Interno cui compete il dovere di vigilare sull'ordine pubblico e sul rispetto delle libertà fondamentali».
Per una volta, come accennavamo, il Carroccio replica smentendo. L'eurodeputato Claudio Morgan ti. leader toscano della Lega infatti afferma: «Le accuse di razzismo per il gel igienizzante sono assolutamente false e opera di sciacalli politici. I gadget incriminati sono semplicemente bustine di sapone liquido con la scritta "'Vota Lega Nord", senza nessun'altra scritta». Si è trattato cioè di campagna elettorale, al massimo un po' alternativa», concede.
Resta il fatto che la Lega non è nuova a queste iniziative. Al di là delle sparate di singoli deputati, come quando vennero richiesti scompartimenti distinti tra bianchi e neri sui treni, anche social network come Facebook sono stati infestati da iniziative certo stupide, probabilmente razziste. E' il caso del gioco "Rimbalza il clandestino", lancialo in rete in occasioni dei respingimenti di immigrati. Il video game consentiva, cliccando su barconi virtuali, di ricacciare in mare chi tentava di approdare in Italia.





A Bolton, vicino Manchester. La polizia ne arresta 67
Razzisti e antifascisti in corteo maxi-rissa tra tremila militanti
la Repubblica,22-03-2010
MANCHESTER — E' stata una vera e propria battaglia quella che ieri a Bolton, nei pressi di Manchester, ha dovuto ingaggiare la polizia per tenere sotto controllo gli scontri tra migliaia di dimostranti. Due opposte fazioni in lotta in una maxi rissa: da una parte 1.500 sostenitori di Uniti contro il fascismo (Uaf), dall'altra 2.000 estremisti della destra razzista di English defence league (Edl). La Edl aveva convocato la manifestazione proclamando intenti pacifici per protestare contro «l'islam militante». Le due fazioni si sono scontrate nella piazza centrale del paese. La polizia, intervenuta anche con reparti a cavallo ha arrestato 67 persone.









Davanti  a Capitol Hill
Insulti razzisti e sputi contro deputati neri e gay
Corriere della sera,22-03-2010
WASHINGTON — Insulti razzisti e antigay sulla soglia del Congresso. Quattro deputati democratici, tre neri e un gay, che partecipano ai lavori dell'assemblea sulla riforma sanitaria, sono stati coperti di insulti razzisti e uno di loro ha denunciato di essere stato raggiunto da sputi. I parlamentari sono stati aggrediti, mentre si accingevano a entrare a Capitol Hill, da centinaia di persone aderenti ai Tea Parties, i gruppi ultraconservatori che contestano la riforma sanitaria e che, in occasione del voto, hanno organizzato una manifestazione di protesta denominandola «Codice Rosso».








Fratelli arabi fate mea culpa
Avveniri,22-03-2010
DI EDOARDO CASTAGNA
In arabo non esiste la parola «compromesso». E, ovviamente, se manca la parola, mancherà anche la possibilità stessa di concepire questa forma di conciliazione per superare gli attriti. Chi non ha ha disposizione un simile strumento intellettuale si ritroverà quindi l'orizzonte chiuso, incapace di uscire dalla logica dello scontro: e questa è una delle tante «prigioni della mente araba» denunciate dall'egiziano Tarek Heggy, un intellettuale arabo liberale -davvero liberale, non come il sedicente tale Tariq Ramadan -che da anni cerca di levare la sua voce, fatta di oggettività, di buonsenso e di moderazione, sul martellante chiasso dei mezzi di comunicazione arabi. Senza riuscirci granché, visto il totale dominio sui media esercitato dai gruppi estremisti o dai governi, autoritari e populisti, che agli islamisti strizzano l'occhio. Di Heggy Valentina Colombo ha curato una raccolta di scritti dove l'intellettuale - una formazione giuridico-economica e un passato da dirigente nelle multinazionali petrolifere, ma ora dedito a tempo pieno all'attività pubblicistica su quotidiani e siti arabi - mette senza mezzi termini sotto il naso dei suoi connazionali tutto il campionario di falsità, illusioni e «spacconate» nelle quali si crogiolano, convinti che tutti i loro problemi siano sempre e comunque colpa
dell'Occidente. Prima di tutto, Heggy denuncia «l'interpretazione conservatrice, medievale e beduina della religione»: ai suoi correligionari imputa l'essersi lasciati imporre, acriticamente, la versione wahhabita dell'islam, nata nel deserto e buona per il deserto, e che invece - grazie ai petroldollari che da quello stesso deserto sgorgano - ha finito per sovrastare, almeno mediaticamente, le ben più raffinate culture religiose del resto del mondo musulmano. Corollario, «un clima culturale che ha incoraggiato la diffusione dei valori tribali e del provincialismo». Heggy porta un esempio sportivo: i - rari -successi della nazionale di calcio egiziana vengono salutati in patria come fossero chissà quali imprese «faraoniche», nella generale incapacità di rendersi conto che, a livello mondiale, nel calcio l'Egitto è una forza di quart'ordine. E così in ogni ambito della vita quotidiana: enfasi del tutto sproporzionata per tutto ciò che è «loro», indipendentemente dall'effettivo valore, e simmetrico disprezzo per tutto ciò che è altro. Il tutto, ovviamente, favorito dai governi della regione, tirannici e «che hanno atteggiamenti ipocriti verso la democrazia, che considerano un mero strumento da utilizzare per arrivare al potere. L'unico aspetto che li interessa è l'urna elettorale, che possono usare come passaporto». Media «stile Goebbels» reiterano all'infinito la cultura del complotto che domina le menti arabe, secondo la quale la storia del Medio Oriente sarebbe stata pianificata a tavolino dall'Occidente giudeo-cristiano: una comoda scappatoia, denuncia Heggy, per non doversi rendere conto di quanto le difficoltà concrete degli arabi siano in realtà colpa degli arabi stessi, e che allo stesso modo sta soltanto a loro tirarsene fuori. «I nostri problemi - scrive - hanno origine solo ed esclusivamente dentro di noi e possono essere risolti solo in seno alla nostra realtà. Solo noi siamo responsabili». Per favorire questa presa di coscienza, Heggy non esita a mettere di fronte gli egiziani ad alcune verità scomode come la condizione dei copti - «non sono cittadini di seconda classe, hanno diritto a una cittadinanza totale al pari dei cittadini musulmani e tutte le angherie che stanno subendo devono essere risolte» - o delle donne - «la percezione negativa delle donne è una disgrazia: non solo rappresentano la metà della popolazione, ma sono le madri che crescono le generazioni future». Ma è ogni ambito della società civile egiziana, e araba più in generale, ad aver bisogno di essere riformata, dai rapporti politici internazionali - «scrivo per instillare nella mente egiziana che la storica decisione di Sadat di spostare il conflitto arabo-israeliano dal campo di battaglia ai negoziati era l'unico modo possibile di raggiungere un accordo ragionevole a un conflitto che è stato per troppo tempo sfruttato come scusa per ritardare la democrazia e lo sviluppo» - al sistema educativo - «attualmente questo sistema produce solo cittadini del tutto incapaci di affrontare le sfide della nostra epoca». Non è un percorso semplice né rapido, perché «nella storia dell'islam sono sempre esistite persone come al-Mawdudi, Sayyd Qutb, Osama Bin Laden, Ayman al-Zawahiri, Abu al-Zarqawi, ma hanno sempre rappresentato una minoranza rinnegata e marginale. La tragedia oggi è che non sono più marginali».







Piccoli assenti
I finiani spariscono dal popolo della libertà Da Silvio e Umberto sberla sull'immigrazione
Libero,22-03-2010
BRUNELLA BOLLOLI
ROMA Il volto abbronzato e impassibile di Flavia Penna la dice lunga su quanto ai finiani possa essere piaciuto il discorso di Silvio Berlusconi. Soprattutto quel passaggio sull'immigrazione, con l'alleato fedele al fianco, il leader leghista, Umberto Bossi. «Siamo in sintonia con la Lega sulla lotta all'immigrazione clandestina. L'abbiamo fermata, mentre la sinistra vuole spalancare le porte agli immigrati per alterare gli equilibri del voto, sapendo che noi moderati siamo la maggioranza». Il tema degli stranieri è uno di quelli su cui il cofondatore del PdL, Gianfranco Fini, ha fatto qualche fuga in avanti rispetto al resto del centrodestra. Il presidente della Camera non è stato mai nominato nei discorsi dal palco e, come annunciato, non c'era visto il ruolo istituzionale che ricopre. Ma in piazza, ieri, i finiani c'erano tutti: singoli, in piccoli gruppi, in tandem come Perina e Benedetto Della Vedova, mischiati tra il popolo azzurro. Presenti, ma non protagonisti.
Italo Bocchino, ad esempio, all'inizio non si è visto. Non ha sfilato insieme agli altri capigruppo (lui è vice alla Camera) inpartenza dal Circo Massimo, poi però è arrivato con nonchalance in giubbotto di pelle e pantaloni sportivi e si è infilato nel resto della folla. La mattina aveva dichiarato: «La manifestazione odierna consentirà a Berlusconi di ribadire dinanzi agli italiani le ragioni del centrodestra, aggredito da una strategia che l'ha limitato nella presentazione delle liste. Sarà anche l'occasione per contestare l'aggressione giudiziaria proveniente da Trani e che va letta a metà tra il ridicolo ed il tragico». A San Giovanni non è voluto mancare Donato Lamorte, classe 1931, storico tesoriere di An, colui che oggi amministra tutti i beni del partito che fu di Giorgio Almirante. Uno dei più stretti collaboratori del presidente della Camera. Poco distante Carmelo Briguglio, deputato, altro fedelissimo di Fini. Dalla Sicilia con furore anche Domenico Nania, vicepresidente del Senato. «Non è vero che sono qui a "denti stretti", io sostengo l'abolizione delle quote 70-30, perché solo così si fa nascere davvero il PdL come partito all'altezza del compito che si è dato». Defilato ma presente Adolfo Urso, viceministro dello Sviluppo Economico e condirettore di Farefuturo, la Fondazione di ispirazione finiana da cui spesso partono bordate al governo Berlusconi e che ieri se l'è presa per la questione del sapone "anti-immigrato" scoppiata in Toscana. Soddisfatto per la grande partecipazione il ministro per le Politiche comunitarie, Andrea Ronchi, molto vicino al presidente della Camera. Ha sfilato con gli altri colonnelli di Roma e del Lazio in prima fila per Renata Polverini, candidata finiana ormai "adottata" da Silvio.
Tutti gli ex An, comunque, sono sul palco di San Giovanni, Berlusconi li chiama «amici», ma solo per Bossi ha parole di affetto. A introdurre i cortei il ministro della Difesa e coordinatore del PdL, Ignazio La Russa. Lui, come Maurizio Gasparri e Altero Matteoli fa parte degli ex An, ormai distanti dalle posizioni di Fini. Perfino il sindaco di Roma Alemanno, microfono in mano, ha arringato la folla prima di passare la parola al premier. Il popolo azzurro ha vinto.





















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