Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

15 settembre 2011

 

La fantasia è la voce dei migranti Versi, racconti e musica dei lavoratori stranieri, in media più istruiti degli italiani
GIAN ANTONIO STELLA
Corriere della Sera 15 settembre 2011
 «I n un solo isolato di caseggiati che totalizzava 132 stanze, vivevano 1.324 italiani emigrati, per lo più uomini, operai siciliani che dormivano in letti accastellati a più di dieci persone per camera, per un intero isolato... ». Così scriveva, alla fine dell'Ottocento, nel libro How the Other Half Lives («Così vive l'altra metà») il grande reporter della «New York Tribune» Jacob Riis. (...) «Altri tempi!», dicono i razzisti che rifiutano ogni parallelo con l'immigrazione di oggi in Italia. Certo. L'idea che si trattasse di un lontano Medioevo imparagonabile con il mondo di oggi, però, è una sciocchezza dovuta solo all'ignoranza. Quando Riis scrive i suoi reportage, esistono a settant'anni il treno e il telegrafo, da una quarantina il motore a scoppio e il fax, da una trentina il sommergibile e la metropolitana di Londra, da una ventina la luce elettrica.
Per capire la distanza abissale tra «quella Italia» e «quell'America» occorre mettere a confronto due documenti del 1882: la relazione della commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Stefano Jacini sulla povertà del mondo contadino e un reportage su New York di Dario Papa pubblicato dal «Corriere della Sera». La prima denuncia la disperazione di un mondo con centinaia di migliaia di tuguri «ove in un'unica camera affumicata e priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame» e si descrive il degrado igienico di province come quella di Treviso, oggi marcata da una forte presenza di razzisti: «Ogni sorta d'immondizie dal pattume delle case agli avanzi dei cibi, dallo sterco degli animali a quello dell'uomo, è raccolta nelle vie e intorno alle case, e vi è quasi rispettosamente conservata; in qualche sito si giunge fino a spargere ad arte del fogliame oppure dei ricci di castagne perché, parte coll'aiuto dell'acqua piovana e parte con quello dei passanti, il materiale si maceri, fermenti, e si converta poi in letame. Presso la generalità dei contadini i concimi vengono dalle stalle non trasportati nei campi o in un ben acconcio letamaio distante dall'abitato, ma si raccolgono o nei cortili o nelle adiacenze delle case, ed ivi si lasciano a fermentare finché si presenti la occasione di portarli all'aperto per gli usi agricoli». (...) Il 26 gennaio dello stesso 1882, mentre tanta parte del nostro Paese è ancora affondata nel Medioevo, Dario Papa così descrive il Ponte di Brooklyn: «Il più meraviglioso ponte del mondo (...) unisce Brooklyn con Nuova York a un dipresso come quello di ferro che unisce Buda con Pest: ma io credo sia lungo più del doppio e mi pare basterebbe per traversare due volte il Po nei punti della sua maggiore larghezza: e non ha ombra di pila o puntello di sorta: è tutto fatto da due immense catene, che ti pajono — là in alto — leggiere come una piuma. Il forte dei sostegni, d'una grandiosità solamente paragonabile alle più colossali fra le opere umane, è sulle rive, d'onde — dentro Nuova York — il ponte si prolunga per un pajo di chilometri passando sopra i tetti delle case. Le quali così hanno: sovra la testa la ferrovia che viene da Brooklyn; ai lati e a livello del primo piano la ferrovia “elevata”, cioè tutta fabbricata in aria, che circola dentro tutta quanta la città; ai piedi i trams, gli omnibus e tutto il resto del movimento cittadino; e sotto i piedi... avranno tra poco un'altra ferrovia che circolerà sotto terra. Se questo non è dormire fra due guanciali, è per lo meno dormire fra quattro ferrovie».
Da noi i contadini tenevano il letame in casa perché scaldava e aiutava a passare l'inverno, dall'altra parte dell'oceano il ponte di Brooklyn aveva quattro piani di ferrovie. Qual è la differenza tra l'abisso che separa oggi il Burkina Faso dalla Lombardia e quello che separava il Veneto (per non dire del Meridione) dal New Jersey? Dov'è questa «immensa» differenza tra i nostri nonni e «loro»?
Immaginiamo la risposta: «I nostri nonni non erano delinquenti!». Andiamo allora a rileggere Un italiano in America, scritto nel 1894 dal grande Adolfo Rossi, originario di Lendinara, in provincia di Rovigo: «Sotto i cortili interni dei tenement-houses (casermoni) più ributtanti vi sono certe cantine (basements) scure e mefitiche, illuminate da una lampada a petrolio dove si balla e si beve la birra a buon mercato. Se non si è del quartiere è pericoloso avventurarsi senza essere accompagnati da un police-man in quelle catacombe del vizio e della abbiezione».
Immaginiamo la nuova obiezione: «Quelli erano terroni, che arrivavano da terre piene di delinquenti!». Allora andiamo a prendere il libro O soldi o vita di Luigi Piva. Dove si spiega che le due sezioni veneta e lombarda del Tribunale statario asburgico «avevano istruito 3.400 processi e dal giugno 1850 al giugno 1853 le province di Padova, Venezia, Rovigo e Mantova erano state colpite da 1.144 sentenze di morte di cui 409 eseguite e 735 commutate in detenzione per un periodo medio di 15-20 anni di carcere duro». Per cosa? Rapine in casa. Soprattutto nella Bassa padovana, nel rodigino, nel mantovano: 1.144 condanne a morte! Tra polentoni! (...) Ma torniamo ai nostri emigranti in America o in Europa: «È diffusissima in Germania l'opinione che la criminalità degli immigrati italiani sia di gran lunga superiore a quella dei nazionali e degli immigrati di altre nazionalità», scrive alla vigilia della Prima guerra mondiale l'ispettore regio per l'emigrazione Giacomo Pertile. (...) Giuseppe De Michelis, sul «Bollettino dell'emigrazione» edito dal ministero degli Esteri, confermava: «Tutti parlano della grande criminalità fra i nostri emigranti come di un fatto acquisito. I giornali, appena viene commesso un delitto, un furto, un'azione riprovevole, cercano l'italiano». Solo il frutto di una campagna calunniosa? «Purtroppo, sovente, è la verità», sospirava l'autore dell'inchiesta.
 
 
 
FINITE CON UN AGENTE FERITE LE PROTESTE AL CENTRO DI ACCOGLIENZA
Lampedusa: nuovi sbarchi 95 tunisini, tra cui due bambine
Avvistati mercoledì su un barcone che imbarcava acqua. Arrivano trasportati su una nave delle Fiamme Gialle
Corriere dela Sera, 15-09-2011
 MILANO - Momenti di tensione si sono registrati mercoledì pomeriggio nel centro d'accoglienza di Lampedusa, dove alcuni immigrati hanno protestato contro il rimpatrio. Già 49 persone, di origine tunisina, erano state fatte partire nella mattinata. Nel corso degli scontri un poliziotto ha riportato una leggera ferita provocata dal lancio di una pietra. La situazione nel centro d'accoglienza è rientrata in serata, con l'ausilio di cento agenti che hanno rafforzato il cordone di sicurezza intorno all'edificio. Gli scontri erano scoppiati a causa dei problemi burocratici con le autorità nordafricane, che hanno accettato solo 30 connazionali lasciando gli altri a bordo dei due aerei fermi negli scali di Tunisi e Palermo.
ONDATA TUNISINA - La nuova ondata di sbarchi, dopo lo stop dei profughi provenienti dalla Libia, è prevalentemente formata di immigrati provenienti dalla Tunisia. Nel pomeriggio di mercoledì oltre 100 sono stati trasferiti a Palermo per essere rimpatriati. Nel centro di accoglienza di Lampedusa rimangono così circa 800 immigrati a cui si debbono aggiungere i 95 arrivati poco prima delle tre di notte di giovedì tra cui due bambine, soccorsi da un Guardacoste della Guardia di Finanza a 30 miglia dall'isola. Tutti gli immigrati sono stati trasbordati sull'unità navale delle Fiamme Gialle perché il barcone sul quale erano a bordo imbarcava acqua e non era in grado di proseguire la navigazione. L'imbarcazione era stata avvistata nella mattinata di mercoledì da un aereo della Guardia di Finanza.
 
 
 
LA VICENDA DELLA «CLASSE-GHETTO» DI SOLI STRANIERI BOCCIATA DAL MINISTERO DELL'ISTRUZIONE
Via Paravia, una mamma: «Ho dovuto lasciare il mio bambino in Marocco»
La giovane vedova con cinque figli: «Non posso accompagnarlo in un'altra scuola, lì va la sorella»
Corriere della Sera, 14-09-2011
Mamme col velo islamico in via Paravia (Newpress) MILANO - «Sono stata costretta a lasciare mio figlio di 6 anni in Marocco da mia madre, perché ho già altri quattro figli sparsi per diverse scuole della città e speravo di poter tenere almeno l'ultimo vicino a casa, nella scuola di via Paravia». Lo ha raccontato oggi, davanti al giudice Serena Baccolini della prima sezione civile di Milano, Hanan Saghro, una giovane vedova marocchina che, assieme ad un'altra madre, ha presentato un ricorso contro il Ministero dell'Istruzione che ha stabilito che nella scuola milanese di via Paravia non si può formare una «classe-ghetto» di prima elementare di soli alunni stranieri. Nella prossima udienza, non ancora fissata, il giudice ascolterà la testimonianza di due famiglie che non hanno firmato il ricorso e il direttore della scuola, Lombardo Radice.
«APPENA POSSO LO RIPORTO QUI» - Il giudice ha sentito anche Giuseppe Petralia, direttore dell'Ufficio scolastico provinciale del Provveditorato agli Studi, che ha confermato che la decisione di chiudere la classe era già stata presa l'anno scorso e che poi, di fronte all'iscrizione di bambini tutti figli di genitori stranieri, si è deciso di intervenire. Poco prima è stata ascoltata la mamma marocchina, 36 anni, rimasta vedova dopo la morte del marito italiano, che ha spiegato che è stata «costretta» a lasciare il suo ultimo figlio in Marocco con la nonna, perché avrebbe voluto che frequentasse la scuola di via Paravia dove è già iscritta, in quarta, una delle sorelle. Hanan ha affidato il figlio alla madre in Marocco e lo ha iscritto in una scuola privata italiana: «Non c'era più tempo per quella pubblica visto che là le lezioni iniziano il primo settembre». E poi aggiunge: «Ho scelto la formazione italiana così appena posso me lo riporto qui». Alla prima elementare si erano iscritti 15 bambini di famiglie straniere, di cui 13 nati in Italia, ma il Ministero si è opposto alla formazione della classe e due famiglie, assistite dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri, hanno denunciato il ministro dell'Istruzione Maria Stella Gelmini e l'Ufficio scolastico provinciale per discriminazione: «Se la classe fosse stata composta da italiani non sarebbe stata soppressa». Nel frattempo, i bambini hanno iniziato a frequentare altre scuole.
NESSUN ASSESSORE - In aula c'è stato un vivace scambio di battute tra Giuseppe Petralia e Diana De Marchi, consigliera Pd della Provincia di Milano. «Bisogna investire sulla scuola di via Paravia, non chiuderla», ha detto la De Marchi. «L'istituto è l'unico centro di aggregazione del quartiere dove l'integrazione funziona davvero. Per questo, il timore della ghettizzazione della zona non può ricadere sugli studenti e sul loro diritto a essere istruiti». Immediata la replica di Petralia: «Se si continua di questo passo si ritorna alle banlieue parigine. E, comunque, il futuro del quartiere spetta al Comune, non a me». Nelle prossime udienze verrà sentita in particolare Agnese Banfi, direttrice della scuola di via Paravia. Nessuna traccia degli assessori del Comune di Milano, invitati nei giorni scorsi a prendere posizione sulla questione di via Paravia. Era presente soltanto la consigliera comunale Paola Bocci (Pd), che ha partecipato al presidio organizzato fuori dal tribunale, in corso di Porta Vittoria. Con lei anche Diana De Marchi, Laura Fabbri e Giuseppe Perucielli, consiglieri della zona 7, e Giorgio Cazzola, consigliere Pd della Provincia.
 
 
 
L'imam di Segrate: a Crescenzago una grande moschea col minareto
La richiesta a Palazzo Marino durante il vertice convocato dalla giunta Pisapia
"Nel '90 avevamo già raggiunto un accordo, ma il sindaco leghista bloccò tutto"
la Repubblica, 15-09-2011
LAURA FUGNOLI
Un progetto praticamente pronto, con tanto di mappe e tavole: Alì Abu Shwaima è medico e presidente del centro islamico di Segrate, dove è già attiva una piccola moschea. Ma quello che ha presentato al vicesindaco Maria Grazia Guida è il progetto di una grande moschea, con tanto di cupola, minareto, biblioteca, parcheggi, palestra e centri multifunzionali su due piani. Una quindicina le associazioni islamiche che, carte e documenti alla mano, si sono confrontate ieri con Guida a Palazzo Marino per quella che lei stessa ha definito «una paziente tessitura di dialogo con realtà che fino a oggi non sono riuscite a esprimersi». C’è chi si occupa di pregare, chi assiste famiglie disagiate o bambini “difficili”.
«Analizzeremo statuti ed esigenze di ognuno e tra un mese ci rivedremo con i primi risultati». Verrà fatta una mappa delle attività delle associazioni islamiche che chiedono un riconoscimento ufficiale. Di moschee, dice Guida, non si è parlato. Eppure è soprattutto sui luoghi di culto islamico in cerca di un appoggio istituzionale che la paziente tessitura andrà fatta, perché progetti e richieste bene o male ce ne sono parecchie. Così Shwaima ha rispolverato gli incartamenti di oltre vent’anni fa, quando la giunta Pillitteri gli aveva concesso 6mila metri quadrati demaniali a canone d’affitto simbolico in via del Ricordo, a Crescenzago, un desolato spiazzo cimiteriale sconsacrato tra via Padova e viale Monza; a firmare la convenzione, nel ‘90, fu l’allora assessore Walter Armanini.
«Era un’area morta che avremmo rivitalizzato e, se tutto fosse andato in porto, in via Padova non ci sarebbero stati tutti i problemi che si sono verificati negli ultimi anni», spiega Shwaima. Ma la giunta Formentini successivamente contestò la convenzione bloccandone l’iter. «Ai tempi avevamo già trovato un finanziamento di 2 miliardi di lire per la realizzazione — precisa Shwaima — mancava solo la firma del progetto urbanistico. Ora sappiamo che banchieri dell’area del Golfo, ma anche malesi e del sud est asiatico, sono pronti a darci una mano, ben felici di avere una bella moschea per l’Expo 2015 quando verranno per affari o per turismo». 
Yahya Pallavicini, responsabile del centro islamico di via Meda, nel presentare domanda ufficiale per la regolarizzazione della propria struttura, ha invece esposto la necessità di fare corsi di formazione per gli imam, che sempre più dovranno avere una preparazione religiosa, ovvio, ma anche civica, come fossero dei manager: «Un imam deve essere in grado di gestire con trasparenza i fondi che la comunità gli affida, deve gestire personale». Abdel Hamid Shaari, guida dell’istituto di cultura islamica di viale Jenner, chiede un luogo di culto ampio, sufficiente a contenere un migliaio di persone durante i riti del venerdì, «perché pregare sul marciapiede fa schifo. I fondi li stiamo raccogliendo tra i fedeli. Ci vorranno 34 milioni di euro e poi dipende dal terreno che troviamo» spiega Shaari. Poi per tutti foto di gruppo davanti a Palazzo Marino: «Un evento così lo aspettavamo da decenni. Essere stati ricevuti ha già dell’incredibile».
 
 
 
Moschee per tutti: ora anche l’imam ha paura
il Giornale, 15-09-2011
Alberto Giannoni
Il capo del Centro di via Padova: "Spuntano sigle come funghi. C’è pericolo d’integralismo e interferenze". La replica: "La nostra affidabilità è garantita. E il lavoro col Comune serve a questo"
Palazzo Marino ha aperto le porte alle associazioni islamiche per parlare dei nuovi luoghi di culto da realizzare o regolarizzare. Ma il più importante fra i leader musulmani della città, Mohamed Asfa, lancia un allarme inquietante: «Spuntano associazioni come funghi, senza alcun radicamento reale. C’è il pericolo degli integralisti e delle interferenze esterne». Asfa è il direttore della Casa della cultura islamica di via Padova. È lui che nell’ultimo giorno di Ramadan ha accolto sul campetto sportivo di via Cambini la visita del vicesindaco Maria Grazia Guida, velata. Giordano, di professione architetto, nel 2009 Asfa ha ricevuto dal Comune l’Ambrogino d’oro per il suo impegno nel terreno del dialogo interreligioso e del dialogo con le istituzioni. Ma la Casa della cultura islamica non ha aderito al Caim, il coordinamento delle associazioni islamiche milanesi, guidato da Davide Piccardo, figlio di Hamza, dirigente storico dell’Unione delle Comunità islamiche in Italia (l’Ucoii). 
Il Caim è formato da 12 centri islamici. Oltre agli istituti di viale Jenner e via Quaranta ci sono i centri di via Stadera, via Ferrante Aporti, Cascina Gobba, e una serie di altre organizzazioni, fra cui le comunità turche, bengalesi, le associazioni di donne e giovani musulmani. Si è creato una sorta di giallo, a tal proposito, intorno al numero dei centri islamici su cui l’Amministrazione comunale starebbe lavorando. A Padova il sindaco avrebbe parlato di dodici (lo ha riportato un giornale locale), poi Palazzo Marino ha smentito. In ogni caso lo schema è chiaro: saranno regolarizzate, sistemate o realizzate (non a spese del Comune) un gran numero di sedi, destinate ad attività sociali e culturali, ma anche di culto. Uno schema che Asfa non condivide affatto, e di cui evidenza rischi e pericoli: «Il Comune non può mettere tutti sullo stesso piano - dice - vedo che sono nate associazioni come funghi. E noi siamo preoccupati seriamente». Due le preoccupazioni del direttore: «L’ideologia integralista e i legami con l’esterno». «Ci sono interessi forti, esterni - spiega - e invece noi non dobbiamo essere condizionati da alcun Paese che non sia l’Italia». Il messaggio è molto chiaro: «Il Comune deve sapere chi lavora seriamente e chi no. Deve sapere chi lavora seriamente da anni, o da decenni. Chi ha 5mila persone a pregare, chi svolge attività come noi, e chi non lo fa». «Non possiamo negare - ammette Asfa - che nella nostra comunità ci sono delle teste calde. Noi abbiamo lavorato molto per equilibrare tutto. Anche viale Jenner, con tutte le sue contraddizioni, ha lavorato su questo, Shaari è stato abile a mantenere un equilibrio, e comunque ha avuto coraggio nel prendersi tutte le responsabilità». La proposta di Asfa è molto semplice: ripartire da una Consulta con i centri più importanti, più radicati, quelli che garantiscono di più, che hanno un legame vero con i fedeli: via Padova, Segrate, viale Jenner, via Quaranta. E altri: «Non si può escludere - per esempio - la moschea di via Meda, anche se sono italiani e non immigrati». «Ma non si può dire - conclude - tutti avranno la loro moschea». Piccardo risponde, senza polemiche ma senza timori: «Garantisco che la associazioni che fanno parte del coordinamento hanno una loro attività seria, provata e documentata, a Milano e in Italia. I Giovani musulmani sono forse l’organizzazione più importante oggi, in Italia, e hanno 20 sedi. In ogni caso il lavoro con il Comune serve anche, o proprio, a verificare tutto questo».
 
      
 
Tutti i colori della vendemmia
Stranieri i due terzi dei lavoratori nelle vigne. "Gli italiani vogliono continuità nel lavoro mentre i migranti sanno accontentarsi". "Impossibile senza di loro la raccolta a mano che fa dei nostri grandi vini quello che sono"
la Repubblica, 14-09-2011
TOMASO CLAVARINO
Una vendemmia multietnica, non sembra esserci termine migliore per descrivere il fenomeno in atto, oramai da qualche anno, nelle nostre campagne. Trovare un lavoratore italiano tra le migliaia di stagionali che sono arrivati nelle scorse settimane per la vendemmia pare sempre più un'impresa. Una ricerca della Coldiretti ha infatti stimato in quasi 30 mila i migranti giunti in Italia come lavoratori stagionali nei vigneti, dalla Lombardia alla Sicilia, dal Lazio al Veneto. Non è da meno il Piemonte: "Secondo i primi dati a nostra disposizione - spiega Roberto Giobergia del servizio paghe di Coldiretti Piemonte - nelle zone con più forte tradizione vitivinicola, l'albese e l'astigiano, gli stranieri sono oltre i due terzi dei lavoratori stagionali". Oltre un migliaio sia nella zona di Asti che in quella di Alba, principalmente assunti per chiamata diretta tramite i centri per l'impiego.
Decisamente minore il numero di quelli assunti con il sistema dei buoni lavoro, circa cinquecento equamente suddivisi fra i due territori, senza contare le sacche di lavoro nero ancora presenti "ma in netta diminuzione, se non del tutto scomparse, grazie all'introduzione dei voucher e ai più severi controlli" afferma Bruno Rivarossa, direttore di Coldiretti Piemonte. In prevalenza bulgari e romeni, circa il 50% del totale, seguiti da polacchi, il 15%, e macedoni, i lavoratori stagionali stranieri sono per lo più comunitari, "in quanto hanno meno problemi per l'ingresso nel nostro paese" continua Giobergia. Basta prendere una qualsiasi azienda del territorio per capire meglio la portata del fenomeno e l'importanza che i migranti rivestono per questo settore. La Ceretto di Alba ad esempio. "Su sessanta stagionali assunti quest'anno solo quindici sono italiani - conferma Cristina Marasso della Ceretto - Quasi tutti arrivano dalla Romania, perché abbiamo oramai un rapporto consolidato con questo paese e tendiamo a richiamare di anno in anno le stesse persone, con l'eccezione di qualcuno proveniente dal Bangladesh". 
Tutti assunti direttamente, senza l'uso dei voucher, con uno stipendio di 9,80 euro lordi all'ora. Ma cos'è che allontana gli italiani dai lavori stagionali in agricoltura, e in particolar modo durante la vendemmia? Cristina Marasso non ha dubbi: "Gli italiani in linea di massima sono meno disposti a stare a casa per esempio quando piove, o a lavorare solo cinque sei mesi di fila. Vogliono una certa continuità mentre gli stranieri si accontentano decisamente di più e per noi questo è importante". Visti i numeri si può ben dire che la presenza dei migranti per il settore vitivinicolo non è solo importante, ma bensì fondamentale. Ne è certo Bruno Rivarossa: "Sono una risorsa insostituibile per le nostre campagne, un fenomeno oramai consolidato negli anni. I nostri vini sono quello che sono perché buona parte del lavoro di raccolta viene fatto a mano, e i migranti hanno un ruolo fondamentale in queste operazioni".
 
 
 
IMMIGRAZIONE: UMBRIA PROGETTO PER FAVORIRE DIALOGO INTERRELIGIOSO
(AGI) - Perugia, 14 set. - Costruire un piu' stretto legame, sociale e culturale, tra i fedeli italiani ed immigrati delle comunita' religiose presenti in Umbria. E' questo l'obiettivo del progetto 'Identita' e pluralita' nel dialogo religioso', finanziato dal Ministero dell'interno e sostenuto dalla Regione Umbria, che verra' realizzato dalla cooperativa sociale 'Aliseicoop' e dalla Sezione antropologica del dipartimento uomo e territorio dell'Universita' di Perugia, in collaborazione con esponenti delle comunita' religiose, Comuni e associazioni del Terzo Settore. Il progetto verra' presentato domani, a Perugia, nel corso di una conferenza-stampa alla Sala Fiume di Palazzo Donini, alle ore 11. All'incontro con i giornalisti prenderanno parte la vicepresidente della Giunta regionale Carla Casciari, Carla Barbarella per Aliseicoop, Cristina Papa per l'Universita' di Perugia. E' prevista la presenza dei rappresentanti o responsabili di importanti comunita' religiose.(AGI) 
 
 
 
Castelvolturno. Ovvero: Là bas
Caffè News, 15-09-2011
Mario Luise
E’ in programmazione nei cinema di tutta Italia, il film Là bas, di Guido Lombardi. Il film, premiato a Venezia ( “pure a Venezia ci siamo fatti conoscere!” ), non l’ho visto ancora ma, per ora, mi interessa solo il titolo per poter parlare ancora una volta del problema dei nostri immigrati diseredati e di Castelvolturno denegato. Sono sicuro che Lombardi ha raccontato cose vere, anche se risulteranno, come sempre, sgradite per tanti castellani. Sgradite – questo si può dire – perché ritengo umano, legittimo, provare un senso di sofferenza ogni volta che si guardano le ferite del proprio paese, in cui sono impresse anche le ferite e i lutti di tanti africani. E’ utile parlarne sempre. E’ ignobile solo non porvi riparo.
Là bas! Dove?
Là bas, sta per Castelvolturno. Si esprimono così alcuni africani presenti a Castelvolturno, e certamente i protagonisti del film. Il termine è usato anche da alcuni napoletani della periferia che, come gli africani, hanno derivato l’espressione dalla dominazione francese. Ma strascicano la esse, riadattano il vocabolo al napoletano, e dicono l’abbasc’.
Una volta, per indicare il paese, si diceva Castelvolturno, e basta. Ed il riferimento era solo al vecchio Centro Storico. Ora, l’intero litorale per molti è diventato un non luogo, un altrove, un grande agglomerato che ha perso la propria identità, compreso il Centro Storico. C’è stato un declassamento. E’ diventato Là bas, e per chi lo dice, va bene così, è sufficiente. Tanto qui o in un altro posto fa lo stesso, specialmente quando non c’è niente che unisca l’uno all’altro.
Spesso viene osservato che gli immigrati, come pure molti di coloro che si sono trasferiti dall’hinterland aversano e napoletano, il paese non lo “amano” (termine desueto ed esagerato!). E perché mai dovrebbero amarlo? Lo amano, naturalmente, quelli che come me ci sono nati anni fa – e che non sono più tanti – e che non si rassegnano alla sua deriva. Per le nuove generazioni, invece, nate in un diverso contesto, e spinte a partire in cerca di alternative, è difficile che si sviluppi un legame duraturo; figuriamoci quando si viene da paesi lontani, quasi sempre sospinti da mille necessità vitali, non soddisfatte in un altro altrove. E già con la voglia di andare via al più presto.
Qui da anni i clandestini, soprattutto, si possono meglio eclissare nell’incontrollato groviglio delle case, diventare invisibili, e possono anche trovare soluzioni abitative che altrove non troverebbero. Ma, ovviamente, solo nelle zone più degradate. Si tratta di soluzioni precarie, spesso di sfruttamento. Ma loro non possono permettersi altro. E Castelvolturno corrisponde alla domanda.
In Italia non c’è una efficace legge che tuteli gli immigrati per l’ingresso, né una valida politica di accoglienza di medio e lungo termine. Gli immigrati vivono allo sbando. Castelvolturno, per paradosso, è uno dei pochi paesi ad avere un valido Centro per adulti e anche un Centro per minori. E diciamo pure, buoni servizi sociali. Ma non bastano rispetto al numero e alle necessità.
Al disagio del luogo d’origine – da cui si è fuggiti – si somma, quindi, il disagio del vivere quotidiano in vecchie lottizzazioni abbandonate e senza servizi. Ma qui, proprio per questa ragione, si comprano ville dismesse a prezzi stracciati: in un territorio con servizi primari e secondari, edificato nel rispetto delle regole, tutto avrebbe un costo più alto. E sarebbe un problema per gli immigrati – e non solo per loro! – trovare un appartamento, magari ammassandovisi dentro.
All’arrivo, qualsiasi soluzione, va sempre bene. Ma poi, naturalmente, le condizioni di vita diventano insopportabili, spesso la malavita li opprime, e allora nasce la protesta, comprensibile e umana. Ma ci si dimentica della iniziale scelta, consapevole, e ci si lamenta come chi ha pagato per un servizio non reso. Anche questo vale per tutti.
Per molti, quindi, il litorale è solo un altrove, un non luogo provvisorio – come con termini abusati si dice – che serve da base/dormitorio per cercare lavoro in altri paesi del circondario, e poi ritornare la sera. E’ così da anni, specialmente per gli africani che non si sono inseriti, e che nelle nostre terre hanno trovato spesso solo sofferenza, sfruttamento e morte per mano della camorra. Sicché il Paese – che pure ha una sua storia e una dignità – può anche non avere un nome.
Sono immense le responsabilità politiche che dalla Sicilia alla Calabria, dalla Puglia alla Campania, da anni proiettano sulla gente – siano essi immigrati, oppure italiani provenienti dalle nostre periferie, oppure locali – gli effetti deleteri di un malgoverno del territorio. E’ una storia complessa e ostica, con la quale bisogna sempre fare i conti, perché non è risolta, né facilmente archiviabile. Forse per questo, non solo Castelvolturno, ma l’intero Sud toccato dagli immigrati, è un indifferenziato Là bas.
In tutto ciò, l’unico vero innocente, è il territorio, costretto al sovraffollamento, al degrado, e ad un difficile risanamento. E’ come una zattera sulla quale facilmente si approda da lontani mari perigliosi, oppure da vicine terre anch’esse agitate.
Castelvolturno, pur tra mille difficoltà, ci prova a venirne fuori. Lo ha fatto nel passato e lo farà ancora. Dovrà riconquistare un’anima e meritarsi un volto moderno. Possibilmente anche un comune sentire da parte di tanta gente che vive sul territorio, ma da spaesata. Perché non si può vivere sempre senza legami, in un non luogo, né essere a lungo una non popolazione.
Sono convinto che per chi vi si è stabilito, non potendo parlare di “amore” – per un territorio che lo meriterebbe! – si debba necessariamente parlare di civiltà, in modo ampio. Senza civiltà, non sarà mai possibile trovare un modus vivendi; senza il rispetto della legge, non sarà mai possibile un ordinato sviluppo; senza legalità non si potrà mai fronteggiare la camorra, lo spaccio della droga, la prostituzione… Senza civiltà non si avrà mai una vera solidarietà, né sarà mai possibile una adeguata accoglienza. Si resterà sempre naufraghi su una zattera alla deriva, e senza nome. Là bas!
 
 
 
Mazara del Vallo, incontri, musica e spettacoli: kermesse sul fenomeno dell'immigrazione
SiciliaInformazione.it, 14-09-2011 
«Migrazioni nel Mediterraneo: minaccia o opportunità?» è il tema sul quale si svolge la terza edizione di «Sponde», l’iniziativa del Centro mediterraneo di studi interculturali e dall’Osservatorio del Mediterraneo di Roma, in programma da venerdì mattina a domenica a Mazara del Vallo e che si concluderà con la messa dell’accoglienza con nove prelati provenienti da tutta l’area del Mediterraneo. L’iniziativa è
stata presentata stamattina presso la sala delle carrozze del palazzo vescovile a Mazara.
La città della convivenza (a Mazara vive la comunità magrebina più numerosa di Sicilia) ospiterà per tre giorni studiosi, rappresentanti istituzionali ma anche artisti della sponda africana in una kermesse che punterà l’attenzione sul fenomeno dell’immigrazione osservandolo da tutti i punti di vista (compreso quello dei flussi migratori irregolari e sfruttamento della criminalità organizzata, tema affrontato, tra gli altri, anche da Giusto Sciacchitano della Direzione Nazionale Antimafia).
Tra gli ospiti anche il sottosegretario all’Interno Sonia Viale che interverrà sabato mattina nel dibattito sul tema «Gli attori istituzionali delle politiche dell’immigrazione». «La nostra prospettiva sarà quella di tipo ecclesiale - ha detto il vescovo di Mazara, monsignor Domenico Mogavero, presidente del CeMSI - ma anche culturale nell’ottica di essere una Chiesa del Mediterraneo che guardi al dialogo. Sono, invece, molto preoccupato dell’atteggiamento dell’Europa che non sta seguendo con attenzione i problemi dell’area mediterranea».
La tre giorni servirà per approfondire il tema dell’immigrazione, con le implicazioni anche sociali e culturali. «Non bisogna mai dimenticare che il “fenomeno” immigrazione è fatto dagli immigrati - ha detto ancora il vescovo - uomini in carne ed ossa, con le loro storie, le loro speranze, le loro paure e debolezze, i loro diritti (e i loro doveri), la loro creatività, la voglia di rendersi utili, i loro vincoli familiari. La dimensione dell’immigrato-uomo spesso è trascurata, a volte anche calpestata e offesa, se l’immigrazione è incoraggiata senza nessuna gestione o controllo». «Sponde» vuole ripartire da qui. «Sarà l’occasione per analizzare le politiche dell’immigrazione - ha detto Liborio Furco a capo del comitato scientifico del CeMSI - ricercando una prospettiva nazionale ed europea».
IL PROGRAMMA - Incontri, concerti e spettacoli si terranno al seminario vescovile di piazza della Repubblica a Mazara del Vallo. Qui di seguito il programma sintetico (quello completo è nell’allegato pdf). Venerdì, ore 9,30. Saluti: D.Mogavero, M.Turano, N.Aziza. Ore 10: Flussi migratori e processi d’integrazione:problemi e politiche (modera: L.Fulco, interventi di: G.Sciortino, A.Cotesta, M.Russo, T.Prestileo, F.Fiorino), Flussi migratori irregolari e sfruttamento della criminalità organizzata (modera: S.Costantino, interventi di: A.Di Nicola, M.G.Giammarinaro, M.Barbagli, G.Sciacchitano, R.Salierno). Ore 16: Produzione culturale ed artistica dei migranti (modera: N.Aziza, interventi di: N.Chekoufi, A.Lakhous, M.Melliti, V.Merkuris, J.Quassini, C.Peirolero). Ore 21: performance di Antonella Ciaccia, proiezione del film “Io l’Altro, di Mohsen Melliti. Sabato, ore 9,30: Migrazioni e sviluppo integrato (modera: V.Porcasi, interventi di: F.Bonanno, A.Gasparini, G.Cecchini, T.Dobi, S.Davies, A.Rinaldi, P.D’Onofrio, T.Vrbat, A.Juri). Ore 16: Gli attori istituzionali delle politiche dell’immigrazione (modera: R.La Galla, interventi di: R.Maroni, A.Piraino, J.Oropeza, R.Nouicer, D.Mogavero, N.Aziza). Ore 21: performance di Guaiana Giana e Jamal Ouassini trio. Domenica, ore 11 Cattedrale: Messa dell’accoglienza (D.Mogavero, G.Bader, P.El Hachem, M.Lahham, F.Montenegro, C.Peri, I.Shomaly, G. Bregantini).
 
 
 
Regno Unito: immigrati più qualificati e peggio retribuiti degli inglesi.
The Indipendent: “sono un grande beneficio per la nostra economia”.
Immigrazione Oggi, 15-09-2011
Qualifiche più alte e retribuzioni inferiori ai cittadini del Regno Unito, per questo i lavoratori immigrati costituiscono un grande beneficio per il Paese. Questo è quanto sostiene una ricerca dell’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica pubblicata dal quotidiano londinese The Independent.
Secondo lo studio, un terzo (34%) degli immigrati del Regno Unito ha una qualifica post istruzione, contro il 29 per cento dei lavoratori locali; il 4,9% degli immigrati, inoltre, è in possesso di un punteggio superiore a quello dei lavoratori locali.
Andreas Schleicher, l’autore della ricerca, ha spiegato che “gli immigrati tendono ad essere più qualificati e con attestati mediamente superiori a chi è nato nel Regno Unito”. Questo, secondo l’esperto, fa sì che “i benefici per la nostra economia sono davvero grandi”.
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