Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

14 settembre 2010

Italia-Libia Sparatoria in mare
Spari dalla vedetta dei libici A bordo sei militari italiani
Corriere della sera, 14-09-2010
Alfio Sciacca
Colpito un peschereccio siciliano. Frattini: scuse da Tripoli
LAMPEDUSA (Agrigento) —Una sventagliata di fori sulla fiancata di sinistra e la cabina di pilotaggio. Il peschereccio «Ariete», approdato ieri mattina a Lampedusa, mostra ancora «i segni di una notte di terrore». «Abbiamo rischiato di morire - racconta l'equipaggio — i libici ci hanno mitragliato ad altezza d'uomo». Ma l'aspetto più imbarazzante è che i colpi sono partiti da una delle sei motovedette donate dall'Italia alla Libia nell'ambito degli accordi per il contenimento dell'immigrazione. «Non ne so-no certo - aveva detto il comandante Gaspare Marrone — ma a sparare è stata una motovedetta simile a quelle della Finanza». E in serata è arrivata la conferma. Era proprio una dei mezzi navali della classe «Bigliani» donati dall'Italia. In più a bordo c'erano due ufficiali e quattro sottufficiali delle Fiamme Gialle. Tutti con compiti di osservatori così come previsto dagli accordi con Tripoli. Questo chiarisce anche il giallo nato dopo le dichiarazioni dell'equipaggio. «Qualcuno parlava italiano - avevano raccontato - ci ha urlato: "fermatevi altrimenti questi vi sparano". Strano! Che motivo aveva di dire questi?». Resta da capire qual è stata la reazione dei militari italiani mentre i libici aprivano il fuoco contro un peschereccio di connazionali.
Ora c'è chi chiede che il ministro degli Esteri venga a riferire in Parlamento sul trattato con la Libia. E Frattini ieri ha dato le prime spiegazioni. «Il comando a bordo è degli ufficiali libici - ha detto al Tg1- i nostri uomini non hanno ovviamente preso parte all'operazione. Il comandante libico ha ordinato di sparare in aria, poi invece è stata colpita l'imbarcazione. A seguito dell'azione della nostra ambasciata il comandante generale della guardia costiera libica ha espresso le sue scuse alle autorità italiane». Ed ha aggiunto che «il ministro Maroni ha deciso di avviare un'inchiesta e di convocare per domani (oggi ndr) una riunione sul funzionamento delle regole d'ingaggio». Precisando che sparare «esula dalle regole di ingaggio». Altre inchieste sono state aperte dalla Guardia Costiera e dalla Procura di Agrigento che vuol verificare se realmente (ha dato incarico al Ris) sono stati sparati colpi ad altezza d'uomo. Già acquisite le dichiarazioni dei 10 uomini di equipaggio che alla luce della presenza di militari italiani a bordo della motovedetta libica assumono un peso notevole. «Siamo vivi per miracolo - ha raccontato uno di loro, Alessandro Novara -sparavano all'impazzata e noi sentivamo i proiettili rimbalzare da una parte all'altra». I colpi di mitra hanno sforacchiato anche un gommone
utilizzato come tender. Il tentativo di abbordaggio è avvenuto a 30 miglia dalle coste libiche. Siamo nel Golfo della Sirte dove la Libia rivendica la propria esclusiva competenza, reinterpretando il diritto marittimo che individua le acque internazionali oltre le 24 miglia. Le tensioni con la marineria siciliana non sono certo una novità anche se i colpi di mitra sono un triste ricordo degli anni novanta. È del giugno scorso invece il sequestro di tre equipaggi mazaresi rilasciati dopo tre giorni grazie alla mediazione personale di Berlusconi. Questa volta è toccata all'Ariete, peschereccio d'altura di 32 metri che è diventato il vanto della marineria siciliana.. Il capitano e i suoi uomini sono intervenuti in diverse operazioni di soccorso di immigrati. L'ultimo nel giugno 2008 per salvare 27 disperati per giorni aggrappati alle gabbie dei tonni. Questo gli è valso il premio «Per mare» dell'alto commissario Onu per i rifugiati. Dopo la sosta a Lampedusa il motopesca ha già ripreso il mare. L'armatore Giuseppe Asaro cerca di smorzare i toni: «È stata solo un'incomprensione». Ma la marineria Sicilia insiste perché si intervenga «definitivamente sull'estensione unilaterale da parte della Libia delle proprie acque territoriali ben oltre le 12 miglia».



IL Trattato da riscrivere

Corriere della sera, 14-09-2010
Fiorenza Sarzanini
L? imbarazzo che si respira al Viminale non basterà a rovinare i rapporti con la Libia, ma certo quanto accaduto ieri riapre in maniera forte le polemiche sull'accordo siglato dal governo italiano con il colonnello Gheddafi.
Perché quelle sei motovedette consegnate ai militari di Tripoli - le prime tre nel maggio scorso durante una cerimonia organizzata nel porto di Gaeta alla presenza del ministro dell'Interno Roberto Maroni e dell'ambasciatore in Italia Hafed Gaddur - devono essere utilizzate per un compito preciso: contrastare l'immigrazione clandestina. E dunque adesso bisognerà capire come mai i militari libici che erano a bordo abbiano sparato contro il motopeschereccio, ma soprattutto quale ruolo abbiano avuto i sei finanzieri, due ufficiali e quattro sottufficiali.
La versione libica fatta filtrare nel pomeriggio di ieri assicura che l'imbarcazione di Mazara era entrata in acque territoriali e la reazione si è resa necessaria per bloccare la pesca di frodo. In particolare è stato detto che «si trovavano al largo della località di Abu Kammash», dunque a circa 30 miglia dal porto di Zwarah. Questa ricostruzione non appare però supportata da alcun dato concreto per dimostrare che davvero il peschereccio abbia superato le acque internazionali. Del resto l'accordo sottoscritto dall'Italia prevede che i mezzi marittimi pattuglino la zona a ridosso del confine, ma dove passi esattamente questa linea nessuno lo ha mai stabilito. E in ogni caso non è previsto che si possa fare fuoco per fermare chi ha eventualmente superato la frontiera.
Invece proprio questo è accaduto e adesso anche i rappresentanti del governo sono costretti ad ammettere la necessità di modificare le regole di ingaggio, intervenendo su quei punti del «trattato d'amicizia» che lasciano spazio all'interpretazione sull'utilizzo delle motovedette e sui compiti effettivi assegnati agli ufficiali che attualmente hanno soltanto funzioni di «osservazione e supporto».
Maroni ne ha parlato a lungo con il titolare degli Esteri Franco Frattini prima di confermare per oggi una riunione tecnica che dovrà servire proprio ad avviare la procedura per correggere l'intesa bilaterale. Anche perché quanto accaduto ieri è soltanto l'ultimo degli episodi che segnano la volontà dei libici di ottenere il controllo pressoché totale di quel tratto di mare. Già da molti anni Gheddafi rivendica infatti la propria giurisdizione sul Golfo della Sirte. Gli ordini impartiti ai suoi mezzi navali violano le regole internazionali e in ogni caso non possono valere -proprio questo sarebbe stato ribadito nei
contatti fra i due Paesi visto che poi in serata sono arrivate le scuse ufficiali e l'annuncio della creazione di un comitato d'inchiesta che indagherà su quella che viene ritenuta una vera e propria aggressione - per il personale libico che utilizza le motovedette messe a disposizione dall'Italia.
La Farnesina, ma anche i comandi delle forze italiane che hanno inviato a Tripoli un contingente per addestrare e affiancare il personale, specificano che «i nostri sono cittadini stranieri su suolo libico e dunque non hanno alcun potere di intervento». E proprio la regola che deve essere cambiata, assegnando agli ufficiali italiani un compito operativo che consenta loro di poter agire quantomeno in accordo con il comandante libico. «Ma - chiariscono al ministero degli Esteri - bisogna anche mettere a punto l'elenco delle situazioni nell'ambito delle quali è consentito l'utilizzo delle motovedette, specificando che tutte le apparecchiature fornite sono esclusivamente destinate al contrasto dell'immigrazione clandestina e non ad altri scopi».
Del resto le motovedette sono soltanto una delle numerose concessioni fatte dall'Italia a Tripoli per ottenere il pattugliamento marino. Oltre ai sei mezzi navali sono state consegnate apparecchiature per il controllo terrestre, radar, autoveicoli, senza contare i 5 miliardi di dollari in vent'anni e l'impegno alla costruzione dell'autostrada che attraverserà perpendicolarmente il Paese. Il «grande gesto» che il colonnello rivendica e sul quale ha ormai ottenuto la sottoscrizione dell'impegno formale.



E se erano immigrati?

Europa, 14-09-2010
Stavolta ce ne vogliono di spiegazioni, e di approfondite. Le prime, offerte dal solito Frattini, sono ridicole e inattendibili.
L'intreccio personale/affaristico/ ideologico tra Gheddafi e Berlusconi ha già esposto l'Italia a umiliazioni internazionali ripetute. Adesso accade qualcosa di più. Questioni di fondo vengono spalancate dall'incidente del mitragliamento dell'Ariete da parte di una motovedetta regalata dagli italiani come parte dello scambio sul respingimento dei clandestini.
La motovedetta classe Bigliani ha inseguito per ore nella notte l'Ariete, sparando a ripetizione ad altezza di cabina e avendo a bordo un ufficiale della Finanza che, piuttosto che funzioni di osservatore come dicono i suoi superiori, sembrava ricoprire un ruolo di comando.
Che cosa vuol dire? Qual è la prassi operativa dei pattugliamenti? Chi comanda a bordo? E come si comportano i libici (magari sotto comando italiano) quando intercettano - anche in acque internazionali, come stavolta - barche che potrebbero avere a bordo gli immigrati che si vogliono respingere?
Più volte i ministri leghisti hanno chiesto che si facesse fuoco sui boat-people. Ora i finanzieri di Tremonti potrebbero aver trovato il modo per esaudire l'auspicio, facendo finta che il lavoro sporco lo facciano - come ai tempi degli ascari, e come accade già nei campi di concentramento del deserto - i sudditi di Gheddafi. Dal folklore delle hostess siamo passati all'orrore del fuoco sui disperati?   



Nave libica spara a un nostro peschereccio
Ma se per una volta mitragliassimo noi il beduino?
Libero, 14-09-2010
FRANCESCO BORGONOVO
È successo domenica sera: una motovedetta libica ha mitragliato l'Ariete, un peschereccio italiano - di Mazara del Vallo, per la precisione. Fortunatamente, la sparatoria non ha provocato danni irreparabili (morti o feriti). Ma in questa vicenda ci sono molti aspetti oscuri. Intanto, i colpi sono partiti (...)
(...) da una delle sei imbarcazioni appartenenti alla Guardia di Finanza e consegnate alla Libia dal nostro governo tra il 2009 e il 2010 allo scopo di facilitare la lotta all'immigrazione clandestina. Dunque ci hanno mitragliato da una nave che gli abbiamo regalato noi. Secondo punto oscuro: a bordo della motovedetta libica c'era anche un italiano, un ufficiale delle Fiamme Gialle. Il quale avrebbe pure cercato di avvertire il peschereccio Ariete.
Perché i libici hanno aperto il fuoco? Il pEschereccio italiano si trovava all'interno del golfo della Sirte, che Gheddafi considera territorio di sua proprietà. Quindi l'imbarcazione di Mazara avrebbe violato acque proibite. C'è da considerare però che non tutti sono d'accordo con la lettura del Colonnello. Secondo gli Stati Uniti, infatti, quelle sarebbe¬ro acque internazionali. Risultato: l'«inferno di fuoco» - parole del comandante dell'Ariete Gaspare Marrone - appare incomprensibile. La prima cosa da fare, di conseguenza, è chiarire i contorni di questa vicenda in apparenza assurda. Sia 0 ministro dell'Interno Roberto Maroni che quello degli Esteri Franco Frattini stanno indagando sull'accaduto.
Però una cosa bisogna dirla. Questa volta, dal Colonnello Gheddafi dobbiamo pretendere totale collaborazione e massima chiarezza. E, nel caso in cui si stabilisse che la bilancia della colpa pende dalla parte dei suoi uomini, non potrebbe non esserci adeguata riparazione nei confronti del nostro Paese.
Dell'amico Beduino abbiamo tollerato anche troppo le tuniche e le mattane. È venuto a Roma a campeggiare con la tende e abbiamo inghiottito il boccone. Ha fatto ritorno poco tempo fa, offrendo lezioni di religione islamica tra fanciulle che sventolavano 0 Corano. E ancora una volta abbiamo ascoltato la voce della ragion di Stato, quella che suggeriva di pensare agli interessi italiani in Nord Africa, trascurando il fastidio. Però a tutto c'è un limite. Si chiarisca ogni co-
sa, quindi, e presto. Vediamo se la collaborazione Gheddafi la cerca solo quando gli pare oppure no.
Chiediamoci, infine, che cosa succederebbe se, per una volta, fossimo noi a sparare addosso ai libici (che a cannoneggiarci ci hanno già provato in altre occasioni). Immaginiamo che scoppierebbe il putiferio. E una baraonda ancora peggiore esploderebbe se - tanto per dire - decidessimo di colpire la Beduino Spa laddove più duole, ovvero nel portafogli. Magari lasciando la Consob libera di cannoneggiare i libici in Uni-credit...



REGIMI
Cavalli berberi e hostess convertite L'ultima visita del Rais
Avvenire la definì una "incresciosa messa in scena", "un boomerang", "una lezione, magari pure per i suonatori professionisti di allarmi sulla laicità insidiata". Fatto sta che la visita del colonnello Muhammar Gheddafi in Italia, nella fine dell'agosto scorso, è passata alla cronache più per le hostess pagate e convertite e per i cavalli berberi, che per un effettivo peso politico dell'iniziativa. Nella sera del 30 agosto, da una caserma dei carabinieri di Roma, la Salvo d'Acquisto, davanti a 800 ospiti "vip", Gheddafi pronunciò la richiesta che fece sobbalzare le "cancellerie" europee. Domandava "5 miliardi di euro l'anno" alla Ue per ottenere un impegno nel contrasto all'immigrazione dalle coste libiche verso l'Europa. Le critiche per la visita arrivarono da più parti. I "finiani" di Fli affermarono che il nostro Paese era diventato la "Disneyland di Gheddafi". Il ministro degli Esteri Franco Frattini scrollò le spalle: "La politica estera è complessa".
TI SPARO, IN AMICIZIA
Mitragliate contro motopesca italiano vicino alla Libia Sulla nave (donata dall'Italia), la Guardia di Finanza

il Fatto Quotidiano, 14-09-2010
Giampiero Gramaglia
L' amico Gheddafi ci spara addosso, con armi probabilmente italiane da una 1 motovedetta italiana e con a bordo militari italiani per insegnare ai libici come si fa. È il modo del dittatore di ricambiare all'Italia l'amicizia appena celebrata a Roma in pompa magna: l'accordo del 2008 "fa acqua", anzi poteva ridursi a un colabrodo. E non è neppure la prima volta che Gheddafi ci tira contro: nel 1986, ci sparò due missili, senza prenderci -l'obiettivo era un'installazione militare Usa a Lampedusa -.
PER CARITÀ!, Gheddafi e i libici possono pure averci le loro ragioni: allora, nel 1986, un raid aereo Usa aveva appena bombardato il territorio libico, facendo decine di vittime a Tripoli e a Bengasi, fra cui una figlia adottiva del colonnello; e questa volta, il motopesca Ariete di Mazara del Vallo aveva forse violato le pretese acque territoriali libiche. Ma non è che spararci addosso, a rischio di fare vittime, fosse, domenica sera, l'unica opzione. La sventagliata di mitraglia contro l'Ariete, motopesca d'altura di Mazara del Vallo, 32 metri, è stata preceduta dall'intimazione a fermarsi, ma il peschereccio è riuscito ad evitare l'abbordaggio e, ieri mattina, è giunto a Lampedusa. I colpi hanno sforacchiato la fiancata e raggiunto la cabina di guida e un gommone utilizzato come tender. Nessun dei membri dell'equipaggio, una decina di persone, è rimasto ferito. "Siamo vivi per miracolo -ha riferito un marinaio - Hanno sparato all'impazzata", rischiando di provocare l'esplosione delle bombole di gas che erano a bordo.
LA MOTOVEDETTA libica era una delle sei unità della Guardia di Finanza che il governo italiano ha consegnato a Tripoli (tre nel maggio 2009 e tre a inizio 2010) nel quadro dell'accordo per contrastare con pattugliamenti congiunti l'immigrazione clandestina. Oggi, le sei unità sono libiche a tutti gli effetti e battono bandiera libica: i finanzieri a bordo fanno da osservatori e forniscono consulenza tecnica (chissà se avranno suggerito l'alzo da usare per tirare contro l'Ariete).
Mentre si scatenano le polemiche e l'opposizione chiede al governo di riferire in Parlamento, la Guardia Costiera conduce l'inchiesta, i cui atti andranno alla Procura di Agrigento per eventuali sviluppi giudiziari. Il comandante del peschereccio, Gaspare Marrone, è stato il primo a essere ascoltato: l'attacco è avvenuto a circa 30 miglia dalle coste libiche, vicino alle acque tunisine, mentre l'Ariete non stava pescando. La versione del comandante sarà confrontate con i dati della "blue box", una sorta di "scatola nera".
La "guerra" tra pescatori mazaresi e autorità libiche, e pure tunisine, va avanti da molti anni. Prima dell'estate, il 10 giugno, i libici avevano sequestrato tre pescherecci mazaresi, rilasciandoli tre giorni dopo per intervento di Berlusconi. Il contenzioso di pesca nasce dalla pretesa di Gheddafi che tutte le acque del Golfo della Sirte siano libiche, ben oltre i limiti del diritto internazionale. Italia e Libia si sono impegnate a trovare un'intesa in materia di pesca, ma non l'hanno ancora raggiunta. LA FARNESINA sta cercando di capire come sono andate davvero le cose. L'ambasciatore libico in Italia Abdulhafed Gaddur annuncia " un comitato d'inchiesta sui motivi dell'incidente, aperto anche agli italiani che vi potranno partecipare". In passato, l'Ariete aveva più volte soccorso barconi di migranti in difficoltà, contribuendo a salvare oltre 700 persone. Per il comandante Marrone "la legge del mare impone di aiutare chi è in difficoltà". Gesti e parole che valsero a lui e all'equipaggio un premio del commissariato dell'Onu per i rifugiati. Ora, l'amico Gheddafi li ha premiati a modo suo.



LA GUERRA DEL MEDITERRANEO Pattugliamenti congiunti contro i clandestini
B., Maroni e Gheddafi permettono questo
il Fatto Quotidiano, 14-09-2010
Silvia D'Onghia
Noi gli diamo la possibilità di farlo e lui ci spara. E' stato il governo Berlusconi a cedere definitivamente alla Libia sei unità navali della Guardia di Finanza, lasciando a bordo personale italiano (teoricamente nel ruolo di "osservatore"). E anche se ora Maroni annuncia l'apertura di un'inchiesta per verificare se l'utilizzo dei nostri mezzi sia coerente con gli accordi, resta il fatto che la mano di Gheddafi l'abbiamo armata noi.
Il primo accordo tra Italia e Libia in materia di lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di droga e all'immigrazione clandestina risale al 13 dicembre 2000. Porta la firma dell'allora ministro degli Esteri Lamberto Dini, e parla genericamente di scambio di informazioni e di cooperazione nella formazione del personale. Sette anni dopo, il 29 dicembre 2007, il ministro dell'Interno Giuliano Amato firma un protocollo nel quale si afferma che le parti si impegnano ad intensificare la cooperazione. In particolare, il nostro Paese si impegna a cedere "temporaneamente" 6 unità
navali, che avranno equipaggi misti e il compito di "controllo, ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza e di transito delle imbarcazioni dedicate al trasporto di immigrati clandestini, sia in acque territoriali libiche che internazionali, operando nel rispetto delle Convenzioni internazionali vigenti". Nella stessa data, a firma del capo della polizia, Antonio Manganelli, viene siglato anche un Protocollo aggiuntivo, che specifica che le sei unità navali (della Guardia di Finanza) da cedere a Tripoli debbano essere prive di insegne, che il personale italiano debba essere progressivamente ridotto e si debba istituire un Comando operativo interforze.
L'accordo di controllo con Gheddafi
PASSA qualche mese, cambia il governo, e il 30 agosto 2008 Berlusconi e Gheddafi firmano l'ormai celebre "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione".Quello che deve chiudere definitivamente il "doloroso capitolo del passato". Il punto 2 dell'articolo 19 recita: "Le due parti promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche. Il governo italiano sosterrà il 50% dei costi, mentre per il restante 50% le due parti chiederanno all'Unione europea di farsene carico".  Tutti  amici, tutti contenti. Il Trattato viene ratificato dal Parlamento italiano qualche mese più tardi, il 4 febbraio 2009. Esattamente nelle stesse ore, però, il ministro dell'Interno   Roberto Maroni sigla, assieme al Segretario del comitato popolare per la Pubblica sicurezza libica, un altro documento, quello che di fatto sancisce l'inizio dei respingimenti. Si tratta di un "Protocollo concernente l'aggiunta di un articolo al Protocollo" del 2007, quello di Amato. "Le due parti organizzano pattugliamenti marittimi con equipaggi congiunti di elementi italiani e libici equivalenti in numero. I mezzi navali offerti dalla parte italiana alla parte libica saranno ceduti in proprietà". Poi lo scopo del testo: "Ciascuno dei due Paesi provvederà al rimpatrio degli immigrati clandestini dal proprio territorio".
Tra l' 11 e il 13 marzo 2009 si riunisce la Commissione incaricata dell'attuazione dei protocolli, che decide che il pattugliamento sarà effettuato per tre anni e che le attività congiunte saranno avviate il 15 maggio. E già su questo c'è da segnalare un'anomalia. Il primo pattugliamento, e quindi la riconsegna dei primi 231 immigrati, verrà effettuato il 6 maggio, in anticipo. La Commissione dice anche che il personale deve svolgere il ruolo di "osservatore", non potendo "in nessun caso emanare ordini o direttive, né eseguire materialmente controlli a persone e mezzi navali". Si sottolinea che nessuno dovrà indossare una divisa e che le unità navali dovranno essere riverniciate di grigio e inalberare la bandiera libica.
L'Unione ci chiede conto È A QUESTO punto che l'Europa comincia a chiedere spiegazioni. Il 15 luglio 2009 la Direzione generale Giustizia, libertà e sicurezza vuole sapere qualcosa in più sulle attività che si svolgono in acque internazionali. E il ministero è costretto a rispondere. Racconta delle otto operazioni (tra il 6 maggio e il 30 agosto), durante le quali sono state rispedite in Libia 757 persone, sostiene che "l'unità navale di uno Stato può fermare nelle acque internazionali un natante privo di nazionalità e ricondurre gli stranieri nel Paese dal quale sono partiti, su richiesta del
paese cui appartiene o si presume appartenga l'unità navale". Se un barcone pieno di immigrati parte dall'Egitto, ma nessuno lo dice, lo si può rimandare comunque in Libia sulla base di una presunzione. Non solo: il ministero ribadisce che l'Italia "ha sempre operato in conformità al principio del 'non refoulement (nonrinvio, ndr), poiché non ha negato ai clandestini la possibilità di chiedere asilo". Anzi, il personale ha riferito che "durante le operazioni di soccorso gli stranieri non hanno chiesto alcuna forma di protezione internazionale, né fatto sapere di essere perseguitati nel loro Paese ". Affermazione difficile da contestare, non essendo lì. Rimane però il dubbio che nessuno abbia rivolto a quelle persone alcune domande. Inoltre il capo della Direzione, Jonathan Fall, nella sua risposta del 13 novembre, ricorda che "l'interessato deve essere adeguatamente informato del paese nel quale si intende ricondurlo", la Libia, e che l'Italia do¬
vrebbe "verificare che il  trattamento   delle persone ricondotte sia conforme ai termini dell'accordo  bilaterale" . Spesso gli immigrati, quando riescono a sbarcare sulle nostre coste, non sanno neanche dove si trovano.
Qualche malumore comincia a trapelare anche tra gli addetti ai lavori. Tanto che la Direzione centrale dell'immigrazione
del ministero inoltra a Guardia di Finanza, Stato maggiore della Difesa e Capitaneria di porto un approfondimento lega¬
le, in cui ammette che, nei casi italo-libici, non si può parlare di respingimento né di espulsione. È vero che gli stranieri
sono trasbordati su unità navali italiane (e quindi su territorio dello Stato), ma non si può procedere alla loro identifi¬
cazione, né alla loro espulsione, in quanto non si possono contestare loro dei reati e la loro condotta è "passiva   e non  attiva.
Una definizione, insolita dal punto di vista giuridico, che porterebbe - a parere del ministero - ogni essere umano, ogni donna, ogni minore presente sui barconi a non essere identificato, a no potere, pur volendo, chiedere  protezione.   
Perché di questo si tratta.



Raffiche contro motopesca Maroni giustifica Gheddafi: «Si è scusato»

l'Unità, 14-09-2010
«La Libia si è scusata per quello che è successo». Il ministro dell'Interno Roberto Maroni va addirittura in tv per smorzare le polemiche sul peschereccio di Mazara del Vallo mitragliato da una motovedetta libica con a bordo anche militari italiani. «Evidentemente – cerca di giustificarsi Maroni - c'è stato un errore di interpretazione, posso immaginare che abbiano scambiato il peschereccio, come avviene ogni tanto, per una barca che non fermandosi all'alt immaginavano potesse avere a bordo dei clandestini o cose del genere. Posso solo immaginarlo perché non abbiamo ancora tutte le informazioni: ho aperto un'inchiesta per accertare quello che è avvenuto, appena avrò le informazioni saremo in grado di valutare e ovviamente di evitare che in futuro si ripetano episodi del genere».
Ma queste parole stupiscono e fanno arrabbiare chi si è visto sparare addosso, ovvero il capitano del peschereccio "Ariete", Gaspare Marrone. Saputo cosa ha detto il ministro si sente «arrabbiato» e «molto sorpreso»: «Non so perché il ministro dica questo, ma tutto si può affermare tranne che sia stato un incidente. Né è possibile sostenere che ci abbiano scambiati per immigrati, per clandestini. Era evidente chi fossimo: pescatori italiani. Glielo avevo detto prima dell'attacco. Erano dunque informati. Eppure ci hanno sparato ad altezza d'uomo, hanno sparato per colpirci e potevano ucciderci. Lo ripeto: siamo vivi per puro miracolo. Questa storia non sta in piedi».
«La motovedetta - ricorda baldanzoso in tv a Mattino5, su Canale5, il ministro leghista - fa parte del gruppo di 6 consegnate alle autorità libiche sulla base di un accordo contro l'immigrazione clandestina stipulato dal mio predecessore, il ministro Amato, che ovviamente devono essere utilizzate per contrastare l'immigrazione clandestina: a bordo ci sono dei militari italiani che per un certo periodo di tempo limitato servono per dare assistenza tecnica e manovrare le motovedette, ma non hanno funzioni di equipaggio». Si tratta di un «dispositivo in atto da un anno e mezzo circa», un dispositivo che «funziona e bene visto che gli sbarchi a Lampedusa sono cessati» ma «ovviamente quello che è successo ieri non è un fatto che doveva accadere».
Il rapporto dei militari italiani a bordo della motovedetta? «L'abbiamo ricevuto ieri – balbetta il ministro - loro non sono stati coinvolti nelle operazioni ovviamente perché sono, come detto, tecnici che si occupano della manutenzione, sono lì per addestrare i libici e non sono parte dell'equipaggio: oggi faremo una riunione al ministero per verificare esattamente quello che è avvenuto, siamo in contatto con le autorità libiche con cui c'è un'ottima collaborazione da tutti i punti di vista». «La mia opinione - taglia corto Maroni - è che si sia trattato di un incidente, grave ma appunto un incidente, studieremo le misure perché in futuro ciò non accada più».
In realtà, dopo le raffiche di mitra di domenica sera, la procura di Agrigento ha aperto un'inchiesta e da Tripoli si è espresso solo un «rammarico», nominando anche un comitato d'inchiesta. Furioso il ministro Frattini che ha affermato senza mezzi termini che le «regole d'ingaggio» sui pattugliamenti congiunti «vanno chiarite e integrate». Le opposizioni hanno chiesto al governo di riferire in Aula.
Anche perché il capitano, oggi in mattinata, svela un altro dettaglio inquietante: «Se avessimo saputo che c'erano militari italiani ci saremmo fermati, senza tentare la fuga per evitare il sequestro e l'arresto. Invece, la voce che mi ha risposto in perfetto italiano, in quanto evidentemente apparteneva a un italiano, ha negato di esserlo, affermando di essere un libico». Al che viene da domandare: perché?



«Fuoco amico» sul marinaio che salva la vita agli immigrati

Gaspare Marrone è il capitano della motopesca "Ariete". Nel 1998 venne insignito del «Premio per il mare» per aver partecipato a tre diverse operazioni di salvataggio che trassero in salvo almeno 700 migranti in mare.
l'Unità, 14-09-2010
JOLANDA BUFALINI   
ROMA Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Le acque sono le stesse, quelle della pesca e delle rivendicazioni della Libia sul Golfo della Sirte. E quelle delle rotte dei migranti che partono dalle coste libiche in cerca di un futuro migliore, lontano dalle guerre e dalla miseria. Verso approdi che dovrebbero essere accoglienti per antica civiltà e solidarietà. È proprio perché le rotte sono le stesse che i comandanti dei pescherecci sono spesso per i migranti uomini mandati dalla provvidenza. L'apparizione di un peschereccio può voler dire, per i naufraghi, per le carrette in balia dei flutti, avere salva la vita. Gaspare Marrone, ha ricordato ieri Laura Boldrini, rappresentante dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati, «è uno di questi marinai coraggiosi». Fu premiato nel 2008 e «il premio gli fu consegnato da Andrea Camilleri».
LA LEGGE DEL MARE
Nel giugno del 2008 l'episodio più tragico, l'Ariete trasse in salvo 27 naufraghi ma cinque disperati morirono annegati. «La legge del mare ci impone di salvare chi è in difficoltà, anche a rischio della vita», disse in quella occasione Gaspare Marrone e tornò al lavoro in mare, come ha fatto anche ieri, quando è ripartito con il suo equipaggio dopo aver riferito della Santa Barbara di cui l'Ariete era stato fatto oggetto. Lo scirocco e la bella stagione aiutano gli sbarchi dei rifugiati ma anche d'estate, quando soffia il maestrale, i viaggi della speranza sono a rischio. È in queste situazioni di grande difficoltà che i pescherecci, nei cui equipaggi insieme agli italiani sono i pescatori provenienti dal Nord Africa, appaiono come la luce della salvezza. Non era la prima volta, in quella notte del 2008, che l'Ariete si era adoperato per salvare vite umane. Nel novembre del 2007 era stata la volta dell'incontro con un gommone carico di 54 persone, a trenta miglia dall'isola di Lampedusa. Il gommone dei migranti imbarcava acqua, Gaspare Marrone con i suoi marinai li portarono a riva, un membro tunisino dell'equipaggio si gettò in acqua per soccorrere i naufraghi, fra cui c'erano una bambina e nove donne. Un anno dopo l'operazione più clamorosa, tre pescherecci, fra cui l'Ariete, portarono in salvo 650 persone in balia delle acque su due barconi.
MARINAI CORAGGIOSI
«È uno dei marinai coraggiosi che ha rischiato la propria vita e quella del suo equipaggio per avere salvato altre vite umane. - ha dichiarato ieri Laura Boldrini - Nel 2008 è stato premiato con il "Premio per il mare" istituito dalle Nazioni Unite per il suo coraggio». Dal premio all'eroismo al fuoco amico: le acque sono le stesse, quelle dove si pesca e si rischia per il contenzioso con la Libia, quelle dei viaggi della speranza che si trasformano in tragedia.
La copertura politica e l'accredito internazionale che il governo italiano «offre alla Libia - denunciava ieri un comunicato della Cgil - espongono il nostro paese ad una grave responsabilità di complicità con le azioni illegali di quel paese, in particolare per quanto riguarda il rispetto dei diritti dei migranti ricacciati dall'Italia ed internati nei campi della Libia». ?



Immigrazione: progetto per insegnare l'italiano a migranti

(ANSA) - VIBO VALENTIA, 14 SET - Un circuito didattico per l'insegnamento della lingua italiana rivolto ai migranti e agli extracomunitari residenti.
E' l'iniziativa, inserita nel progetto Penny Wirton gia' attivo a Roma, che sara' promossa a Vibo Valentia dal Sistema bibliotecario vibonese e dall'associazione culturale ''Tra mondi'' con la collaborazione dello scrittore Eraldo Affinati.
A partire da ottobre, una serie di scuole, animate da volontari, apriranno le attivita' didattiche in diversi centri calabresi, tra cui Castrovillari, Trebisacce e Mormanno. (ANSA).



Le classi-ghetto una prigione per i nostri figli

il Giornale, 14-09-2010
Ida Magli
I problemi posti dagli immigrati sono, per la scuola italiana, molto più gravi di quanto non possa apparire al primo sguardo. I tentativi di prevenirli, nonostante la buona volontà del ministro e degli insegnanti, si scontrano con una realtà molto complessa che i vari sostenitori entusiasti delle cosiddette società multietniche non vedono. La parola «integrazione», di cui fanno (...) (...) sfoggio i politici, è priva di contenuto reale. Le culture non si integrano. Ad un certo punto scatterà, e non dipende dal numero, la sopraffazione dell’una sull’altra. Dipende dalla sua forza, dalla sua vitalità, dall’entusiasmo di chi ne è portatore. Quella italiana è perdente perché sono gli immigrati che si impadroniscono del nostro territorio e questo basta a farli sentire conquistatori.
Il motivo per cui la «scuola», l’istituzione che dovrebbe aiutare tutti, italiani e stranieri, ad apprendere il «vivere italiano», non può riuscire in questo compito, consiste prima di tutto nella molteplicità dei bisogni di ogni allievo. Per un bambino straniero prima di tutto la lingua. Quella di cui ha percepito i suoni fin da prima di nascere (sente la voce della mamma nell’utero) non è la stessa che sente quando entra nella classe. Il disorientamento di chi non capisce quello che sente dire, non è soltanto cognitivo e strumentale, ma psicologico. La lingua è la caratteristica di specie che la natura ha affidato totalmente all’innesco sociale e culturale, alla presenza di altri esseri umani che parlano: l’individuo sordo alla nascita non parla perché non sente parlare. Oggi poi sappiamo con precisione che anche con l’intervento cocleare, se eseguito dopo i tre anni d’età, chi è nato sordo sente i suoni ma non apprende a parlare. Dunque il deficit causato da una lingua diversa è molto complesso e incide sulla capacità dell’elaborazione del pensiero, sulla sicurezza della personalità stessa.
Per quanto riguarda i ragazzi italiani, la presenza in una classe anche di pochi stranieri, e il 30% è moltissimo, rende più lento e faticoso l’insegnamento, ma soprattutto crea un ambiente in cui le differenze di sensibilità per il cibo, per le credenze religiose, per il comportamento sessuale, perfino per la gestualità, per la mimica, diventano «segnali» difficili da interpretare e ai quali non si sa come reagire. Non esistono soluzioni «buone». In Spagna la scuola pubblica è ormai frequentata soltanto dagli immigrati, mentre gli spagnoli frequentano le scuole private (a pagamento). Non si tratta di non voler stare insieme agli immigrati, ma del fatto che il livello dell’insegnamento si è adeguato necessariamente al minimo. L’Italia sta seguendo la stessa strada.
Insomma, l’immigrazione è oggi il più grave problema, sia nella scuola sia fuori, e non sono né le percentuali, né gli incitamenti e le belle parole dei politici o degli ecclesiastici a poter cambiare la situazione. Non è colpa degli immigrati; ma non è neanche colpa degli italiani, i quali ormai si stanno in qualche modo avviando - ne è testimonianza il fatto che fanno pochi figli - verso la fine di qualsiasi speranza per il futuro della propria nazione. Se ne può trovare la prova nell’incredibile sfoggio di nomi che si richiamano all’Italia, al Futuro, alla Nazione, che improvvisamente hanno cominciato a fare i politici. Loro sanno bene che sono le uniche cose nelle quali gli italiani vorrebbero ancora credere e per le quali li voterebbero con entusiasmo. Si tratta, però, di una cinica frode. Sono stati i politici a condannare a morte gli italiani: l’immigrazione ne è soltanto il principale strumento.



Tra i banchi Tutti in classe i piccoli del Casilino 900
Caso Pisacane, I genitori «Meglio con bimbi Italiani»
DNews, 14-09-2010
» Tutti d'accordo. No alle classi di soli immigrati, ma al suono della prima campanella nella prima b del Laparelli di italiani non ce ne sono. Il caso dell'istituto ex Pisacane continua a far discutere. Prima di tutto il sindaco che ieri all'istituto Piva per l'inaugurazione dell'anno scolastico ha affrontato il tema. «Le classi ghetto non aiutano l'immigrazione
ma alcuni dirigenti scolastici hanno fatto resistenza contro la proposta del tetto».
Sul tema è intervenuta anche l'assessore Laura Marsilio che annuncia a breve una visita all'istituto per parlare con la dirigente scolastica. Ma i primi ad essere scontenti sono i genitori dei piccoli della prima b. Sono cinesi e bangladesi per lo più. «Se ci fossero bimbi italiani sarebbe meglio. I nostri figli imparerebbero meglio l'italiano. Dopotutto siamo in Italia», dicono riuniti proprio davanti al Laparelli. Niente classighetto invece per i bambini del Casilino 900 che quest'anno, dopo lo sgombero del campo rom sono stati iscritti regolarmente a scuola. «



Rom, bufera su Parigi
Circolare del ministero: «Sgomberateli»

La Stampa, 14-09-2010
La pubblicazione sui giornali di una circolare del ministero degli Interni francese in cui si parìa espressamente di sgombero di campi rom ha provocato nuove critiche contro il governo del presidente Nicolas Sarkozy. Il ministro dell'Immigrazione Eric Besson si è affrettato ad affermare di non essere a conoscenza del documento. La circolare del 5 agosto firmata da Michel Bart, direttore di gabinetto del ministro degli Interni, Brice Horte-feux, dimostra come l'etnia Rom sia stata presa di mira con lo smantellamento dei campi, contrariamente a quanto affermato dal governo. «Trecento campi illegali dovranno essere sgomberati entro tre mesi, in particolare quelli abitati da Rom», si legge sul testo pubblicato da alcuni media transalpini.



DOPO LE ESPULSIONI
Una circolare contro i rom inguaia Parigi

il Sole, 14-09-2010
«Trecento accampamenti illegali dovranno essere evacuati entro tre mesi, con priorità per i rom». Questo uno dei passaggi della circolare del ministro francese dell'Interno, Brice Hortefeux. Un testo - finito in mano ai media -che proverebbe un'azione su base etnica, con il governo in campo contro i rom nel loro insieme. E non contro singoli individui, come sostenuto da Parigi per motivare le espulsioni. Il ministro dell'Immigrazione, Eric Besson, ha detto di non conoscere la circolare. Hortefeux ha cercato di correggersi con una seconda circolare più morbida. Critiche sono arrivate da Unione europea e Onu.













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