Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

21 gennaio 2013

NEI CENTRI DI ESPULSIONE MOLTI TENTATIVI DI SUICIDIO. NON È GARANTITO IL DIRITTO ALLA SALUTE. LE TESTIMONIANZE DEI MIGRANTI
Malati di Cie. Tra i detenuti, senza cure
l'Unità, 21-01-2013
Flore Murard-Yovanovitch
Al di là di quelle sbarre, le cure sono minime. Nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie), come da capitolato d’appalto del ministero dell’Interno, l’assistenza sanitaria è di primo soccorso. Un approccio emergenziale che risale all’istituzione dei primi Cpt nel 1998, che però non è più adeguato ad un trattenimento dilatato fino a 18 mesi negli odierni Cie, perché interrompe de facto i percorsi terapeutici e le cure di medio-lungo periodo. Nel 2011, secondo i dati del ministero dell’Interno, sono stati 7.735 (6.832 uomini e 903 donne) i migranti trattenuti nei 13 Cie operativi in Italia. 7.735 persone, per le quali un diritto fondamentale come quello della salute, come emerge dal monitoraggio sistematico effettuato dall’ong Medici per i diritti umani (Medu), non è stato sempre garantito.
All’ingresso in quell’istituzione chiusa, il check-up iniziale è superficiale. Il personale sanitario delle Asl non ha accesso. I medici che ci operano sono privati, «chiamati» dall’ente gestore che gestisce il centro per conto dello Stato, e mancano spesso delle competenze specialistiche in ambiti come ginecologia e psichiatria. Inoltre scarseggiano i servizi di mediazione culturali e gli interpreti qualificati per le consultazioni medicali, come esige invece il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt Standards). Se l’ente gestore assicura spesso di avere stabilito un buon collegamento con i servizi delle Aziende sanitarie locali (Asl), in realtà la maggior parte dei centri non ha stipulato protocolli. Cioè, non esiste alcun regolamento per l’invio dei pazienti a visite specialistiche o analisi di laboratorio, per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive come Tbc, Hiv o epatiti.
Per una visita medica fuori dal Cie è obbligatoria la scorta di polizia. Ma la paura che il detenuto simuli o usi il trasferimento in strutture esterne per allontanarsi, porta spesso a sottovalutare la sua richiesta o sottostimare i sintomi denunciati. I pazienti lamentano la persistente disattenzione dei sanitari nei confronti delle loro patologie, e loro il timore delle simulazioni. All’interno di una struttura del tutto simile al carcere ma che non ne possiede i requisiti né le garanzie, viene quindi meno il normale rapporto di fiducia tra medico e paziente: sostituito da una relazione carceriere-sorvegliato.
DETENZIONE PEGGIORE DEL CARCERE
Se ti senti male, quindi, devi chiamare la guardia, che chiama l’ente gestore, che chiama il medico, e vieni inserito in una lunga lista d’attesa... Dall’indagine dell’International university college (Iuc) sul Cie di Torino emerge che i casi di gravi ritardi nella prestazione delle cure sarebbero numerosi. I detenuti hanno raccontato di un ragazzo che aveva ingerito un oggetto e che è rimasto per ore disteso a terra vicino al cancello, senza soccorso. Un altro, soggetto a crisi epilettiche, avrebbe dovuto essere ricoverato in ambito ospedaliero visto i gravi pericoli insiti nella patologia. A Omar, caso reso pubblico dall’Ong Medu e raccontato qui a fianco, i ritardi nella corretta diagnosi, sono stati devastanti, quasi fatali. Ma nei carceri per solo migranti, i casi di negazione delle cure potrebbero essere ancora per lo più sconosciuti e più numerosi.
Quando non è il corpo, in quelle «gabbie», è la psiche ad ammalarsi. La promiscuità totale. I percorsi di vita anche. Tra migranti appena giunti, persone che vivono e lavorano da anni in Italia, ex-carcerati, richiedenti asilo, persino cittadini dell’Ue (romeni), e categorie particolarmente vulnerabili come tossicodipendenti e vittime della tratta. Persone quindi che hanno esigenze diverse. La prospettiva di 18 mesi separati dai propri figli spesso nati in Italia e senza visite dei famigliari, è un incubo.
Mesi vuoti, obbligati in uno stato di ozio coatto, dove non è consentito ai cosiddetti «ospiti», per motivi di sicurezza, il possesso di un giornale, di una penna, di un pettine. Nemmeno di un libro. Un nulla spazio-temporale che il Rapporto della commissione diritti umani del Senato non esitava a definire «peggiore del carcere», per l’assenza delle garanzie offerte dal sistema penale. Una detenzione arbitraria e inutile, visto che meno della metà dei trattenuti viene rimpatriata, ma che ha invece pesanti conseguenze sulla loro vita.
Il profondo e diffuso malessere è testimoniato dai continui tentativi di suicidio e dalle numerose autolesioni inferte sui corpi. Viti, tubi, batterie, tutto va ingoiato o le vene tagliuzzate pur di essere trasferiti all’ospedale. Nel solo 2011, nel Cie di Torino, sono stati riscontrati 156 episodi di autolesionismo (100 dei quali per ingestione di medicinali e corpi estranei, 56 per ferite da arma da taglio). L’indicibile è poi denunciato dalle dirompenti perdite di peso, dall’insonnia, dalla depressione, dalle patologie ansiose e mentali.
Ma nei Cie non sempre è prevista la presenza di un servizio di sostegno psicologico, o è minimo e reattivo. Solo dopo i ripetuti atti violenti nel centro di via Brunelleschi a Torino sono stati introdotti degli psicologi, ma in altre strutture non ce ne sono sempre. Pur non essendo disponibili dati ufficiali, molti professionisti e volontari riferiscono di un ampio ricorso ai psicotropi a base di benzodiazepine. Ritrovil, Tavor, Talofen, ecc... Il problema: si somministrerebbe senza prescrizione o supervisione di un medico psichiatra specialista. «Mi danno 40 gocce di Minias e 30 di Tavor ogni sera», confessa una detenuta nel Cie di Torino. O come racconta un ragazzo diciottenne al 26 giorno di trattenimento: «Certo che prendo psicofarmaci, se non lo fai, vai fuori di testa qua». Difficile, poi in caso di sovraffollamento gestire tutti i casi.
Angoli bui, opachi, inquietanti della salute pubblica. Lasciati alla discrezionalità totale dalla parte degli enti gestori. Nei Cie, presidi sanitari, livelli igienici e di vivibilità degli ambienti e condizioni sanitarie degli stranieri detenuti non sono monitorati dalle autorità sanitarie pubbliche. I dati sanitari sono gravemente carenti per assente raccolta e sistematizzazione e non ci sono linee guida a livello centrale. I continui dinieghi del ministero dell’Interno di rendere disponibili a Medu o a Msf, a parte singoli casi, le convenzioni stipulate tra i singoli enti gestori e le Prefetture locali testimoniano di questa mancata trasparenza.
Oltre quelle mura, le veridicità delle condizioni di detenzione è raccontata, in silenzio, dai ripetuti scioperi della fame, incendi dolosi e atti di vandalismo, dalle continue rivolte e fughe raddoppiate rispetto all’anno precedente in quasi tutti centri visitati da Medu. Senza nominare le denunce di abuso punizioni, manganellate, quotidiane imposizioni, insulti verbali che costituiscono potenziali casi di trattamento inumano e degradante della persona umana.
«Qui è peggio di un carcere» è la frase che si capita sempre di sentire con più frequenza quando si ha accesso ad un Cie. «Vorrei che questo centro scomparisse e basta», dice un’altra trattenuta a Torino; altri si vedono come «corpi a disposizione totale della struttura». In 18 mesi, la mente e il corpo hanno tempo di ammalarsi e da quel luogo si esce in generale con condizioni peggiori di salute.



Immigrazione: sbarco a Siracusa
Bloccati trentacinque migranti, tra loro anche due minorenni
(ANSA) - CATANIA, 21 GEN - Sbarco all'alba di extracomunitari a Siracusa. Trentacinque migranti, compresi due minorenni, sono stati bloccati da polizia e carabinieri dopo essere arrivati sulle coste di contrada Ognina. Sul posto e' intervenuto personale della capitaneria di porto. Sono in corso le operazioni di identificazione dei migranti e indagini per verificare tra loro l'eventuale presenza di scafisti.



Disabilità e servizi sociali: due sentenze della Corte costituzionale stabiliscono che non occorre la carta di soggiorno o anzianità di residenza per accedere alle prestazioni.
La Consulta boccia la legge regionale della Calabria sul fondo di non autosufficienza e la legge della Provincia di Bolzano sull’accesso ai servizi sociali. Bocciata anche norma della legge atesina che prevede al partecipazione di Questura e Commissariato del Governo alla Consulta provinciale per l’immigrazione.
Immigrazioneoggi, 21-01-2013
Non occorre la carta di soggiorno agli immigrati che chiedono di accedere al fondo di non autosufficienza e non è necessario un periodo minimo di residenza sul territorio regionale o provinciale per l’accesso degli immigrati ai servizi sociali. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale pronunciatasi in merito a due disposizioni contenute nelle leggi della Regione Calabria e della Provincia di Bolzano.
In particolare, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittima la legge della Regione Calabria del 20 dicembre 2011 in materia di fondo per la non autosufficienza “nella parte in cui stabilisce che i cittadini extracomunitari, per beneficiare degli interventi previsti dalla medesima legge, devono essere in possesso di ’regolare carta di soggiorno’”. La Corte, in una sentenza depositata venerdì scorso, ritiene infatti la norma in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione perché “la limitazione del novero dei fruitori delle provvidenze” è da ritenersi “irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza”. Il riferimento presente nella legge alla ‘carta di soggiorno’, inoltre, risulta poi “inattuale”, osserva la Consulta, in quanto sostituita dal “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo” la cui “condizione preliminare di ottenimento è il possesso, da almeno 5 anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità”. Nella legge, dunque, “è stato introdotto un elemento di distinzione arbitrario, non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la condizione di accesso dei cittadini extracomunitari alle prestazioni assistenziali in questione e le situazioni di bisogno o disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto di fruibilità di una provvidenza sociale”. Infatti, si legge ancora nella sentenza, “non è possibile presumere in modo aprioristico che stranieri non autosufficienti, titolari di un permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo versino in stato di bisogno o disagio maggiore rispetto agli stranieri che, sebbene anch’essi regolarmente presenti nel territorio nazionale, non possano vantare analogo titolo legittimante”.
La Corte, in una sentenza depositata il medesimo giorno, ha dichiarato l’illegittimità di alcuni articoli della legge n. 12 del 2011 della Provincia autonoma di Bolzano, contro i quali aveva presentato ricorso la Presidenza del Consiglio dei ministri. In primo luogo la Corte ha censurato la legge nella parte in cui stabilisce che alla Commissione provinciale per l’immigrazione partecipino anche rappresentanti della Questura e del Commissariato del Governo: la Provincia non può imporre obblighi ad organi dello Stato. In secondo luogo la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 10 di questa legge, che prevede che per l’accesso a prestazioni di assistenza sociale aventi “natura economica” sia previsto per i cittadini di Stati non appartenenti all’Ue, “un periodo minimo di cinque anni di ininterrotta residenza e dimora stabile in Provincia di Bolzano”, in quanto in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione. Per la Consulta, infatti, “la previsione di un simile requisito non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza”. Un altro articolo giudicato costituzionalmente illegittimo è l’articolo 12 che riguarda i ricongiungimenti familiari, per i quali i requisiti previsti per gli immigrati sarebbero equiparati a quelli per i residenti: la Provincia autonoma, osserva la Consulta, non può legiferare su questa materia in base all’articolo 117 della Costituzione che “attribuisce alla competenza statale esclusiva la legislazione in materia di immigrazione” e non essendo la questione inclusa tra quelle “nelle quali la Provincia di Bolzano è legittimata a legiferare”.



«Più diritti ai figli degli immigrati» Ma Tosi stoppa la Zaccariarotto
La presidente della Provincia di Venezia apre ai vescovi. Il segretario del partito: «Linea personale»
Corriere della sera, 21-01-2013
VENEZIA — La lettera inviata al Gazzettino è di qualche giorno fa, ma la polemica è fresca fresca. Perché la posizione assunta dalla presidente della Provincia Francesca Zaccariotto in materia di cittadinanza ai minori figli degli immigrati non è sfuggita venerdì mattina all'opposizione a Ca' Corner che ha deciso di cogliere al balzo l'apertura della leader leghista per presentare una mozione per il riconoscimento della cittadinanza onoraria ai figli degli stranieri. «Potremmo cominciare a regolarizzare i bambini le cui famiglie puntano a un futuro nel nostro paese», aveva scritto Zaccariotto in netta contrapposizione con la linea ufficiale della Lega (e infatti non si sono fatte attendere le prese di distanza dei segretari locali del Carroccio) sollevando l'attenzione anche del livello regionale, tanto che ieri sulla vicenda è intervenuto anche il segretario nathional Flavio Tosi. «La linea della Lega Nord è chiara e si basa sul riconoscimento dello ius sanguinis», spiega il leader veneto del Carroccio. Cioé si è cittadini italiani se si è figli di altri cittadini italiani. «Come accade in tutta Europa», aggiunge Tosi, ricordando che lo ius soli (il diritto di acquisire la cittadinanza per il semplice fatto di nascere su un dato territorio) esiste solo negli Stati Uniti che, in effetti, hanno una tradizione diversa in materia di immigrazione rispetto al vecchio continente.
D'altra parte i minorenni figli di stranieri regolari hanno già diritto a restare in Italia e, a sentire Tosi, non è così difficile ottenere la cittadinanza compiuti i 18 anni. «Ne firmo decine ogni mese di queste richieste, è quasi un atto automatico», conferma il sindaco di Verona. «Rispetto la posizione di Francesca Zaccariotto — continua Tosi — ma la sua è una posizione del tutto personale ed è sbagliata da un punto di vista amministrativo». Per il segretario del Carroccio il motivo per cui non si può e non si deve concedere la cittadinanza ai figli degli stranieri al momento della nascita è semplice: «Nel caso in cui i genitori debbano lasciare l'Italia perché non sono più in regola dovrebbero lasciare qui i figli minorenni cittadini italiani». Oppure la soluzione sarebbe un'altra. E questa soluzione ovviamente fa a cazzotti con la posizione assunta dalla Lega in tutti questi anni. «Il rischio è che, in virtù del fatto che i figli sono italiani, anche i genitori lo diventino automaticamente e dunque saremmo di fronte a una sanatoria», conclude Tosi rimarcando di nuovo che la posizione della presidente della Provincia «è in contrasto con le linee del partito». «Fa scandalo la mia posizione sui bambini? — risponde Zaccariotto — Come mamma, come persona, come amministratrice e come politico non vedo come potrei essere contro i diritti dei bambini. La mia apertura però è stata strumentalizzata dalla minoranza consiliare in Provincia che, approfittando della campagna elettorale ha deciso di presentare una mozione sulla cittadinzna non per affrontare un problema complesso che richiede responsabilità politica, ma per mettere in difficoltà la mia persona all'interno della Lega». La riflessione affrontata dalla presidente della Provincia di Venezia seguiva la posizione adottata dai vescovi del Triveneto che aprivano alla solidarietà e alla cittadinanza agli stranieri e ruotava attorno al fatto che «non ci sono i mezzi né gli strumenti per poter garantire la sicurezza dei cittadini di fronte agli immigrati che delinquono, ma non per questo è giusto che la responsabilità degli adulti ricada sui minori».
«Il problema a monte è quello del rispetto delle regole fin da subito — continua Zaccariotto — che richiede un lungo percorso di inserimento positivo nella comunità da parte degli immigrati, cosa che oggi avviene spesso senza presìdi». Un esempio delle difficoltà di gestione del fenomeno è fornito dalla vicenda dei migranti dalla Libia, in seguito alla cosiddetta «Primavera araba». Accolti temporaneamente due anni fa (su richiesta dell'allora ministro degli Interni Roberto Maroni che ha applicato la legislazione europea) gli stranieri sono ancora in Italia perché non ci sono risorse per permettere il ritorno in patria sulla base degli accordi internazionali. «Questi sono i problemi concreti da affrontare da amministratori e questa è la governance del territorio — conclude Zaccariotto — Fa specie che aver posto una questione così ampia, così importante, che riconosce la difficoltà e la ciclicità del problema dell'immigrazione, venga ancora una volta utilizzata in modo strumentale».
Al.A.



La mancanza delle condizioni igienico-sanitarie dell’alloggio non può impedire la fissazione della residenza anagrafica.
Il Ministero dell’interno invita i sindaci ad uniformarsi al parere del Consiglio di Stato che chiarisce definitivamente condizioni e modalità per le verifiche ed i controlli sulle condizioni igienico-sanitarie delle abitazioni.
Immigrazioneoggi, 21-01-2013
Il Dipartimento degli affari territoriali del Ministero dell’interno ha emanato la circolare 1/2013 con la quale fornisce l’interpretazione delle disposizioni contenute nella legge 94/2009 che prevedono la facoltà per i comuni di effettuare verifiche e controlli sulle condizioni igienico-sanitarie dell’abitazione in sede di richiesta di iscrizione o di variazione anagrafica.
Il Ministero, adeguandosi ad un parere fornito dal Consiglio di Stato, ricorda in primo luogo che l’iscrizione anagrafica nei registri della popolazione residente costituisce un diritto ed un dovere di ogni cittadino italiano e straniero regolarmente soggiornante, per cui “la mancanza dei requisiti igienico sanitari non preclude, in linea di principio, la fissazione della residenza anagrafica in luogo idoneo”.
La verifica delle condizioni igienico sanitarie, inoltre, non costituisce un obbligo ma una facoltà, legata all’esigenza di controlli reali ed effettivi (tali comunque da non appesantire il procedimento e cagionare ritardi all’iscrizione), che deve essere esercitata senza alcuna discriminazione tra cittadini italiani, appartenenti all’Ue e stranieri regolarmente soggiornanti.
Il Consiglio di Stato inoltre ricorda che l’eventuale rigetto della domanda di iscrizione anagrafica va sempre valutata con estrema prudenza, essendo produttiva di danni risarcibili.



“Uccisa dall’ex, coi musulmani finisce così”
Femminicidio in Brianza, vicesindaco leghista accusa gli stranieri. E scoppia la polemica
la Repubblica, 21-01-2013
Gabriele Cereda
MONZA — «Se non si vuole finire ammazzati è meglio evitare di farsi una famiglia con un musulmano ». Le parole sono di Stefano Tornaghi, vicesindaco leghista di Bernareggio, dopo che a pochi passi da casa sua è avvenuto l’ennesimo femminicidio. Ed è subito polemica.
Undicimila anime a 30 chilometri da Milano, la calma della cittadina è stata rotta alle 19.40 di sabato quando Mustafà Hashuani, marocchino, operaio disoccupato di 45 anni, è entrato in caserma per confessare l’omicidio dell’ex moglie, Antonia Stanghellini, 46 anni, da cui si era separato un anno fa. I carabinieri e i medici del 118 l’hanno trovata riversa a terra in una pozza di sangue nella cucina della sua casa. Il movente è quello della gelosia. «Non sopportavo che la nostra relazione fosse finita e che si potesse vedere con un altro uomo», davanti ai militari, l’assassino ha raccontato la sua verità, prima di essere rinchiuso nel carcere di Monza.
Ma per il vicesindaco leghista la verità è un’altra: «Capisco l’avventura, ma pensare di farsi una vita con un musulmano è utopia. Poi è normale che le cose vadano a finire così». Frasi che hanno scatenato la bufera e dalle quali ha preso le distanze il sindaco del Pdl, Emilio Biella: «Sono parole
che non rispecchiano il pensiero dell’amministrazione. Anzi, abbiamo partecipato alla marcia della pace organizzata da alcuni arabi residenti in città per portare la nostra solidarietà ai tre figli della coppia». Ma il militante del Carroccio è categorico: «Quello che dico lo penso e credo sia condiviso dal mio partito. Negli ultimi anni, Bernareggio è cresciuta a dismisura per colpa di un’immigrazione massiccia di stranieri. Abbiamo permesso a cani e porci di entrare nel nostro Paese, senza regolamentare nulla. La conseguenza è stato l’abbassamento della classe sociale con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti». Cultura, religione, usi e costumi diversi sarebbero le cause dell’omicidio. Un pensiero a senso unico, quello del vicesindaco, che rimarca: «Le cronache ci parlano di musulmani che scappano con i figli o che vietano di battezzarli. Trovo inconcepibile che una donna italiana possa pensare di avere una famiglia con questa gente».
Al contrario, per Enrico Brambilla, consigliere brianzolo del Pd in Regione Lombardia, «è proprio da questo tipo di cultura che traggono origine alcuni dei peggiori fenomeni della nostra società. Lo schema di violenza dell’uomo sulla donna non riconosce etnie, religione o cultura». Invita a non strumentalizzare l’accaduto il parroco. «Un fatto doloroso come questo non merita etichette. Il male non ha colore, nazione o religione», dice don Luca Raimondi, che da ieri non ha perso di vista un momento i figli più piccoli della coppia, di 12 e 16 anni, Josef e Nadia, che erano fuori di casa al momento dell’omicidio. E oggi rientrerà dall’estero anche Sara, la figlia di 20 anni in Spagna per motivi di studio, che la vittima aveva avuto da un precedente matrimonio.

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