Tuffarsi per cercare il diritto alla vita. E trovare la morte

 

Emiliano Boschetto
Per un immigrato - ha detto il deputato Jean-Léonard Touadi - i documenti sono questione di vita o di morte». Parole simili deve aver pensato durante l’alluvione di Roma anche Sarang, ragazzo cingalese, che dopo aver messo in salvo la moglie e la figlia neonata si è accorto di non avere con sé i documenti ed è tornato in quell’inferno d’acqua. 
Il muro del seminterrato dove abitava però, non si è dimostrato solido e impenetrabile come quello dell’indifferenza ma, come questa, l’ha sepolto. Una fine atroce, metafora della vita degli immigrati in Italia. Perché se rischi di morire per un pezzo di carta vuol dire che la tua esistenza senza quel documento non è vita. Perché il permesso di soggiorno da noi non è un diritto legato a precise condizioni, ma un 6 al superenalotto basato sulla discrezionalità. Perché elevare criteri e costi per ottenerlo senza dare in cambio certezze significa porre migliaia di esistenze nella precarietà, vuol dire creare quella “clandestinità” - parola barbara marchiata a fuoco nelle nostre leggi - che si dice di voler combattere.
Non conoscevo Sarang, ma di ragazzi come lui ne incontriamo tanti al C.I.A.O. onlus (associazione che lavora per l’integrazione dei migranti nel XIII municipio di Roma). Persone che si ammazzano di lavoro e poi, la sera, vengono a imparare l’italiano. Ragazzi che ti guardano con una riconoscenza imbarazzante per un «a, e, i, o, u» mentre non immaginano che regalo stiano facendo loro a tutti noi stabilendo l’unico linguaggio che possa consentire di costruire una società civile. Non pretendiamo il migliore dei mondi possibili ma, semplicemente, una terra dove quelli come Sarang non siano costretti a tuffarsi nell’inferno per salvare il proprio diritto alla vita.
27 ottobre 2011
Share/Save/Bookmark