Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

29 novembre 2013

Salvati 350 migranti nel Canale di Sicilia
La Stampa, 29-11-2013
ROMA -Sono circa 350 i migranti a bordo di quattro natanti soccorsi ieri dalle navi della Marina militare impegnate nel- l'operazione «Mare Nostrum». In particolare, nave Scirocco ha completato il recupero dei migranti dei primi due gommoni, prendendone a bordo 210. La nave Grecale, con il concorso dei gommoni del pattugliatore d'altura «Corsi» della Guardia Costiera, ha recuperato i migranti degli altri due natanti.



Lampedusa, scaricabarile sulla strage Così sono annegati i bimbi siriani
La nave Libra della Marina militare era a poche miglia dai profughi. Ma per ore non è stata coinvolta nelle operazioni di salvataggio. La prima chiamata di soccorso arrivata alla centrale della Guardia costiera. Che ha passato l'intervento a Malta nonostante gli italiani fossero più vicini al punto del naufragio. "Abbiamo rispettato gli accordi". Ecco come l'11 ottobre sono morte oltre 260 persone. La ricostruzione esclusiva de "l'Espresso"
l'Espresso, 29-11-2013
Fabrizio Gatti
La piccola Joud Mustafa sta giocando sotto il sole a “Subway surfer” sull’ipad del papà. A 3 anni un viaggio così scomodo sul ponte affollato e sporco di un peschereccio è una noia senza fine. Poi anche Joud si addormenta stremata, nelle braccia della mamma. Da due giorni non hanno da mangiare. Non c’è più acqua da bere. Ma un mormorio tra i 480-500 passeggeri finalmente diffonde una buona notizia. La centrale operativa della Guardia costiera in Italia ha risposto alla richiesta di soccorso lanciata con un telefono satellitare da un medico a bordo. Molti ringraziano Dio e gli italiani. Sono le 12.26 di venerdì 11 ottobre. Comincia così un conto alla rovescia di protocolli e burocrazia che nel giro di cinque ore ucciderà Joud e la sua mamma. E con loro, tra i sessanta e i cento bambini, le loro famiglie e decine di ragazze e ragazzi siriani che credevano di salvarsi in Europa. Una roulette agghiacciante di numeri: almeno 268 annegati, solo 26 corpi recuperati, 212 sopravvissuti. E il finale inaccettabile nella sua assurdità: per tutto il pomeriggio la nave Libra della Marina militare italiana è vicinissima ai profughi, appena dietro l’orizzonte. Tra le 27 e le 10 miglia, un’ora, mezz’ora di navigazione o poco più. Ma né l’Italia né Malta chiedono per ore il suo intervento.
La Libra ha un ponte grande, l’elicottero a bordo e marinai esperti che potrebbero dare aiuto a tutti i naufraghi. La comandante, il giovane tenente di vascello Catia Pellegrino, è un’icona della Marina. Da quella breve distanza il peschereccio che sta affondando è sicuramente visibile sul loro schermo radar. Ma nessuno dà ordini, nessuno prende decisioni che potrebbero ancora salvare 268 persone. La Libra viene autorizzata a raggiungere il punto soltanto alle 17.14. A quell’ora la nave dei bambini si è rovesciata da sette minuti e il mare è una distesa di persone vive e morte. I ritardi riducono drasticamente anche il tempo di luce a disposizione per le ricerche. Calato il buio, chi è in acqua rischia di non essere avvistato dai soccorritori e di andare alla deriva verso una fine di stenti, freddo e fame. Forse è per questo che qualcuno tra i siriani giura di aver notato bambini e adulti aggrappati a pezzi di legno del peschereccio, ma di non averli poi ritrovati tra i superstiti riportati a terra.
“L’Espresso” ha scoperto quale sala operativa ha raccolto la prima richiesta di aiuto. Quella che avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi. È la centrale di coordinamento di Roma del comando generale delle Capitanerie di porto, una struttura della Marina inquadrata nel ministero dei Trasporti da cui dipende l’attività della Guardia costiera. L’imbarcazione carica di profughi siriani affonda a 113 chilometri da Lampedusa e a 218 chilometri da Malta. Causa del disastro: l’eccessivo numero di passeggeri obbligati a salire a bordo dai fratelli Khaled e Mohamed, spregiudicati trafficanti del porto di Zuwara in Libia, e le raffiche di mitra sparate la notte precedente da una motovedetta libica che hanno forato lo scafo. Causa del ritardo nelle operazioni di salvataggio: lo scaricabarile delle responsabilità tra l’Italia e Malta nelle procedure di ricerca e soccorso che in passato ha già provocato morti e dispersi. Per ricostruire in questo articolo la cronologia della tragedia sono stati analizzati i dati di quasi tredicimila posizioni delle navi in transito: coordinate, velocità e direzione, dalle 11 del mattino a mezzanotte di quel venerdì. Un laboratorio in Inghilterra si è occupato dell’estrazione dei numeri di emergenza memorizzati in un telefono recuperato dal mare. Ai dati geografici e scientifici, si aggiungono la testimonianza dell’ammiraglio Felicio Angrisano, comandante generale del Corpo delle capitanerie di porto e della Guardia costiera, e i racconti di alcuni ufficiali della Marina militare.
Il punto di non ritorno verso la strage viene superato alle 13 dell’11 ottobre: a quell’ora la centrale operativa italiana potrebbe ancora salvare i bimbi e gli altri passeggeri. Ma rinuncia all’intervento diretto e passa la richiesta di soccorso ai colleghi di Malta. Nonostante la distanza tra la nave dei bambini e Malta sia il doppio della distanza da Lampedusa. Una scelta che in un resoconto scritto, inviato  a “l’Espresso”, l’ammiraglio Angrisano spiega così: «La sequenza degli eventi descritta risponde a quei criteri di condotta internazionali dettati, nello specifico, dalla Convenzione di Amburgo che impongono a ciascuno Stato la responsabilità del coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso in aree definite e dichiarate». Alle mamme e ai papà sopravvissuti che hanno perso il resto della famiglia stanno quindi dicendo che i loro piccoli, i loro cari sono morti nel rispetto della Convenzione di Amburgo, dell’accordo che dal 1979 affida al ministero dei Trasporti la responsabilità del soccorso in mare.
Il comandante generale della Guardia costiera italiana conferma la testimonianza di Mohanad Jammo, 40 anni, pubblicata da “l’Espresso” a inizio novembre. Le loro versioni non coincidono soltanto per un punto. Il dottor Jammo, primario dell’Unità di terapia intensiva in un ospedale di Aleppo in Siria, nel naufragio ha perso due figli di 6 anni e 9 mesi. È lui che dal peschereccio parla con il numero di Roma della centrale di coordinamento del soccorso. Telefona su richiesta dello scafista che gli presta il satellitare Thuraya. Jammo chiama l’Italia proprio perché sullo schermo di tre strumenti Gps che hanno a bordo vedono che Lampedusa è a poco più di cento chilometri. E Malta è a oltre duecento. Logica e buon senso avrebbero spinto chiunque a quella scelta. Cento chilometri sono due ore di navigazione per le motovedette della Guardia costiera e poco più di un’ora e mezzo per i pattugliatori veloci della Guardia di finanza che l’11 ottobre sono presenti in forze a Lampedusa, dopo il naufragio dei profughi eritrei otto giorni prima. «Ho chiamato tre volte, sempre lo stesso numero italiano», dice Mohanad Jammo: «Verso le 11 del mattino, verso le 12.30 e poco prima dell’una del pomeriggio». Le parole di Jammo sono confermate da altri due medici sopravvissuti: Ayman Mustafa, 38 anni, chirurgo, il papà di Joud, che ora è ufficialmente dispersa in mare con la mamma Fatena, 27, e da Mazen Dahhan, 36, neurochirurgo, che ha perso la moglie Reem, 30 anni, e tutti e tre i loro bambini.
L’ammiraglio Angrisano smentisce soltanto la telefonata delle 11. Il resto è confermato. «Alle 12.26», racconta, «giunge da apparato telefonico satellitare alla centrale operativa una chiamata fortemente disturbata e a tratti incomprensibile. Dopo cinque minuti di tentativi di comunicare, la linea cade. L’esperienza maturata induce comunque a contattare, come già fatto in centinaia e centinaia di casi analoghi, il gestore della rete Thuraya che ha sede negli Emirati arabi».
Otto minuti dopo la conclusione della prima conversazione, il dottor Jammo richiama. Sono le 12.39 e la telefonata prosegue fino alle 12.56. La voce è più comprensibile: «Tanto da permettere di acquisire alcuni elementi, numero e nazionalità delle persone a bordo, luogo di partenza, la presenza di due bambini bisognosi di cure, fornendo per ultimo la posizione dell’unità che, con motore fermo, imbarca acqua», aggiunge Angrisano.
Dunque la centrale operativa di Roma sa che a bordo ci sono profughi, ci sono bambini, ci sono feriti e che il peschereccio sta affondando. Anche ignorando la chiamata delle 11, che Mohanad Jammo comunque conferma, alle 13 c’è ancora tutto il tempo per far partire le motovedette e i pattugliatori da Lampedusa. E, calcolando la loro velocità, per farli arrivare a destinazione tra le 14.30 e le 15. Cioè almeno due ore prima della strage. Poi ci sono la Libra e più lontana, a 96 chilometri, la Espero. Le due navi militari sono da quelle parti per proteggere i pescherecci italiani da incursioni libiche. Le motovedette maltesi insomma dovrebbero percorrere il doppio della distanza rispetto ai due pattugliatori della Marina. E rispetto ai mezzi ancora a Lampedusa, che quel pomeriggio sono in gran parte in porto. Invece alle 13 la centrale operativa di Roma passa la richiesta di soccorso a Malta.
Quando dalla Guardia costiera italiana gli annunciano quello che avrebbero fatto, Mohanad Jammo li supplica: «Per favore, stiamo per morire». E il militare al telefono: «Per favore, potete chiamare le forze maltesi, adesso vi do il numero: 00356...».
«Se prendete la registrazione», ricorda il dottor Jammo, «vedrete che non mi ha lasciato il tempo. Ha chiuso la telefonata prima ancora che avessi finito di scrivere il numero». Questo invito a chiamare direttamente Malta, spiega l’ammiraglio Angrisano, «risponde a una chiara, collaudata e produttiva metodica che attraverso il contatto diretto di chi chiede soccorso e chi è tenuto a prestarlo, rende più efficace, più produttiva l’azione di salvataggio». A bordo sono terrorizzati. Il ponte inferiore è ormai allagato. I passeggeri cominciano a risalire sul ponte principale e su quello superiore. Mazen Dahhan, che è là sotto, prende i suoi bambini, Mohamed, 9, Tarek, 4, e il piccolo Bisher, 1, e li passa di sopra ad Ayman Mustafa che li fa sedere all’asciutto. La piccola Joud sta ancora dormendo, abbracciata alla mamma.
Anche Mohamad, 6 anni, il figlio più grande di Jammo, dorme al sole. Per un attimo riapre gli occhi e osserva il suo babbo in piedi sul tetto della cabina di comando, che con il telefono satellitare e una voce sempre più disperata continua a chiamare Malta. Incrociano i loro occhi per un attimo. Il papà gli mostra il pollice alzato. Il piccolo Mohamad gli sorride, si riaddormenta. Resterà il loro ultimo sguardo.
«L’unità si trova nell’area di responsabilità di Malta», insiste l’ammiraglio Felicio Angrisano nel resoconto scritto: «Quella centrale di coordinamento viene pertanto interessata alle 13 dalla centrale operativa della Guardia costiera che comunica di aver anche individuato nella zona due navi mercantili, più prossime alla unità dei migranti, rispettivamente a 25 e 70 miglia». Alle 13.05 l’autorità maltese, secondo il comandante della Guardia costiera, assume la direzione delle operazioni di ricerca e soccorso. Rivela ancora l’ammiraglio Angrisano: «Frattanto in quell’area dirige, come da disposizioni del comando in capo della squadra navale della Marina militare, anche la nave Libra con elicottero a bordo». E qui però i conti non tornano più.
La Marina militare riferisce che alle 13.34 la nave Libra è soltanto a 27 miglia dal punto della richiesta di soccorso. Sono 50 chilometri. Alla velocità massima della nave, 20 nodi, 37 chilometri orari, con quel mare calmo la Libra potrebbe raggiungere i profughi in un’ora e mezzo. Cioè già alle 15. Arriverà invece alle 18: perché soltanto dopo l’affondamento della nave dei bambini, il coordinamento di Malta chiede alla centrale operativa di Roma il concorso degli italiani. Alle 17.14, quando riceve finalmente l’ordine di intervento, la Libra è ancora a dieci miglia, 18 chilometri. Insomma, da ore naviga in attesa che qualcuno decida cosa fare. Quattro ore e mezzo per percorrere 50 chilometri fanno una velocità media di 11 chilometri orari, meno di 6 nodi: non certo un’andatura di pronto intervento.
Le 13.34 di quel pomeriggio nascondono un altro retroscena incredibile. È il momento in cui l’avviso ai naviganti del centro operativo di Roma viene diramato a tutto il mondo: la nota “hydrolant 2545” chiede alle navi in transito di assistere se possibile il peschereccio. Alle navi in transito. Non alla nave Libra. Perché? «La Centrale di coordinamento di Roma ha offerto immediatamente il richiesto contributo indicando la presenza, nella più vasta area, di due navi mercantili e di una nave della Marina militare», sostiene il comando della Guardia costiera: «L’autorità che assume in base alla convenzione di Amburgo la direzione e il coordinamento delle attività di soccorso, ne detta i tempi, le modalità e anche le eventuali richieste di cooperazione». In altre parole, è colpa dei maltesi se si sono dimenticati di impiegare la Libra. Le Forze armate maltesi non hanno ancora risposto alla richiesta di spiegazioni.
Alle 16.22 l’autorità di Malta informa Roma che un proprio aereo ha individuato il peschereccio alla deriva. Alle 17.07 sempre dalla Valletta avvertono che si è capovolto e chiedono aiuto all’Italia.
Soltanto alle 17.51 arriva sul posto la prima nave di soccorso, il pattugliatore maltese P61 . Verso la 18 si unisce la Libra. Mentre da Lampedusa vengono fatte partire le motovedette CP302 e CP301 e due pattugliatori veloci della Guardia di finanza. Esattamente quello che il buon senso del dottor Jammo supplicava da almeno sei ore.



I migranti arrivano da regimi repressivi il tasso di mortalità: 30 per mille
Una ricerca dell'Istituto Universitario Europeo sfata molti luoghi comuni sul fenomeno
la Repubblica.it, 28-11-2013
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Verità e falsi miti sul pianeta immigrazione. Prima la tragedia di Lampedusa, poi la recinzione di filo spinato costruita da Grecia e Bulgaria lungo il confine con la Turchia hanno riaperto in Europa il dibattito sui flussi migratori. Un tema caldo, ma spesso opaco. A fare un po' di luce ci prova ora una ricerca curata da Philippe De Bruycker, Anna Di Bartolomeo e Philippe Fargues per il "Migration Policy Centre" dell'Istituto Universitario Europeo.
Le rotte della speranza. "In primo luogo  -  scrivono i ricercatori  -  le tratte clandestine per via marittima non sono niente di nuovo. Dal 1998 al 2013, 623.118 migranti sono arrivati in Europa via mare in maniera irregolare, per un totale di circa 40mila persone l'anno. In tal senso, il 2013 con i suoi 39.420 arrivi non rappresenta che un "anno medio". È tuttavia importante sottolineare come questi numeri sono del tutto trascurabili se comparati col milione e mezzo di immigrati che viene ammesso ogni anno nei Paesi dell'Unione europea".
I morti in mare. Nel corso degli anni il rischio di morte durante la traversata è invece aumentato: "Inferiore al 10‰ fino al 2001, a partire dal 2007 ha superato il 30‰ (30 morti ogni 1.000 persone che partono), rendendo la rotta marittima verso l'Europa la più pericolosa al mondo. Fra gli altri fattori, tale incremento è stato attribuito a una maggiore sorveglianza nel mare da parte degli Stati membri, sorveglianza che ha provocato una diversificazione delle rotte seguite dai migranti, obbligati a scegliere rotte sempre più lunghe e pericolose".
I Paesi d'origine. I migranti irregolari arrivati via mare non provengono dagli stessi Paesi dei migranti regolari: "Nel periodo 2008-2013 le nazionalità maggiormente rappresentate negli sbarchi sono state: quella tunisina (un flusso avvenuto prevalentemente nei primi mesi della rivoluzione del 2011), seguita da quella eritrea, nigeriana, somala, siriana, afgana, ghanese e maliana. A parte alcune rare eccezioni, queste nazionalità non rappresentano né le principali nazionalità dei richiedenti asilo (Afghanistan, Russia, Iraq, Somalia, Serbia, Pakistan, Iran, Kosovo), né quelle dei migranti regolari nei paesi dell'Unione europea (Turchia, Marocco, Albania, Algeria, Ucraina, Cina, Russia, Ecuador)".
Le vere spinte dei flussi. Le traversate nel Mediterraneo hanno radici molto lontane: "Nella stragrande maggioranza dei casi i migranti intercettati o morti nel Mediterraneo provengono dall'Africa sub-sahariana o dall'Asia. Nello specifico, provengono da Paesi sottomessi a regimi repressivi in cui prendere contatto con le ambasciate occidentali (quando presenti) per richiedere asilo politico o visti migratori è estremamente pericoloso. Il Mediterraneo e i suoi morti rilevano perciò fenomeni che hanno radici altrove".
I morti di Lampedusa. "La maggioranza delle vittime della recente tragedia di Lampedusa aveva diritto di richiedere asilo nell'Unione europea, da cui deriva l'irrilevanza nel cercare di attribuire loro un qualsivoglia status di "immigrato". Il problema è che queste persone non avevano alcuna possibilità di raggiungere in maniera regolare le coste europee per chiedere protezione internazionale, fatto che spiega il loro ricorso a vie irregolari".
Come evitare le stragi? "Esistono molteplici soluzioni per rispondere all'inaccessibilità di strade legali di domanda d'asilo in Europa. La prima soluzione  -  consigliano i ricercatori  -  consiste nel definire piani di reinsediamento (resettlement) nei Paesi di primo asilo o di transito che i rifugiati potrebbero raggiungere. L'Unione europea si è impegnata timidamente in questa direzione, ma non vi è dubbio che c'è ancora molto da fare a patto che esista la volontà politica. Altre soluzioni sono da ricercare nel rilanciare la formula (ormai abbandonata) delle "procedure di entrata protetta" o dei "visti per l'asilo politico" così come nella possibilità di stabilire dei "programmi di protezione regionale" volti ad aumentare le capacità di asilo dei Paesi terzi".    



Quando il giudice sentenziò: «I Cie non sono adatti ad accogliere esseri umani»
il Venerdì della Repubblica, 29-11-2013
Enrico Deaglio
La domanda, come la potrebbe fare un bambino che vede alla televisione l'umanità scampata alla morte che sbarca tremando sulle nostre spiagge: «Papá, e adesso dove li portano?». La risposa è: «Li portano in un Cie». Ma se voi
chiedete che cos'è un Cie, avrete risposte vaghe, come si addice a luoghi segreti, vaghi, costruiti per essere invisibili. In realtà, sono luoghi terribili.
I Centrí di identificazione ed espulsione degli immigrati «clandestini» vennero costruiti ai tempi della legge Turco-Napolitano e si stabilì che il massimo della permanenza fosse un mese. Poi venne la Bossi Fini e il periodo passo prima a 60 giorni, poi a 180; infine un decreto del ministro degli Interni Maroni nel 2011 prolungò il período fino a 18 mesi. Attualmente i centri sono 13 e si calcola che in anno ci passino dodicimila immigrati senza documenti. Cosa sono: detenuti? Ospiti? Hanno dei diritti? Come vivono? Si sa molto poco, perche ai giornalisti, per esempio, è vietato accedere, cosi come agli avvocati, o a organizzazioni di volontariato e diritti umani. Ogni tanto, però i Cie arrivano alla cronaca. I loro nomi: Gradisca (lassü, vicino a Gorizia), Ponte Galeria (alle porte di Roma, il centro da cui passarono la Shalabajeva e la figlioletta), Trapani (dove arrivano quelli da Lampedusa), Caltanissetta, Lamezia Terme... I loro costi di gestione sono molto opachi: nel 2012 sono stati stanziati 174 milioni di euro, per il 2013 e 2014 saranno 216 milioni, ma lieviteranno.
Per il centro di Gradisca, 13 imputati (tra cui un viceprefetto) sono sotto processo per truffa e sovrafatturazione. Dagli altri arrivano in continuazione notizie di tentativi di fuga, somministrazione massiccia di psicofarmaci, botte, sporcizia immonda, disperazione, suicidi. L'Associazione LasciateCIEntrare (www.lasciatecientrare.it), cui devo questi dati, si propone di far conoscere la realtà di questi luoghi, evidentemente non costituzionali, per giungere alla loro definitiva chiusura. Riferisce che alcune personalità che sono riuscite a visitarli - il diplomático Staffan De Mistura, i senatori Pietro Marcenaro e Luigi Manconi - sono rimasti shoccati e che l'Europa ha da parte sua stigmatizzato il comportamento italiano. Il nostro tasso di civiltà, già messo a dura prova nelle carceri, è di nuovo sotto l'attenzione del mondo.
Per i nostri Annali, una storia che merita di essere conosciuta. L'anno scorso tre giovani «ospiti» del Cie di Crotone (un algerino, un tunisino e un marocchino) vennero arrestati perché erano saliti su un tetto (sei giorni, senza cibo!), chiedendo liberta e lanciando calcinacci. Il tribunale di Crotone, giudice monocratico Edoardo D'Ambrosio - dopo aver visitato la struttura ed averla definita «mancante degli standard necessari per accogliere esseri umani» - li assolse (con approfondita motivazione), riconoscendo la loro «legittima difesa» nei confronti di un «trattamento inumano e degradante».
In attesa che i Cie vengano chiusi, mi fa piacere qui ricordare quel giudice, il suo coraggio e la sua solitudine



Insegnando l'italiano ai piccoli immigrati
Corriere della sera Roma, 29-11-2013
Paola Morandi Treu Presidente della onlus ViviVejo
Gentile redazione,
è noto che molti figli di immigrati nel nostro Paese non capiscono l'italiano e spesso fanno molta fatica a integrarsi a scuola. Nelle aule romane, ma anche del resto del Paese, il 20 per cento degli alunni è figlio di stranieri. Spesso questi ragazzi arrivano dai loro Paesi senza avere imparato neanche una parola di italiano. Senza conoscere la lingua, è evidente che si sentono spaesati e non possono integrarsi con gli altri ragazzi, o perlomeno fanno molta più fatica. Con la nostra associazione abbiamo deciso di promuovere un piano teso a reclutare volontarie disposte a insegnare la nostra lingua ai ragazzi delle scuole nei quartieri di Roma Nord, all'insegna dello slogan «Diamoci una mano». Durante l'anno scolastico del 2012 fu firmato un Protocollo di Intesa fra alcune associazioni e Istituti scolastici con l'obiettivo di realizzare un Progetto Integrazione, ricolto proprio ai ragazzi stranieri che frequentano le nostre scuole.
L'esperimento ha avuto successo, e ora, col nuovo anno scolastico, è necessario arruolare più volontarie, perché il numero dei figli degli immigrati con scarse cognizioni della nostra lingua è in crescita. Lanciamo perciò un appello a eventuali volontarie che vogliano occuparsi dell'insegnamento dell'italiano, con grammatica e verbi, a piccoli filippini, romeni, polacchi, alunni di alcune scuole sulla Cassia. Possono farsi avanti dando la propria disponibilità alla onlus ViviVejo, scrivendo alla mail Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. . Sperando di ricevere numerose adesioni, ringraziamo il Corriere per l'ospitalità.



Cittadinanza. Forum Europeo per l'Integrazione: "Dopo 5 anni di residenza"
"Diritto di voto pe ri lungosoggiornanti e ius soli per i loro figli". Le proposte della piattafroma di dialogo con la societò cicile creata dalla Commissione Europea
stranieriinitalia.it, 29-11-2013
Roma – 29 novembre 2013 - ''I migranti dovrebbero poter ottenere la cittadinanza non oltre i 5 anni di residenza legale'', in un paese Ue. E i bimbi nati da figli stranieri in un paese ''dovrebbero ottenere alla nascita la cittadinanza di quel paese, se almeno un genitore vi risiede legalmente da 5 anni''.
È la posizione del Forum europeo per l'integrazione, la piattaforma di dialogo sulle tematiche dell'immigrazione, composta da rappresentanti della società civile, lanciata nel 2009 dalla Commissione europea e dal Comitato europeo economico e sociale.
''La Commissione europea lanci una procedura di infrazione contro gli Stati membri Ue che impongono condizioni aggiuntive a quelle previste dalla direttiva Ue per la lunga residenza'', si chiede nella dichiarazione sulla 'Partecipazione dei migranti al processo democratico' appena adottata dal Forum.
Infine, il Forum europeo per l'integrazione sostiene i diritti politici degli immigrati. ''Il diritto voto alle elezioni locali, regionali e nazionali dovrebbe essere garantito a tutti i legalmente residenti dopo un massimo di 5 anni di regolare residenza e il diritto di fondare o aderire ad associazioni e partiti politici dovrebbe essere un diritto inviolabile di tutti i residenti'', conclude la dichiarazione.



Immigrazione clandestina nella Marsica sgominata una banda, 11 arresti
Maxi blitz della Polizia: promettevano permessi di soggiorno in cambio di migliaia di euro
Il Messaggero, 29-11-2013
AVEZZANO - Dalle prime ore dell’alba oltre 50 Agenti della Polizia di Stato, stanno eseguendo arresti e perquisizioni nella provincia aquilana. L’operazione è stata denominata FAKE JOB per sottolineare come gli indagati promettessero falsamente un lavoro agli stranieri, attraverso l’ottenimento di un regolare visto di ingresso, ma una volta giunti in Italia gli extracomunitari non venivano assunti.
Si trattava di bengalesi, pakistani e marocchini, fatti arrivare in Italia, in particolare ad Avezzano e nei Comuni della Marsica, attraverso i flussi migratori disponibili nel corso dell’anno, per l’assunzione di lavoratori stranieri presso locali aziende agricole. Ma una volta giunti in Italia i cittadini stranieri dovevano pagare 7000 euro ai fittizi datori di lavoro o ai loro intermediari, senza ovviamente ottenere alcuna occupazione ma solo la possibilità di permanere nel territorio dello Stato.
Gli Agenti della Squadra Mobile della Questura dell’Aquila, stanno eseguendo 11 misure cautelari in carcere disposte dal G.I.P. Dr. Marco BILLI , su richiesta del P.M. della D.D.A. di L’Aquila Dr. David MANCINI, nei confronti di altrettanti indagati, 5 italiani datori di lavoro e titolari di aziende agricole, e 6 stranieri che facevano da intermediari con i loro connazionali.
Secondo quanto emerso dalle indagini, dal 2009 ad oggi era stato messo a punto un meccanismo ben collaudato che consentiva, dietro il pagamento di 7000 euro a persona, di ottenere un falso posto di lavoro utile all’ottenimento del permesso di soggiorno.
Le indagini, partite da una denuncia sporta nel 2010 da una donna presso l’Ambasciata di Islamabad in Pakistan, hanno evidenziato ben 259 richieste di visti d’ingresso, tutte finalizzate a delle false assunzioni.

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Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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