Maschio uccide femmina, padre uccide figlia: c'entra l'Islam?
L’assassinio della ragazza marocchina Sanaa Dafani per mano del padre, ostile alla sua relazione con un giovane italiano, è una notizia straziante, che ci riguarda in quanto persone incerte in una società in profondo cambiamento. Davanti a fatti del genere, comprensibilmente, la prima reazione è di condanna, senza la ricerca di una qualunque interpretazione razionale. Che pure, nonostante tutto, va tentata. Si ricordi che si tratta di comportamenti che per secoli hanno segnato la storia della società italiana: ragazze non libere di decidere, e costrette alla vita in convento; donne date a mariti sconosciuti e non scelti; non maritate che restavano in famiglia senza aver voce, sottomesse, private di un’ esistenza vera. Questo non va dimenticato. Nessun giustificazionismo sociologico e nemmeno alcun relativismo culturale: consapevolezza, piuttosto, che da quella tragedia, noi, italiani e italiane, siamo usciti appena di recente. Fino al 1981 il nostro codice penale prevedeva per il “delitto d’onore” la reclusione tra i tre e i sette anni. A produrre il cambiamento che ne determinò l’abrogazione fu, tra l’altro, l’ “unificazione” della mentalità condivisa, anche attraverso strappi e rotture. Analogamente si può dire che solo una migliore interazione tra italiani e stranieri – fatta anche di confronti aspri e di conflitti - può determinare lo smussamento, e in prospettiva il superamento, di quei tratti culturali sedimentati che producono, infine, scelte barbariche. Se si consente – o addirittura si agevola - la chiusura e l’autosufficienza da parte delle comunità etniche, si incentiva fatalmente la formazione di microcosmi sordi e muti. Per quanto faticosa, e dall’ esito non scontato, questa è la sola via percorribile.