Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Raccontini


Salvatore Mannuzzu

LA FACCIA OSCURA DELLA LUNA
C'è un uomo di cinquantaquattro anni; sembra mal portati: lo affligge una cardiopatia, la lunga barba che si lascia crescere è tutta bianca. La sua storia non è fuori del comune. Dopo un lontano periodo di emigrazione all'estero, è stato operaio metalmeccanico: quando le fabbriche giù sotto il paese erano attive; insieme è stato militante d'un partito politico: quando quel partito poteva segnare la vita di chi ci credeva. Poi lo hanno messo in cassa integrazione; poi in pensione. E così, a poco a poco, ha perso il desiderio e il gusto dei rapporti con il prossimo. Non si pensi a un qualsiasi irregolare, a un emarginato: piuttosto – sembra – a una persona che sceglie di vivere sola, nella sua piccola casa e con il suo piccolo reddito che gli basta.
Il paese è in costa e si affaccia, come altri, su una grande valle. Era un paese di contadini e pastori: il miraggio delle fabbriche nascenti giù nella valle lo ha tradito. Giacché ora quelle fabbriche sono chiuse: e diventano ferrivecchi, ergono inutilmente le loro ciminiere bianche e rosse, dilavate dal tempo, contro un cielo che là è sempre alto, fatto di luci scialbe. C'entra, con un simile teatro, lo svolgersi successivo della vicenda?
In paese c'è anche un ragazzo, di vent'anni. Lo si ritiene piacente, di bell'aspetto; e, si dice, ha fortuna con le donne. Indossa un prevedibile giubbotto nero di pelle, talvolta si rade i capelli a zero: ma adesso li porta corti, con un ricciolo che gli piove sull'occhio destro. Non sappiamo se questo ragazzo sia disoccupato, come tanti altri – davvero troppi. Né sappiamo se sia povero o benestante. Certo dispone, almeno qualche volta, di un'automobile.
Si tratta dunque di due personaggi esemplari: di due personaggi tipici. Anche se il ragazzo forse non ha vissuto, giovane com'è, l’agonia delle prospettive legate al destino industriale della valle, quella vera e propria catastrofe; ma certo l'ha succhiata col latte materno e continua a respirarla nell'aria. E' dunque tipico anche il contesto: la regressione del paese, la vanità delle contaminazioni che esso subisce, la sua speranza delusa e la sua identità disfatta. In un tempo nel quale tutto – qualsiasi immagine, qualsiasi lusinga – arriva ormai dappertutto.
Solo che la somma degli elementi descritti – così carichi di rischio, se si vuole d'infelicità – non basta a produrre il risultato di cui ora parleremo. E' una somma inferiore a esso, per quantità e per qualità. Certo, il malessere economico, di cui non si vede la fine, non è irrilevante; e quella che abbiamo chiamato catastrofe incide: catastrofe antropologica, mutazione che sembra priva di approdi e di senso. Sì, deve aver contato la crescente povertà d'ossigeno, il serrarsi di tutte le strade per le quali i passi potevano spingersi: deve aver pesato che la vita del paese si riduca al residuo di mille differenti sconfitte. Ma ciò che poi è successo resta fuori da tali proporzioni: e sembra abbia anche un'altra natura, sconosciuta.
Cos’è successo? Sere fa il ragazzo di vent'anni gira alla guida di un'automobile, insieme a suoi amici più giovani di lui («minorenni»). E sotto il paese, sul ciglio della strada, arranca l'uomo di cinquantaquattro anni, con la sua lunga barba bianca: chiede un passaggio. Glielo danno, lo portano da periferia a periferia. Lì lo fanno scendere, lo spaventano, lo minacciano, lo picchiano: e, uno dopo l'altro, lo violentano. Forse qualcuno adopera anche una bottiglia. E che farne poi di quell'uomo, di quel vecchio? C'è un cassone metallico per la raccolta dei rifiuti: lo gettano dentro e chiudono il coperchio.
Si sa che la violenza sessuale dipende, più che altro, dalla voglia di aggredire, di far male, di umiliare, di sottomettere. Ma la violenza che abbiamo raccontato esprime una prepotenza solo fine a sé stessa, pura: scevra – almeno secondo il metro comune – di spinte riconducibili all'istinto della generazione. Non che questo istinto non sia venuto in causa; sembra però si sia trattato, invece che della sua soddisfazione, d'un suo uso trasversale, mimetico: per altro. Che altro? Ecco, è la gratuità ciò che colpisce; gratuità tanto più crudele quanto più insistita: articolata in atti ripetuti e in un lasso di tempo non breve: dunque in grado di assistere, man mano, alle proprie conseguenze.
E allora la domanda che rimane, e inquieta senza trovare risposta, è che cosa – insieme ad altro che sappiamo – sta all'origine di atti simili. Qual è il loro nocciolo, opaco e imperscrutabile. E come la loro faccia – che ci pare più lontana e fredda della faccia oscura della luna – è parente della nostra: forse, in qualche misterioso modo, è la nostra stessa faccia.





DONNE IN AEROPORTO
Mi succedeva di frequentare gli aeroporti. E in uno di essi aspettavo un volo. Pazientemente, al riparo di un po' di giornali: come chi da abituale viaggiatore, da pendolare continuo, ha dovuto imparare tecniche adeguate di sopravvivenza. Era un aeroporto d'una località alla periferia d'Italia. Lo avevo conosciuto in anni lontani: allora era solo una stanzetta, una stazioncina di frontiera esposta ai venti di maestrale. Adesso – rimanendo invariate, anzi magari crescendo le scomodità – è diventato il luogo che si immagina: cioè un non-luogo. Dove chi ci capita spesso cerca di proteggersi dalla freddezza anonima delle cose chiudendosi in sé, astraendosi dietro qualche silenzioso schermo: cercando di scomparire. Ma poi scomparire non è possibile, o almeno non è facile, prima della volta buona: è stato così che a un certo punto mi avevano raggiunto degli strilli.
Di donna, pareva: reiterati e intensi, rimbombavano nell'ampia sala dove io mi trovavo – ma forse sala non è il suo nome, né ce n'è uno appropriato. Comunque quegli strilli o gridi, non intelligibili, misti chissà anche di pianto, continuavano, ricoperti dai loro stessi echi; può darsi anche da altre voci, maschili queste. Però sembravano – strilli o gridi che fossero – espressione non tanto di dolore ma più d'ira, di rabbia: come fosse in corso un litigio increscioso. – O se era dolore, pensavo, era magari un dolore manifestato e amplificato ritualmente, nella forma isterica che appartiene a certe dimensioni sociali.
E non sollevavo gli occhi a guardare ciò che stava succedendo; all'altro capo di quello stanzone, di quel lungo e squallido locale: là in fondo, dove forse si raccoglieva un assembramento. Di gente che a un certo punto si era diretta, in una specie di piccolo rumoreggiante corteo, verso l'ufficio della polizia.
Poi avevo capito, dai discorsi che altri viaggiatori facevano tra loro: due negre, probabilmente due prostitute, venivano imbarcate su un aereo per essere espulse dall'Italia. E si ribellavano; si ribellavano in quel modo, inutilmente: perfino cercando di spogliarsi lì in pubblico, nel tentativo impotente di difesa cui donne come loro pare usino ricorrere dentro frangenti simili.
Non ne ho saputo più nulla, s'intende: non ne saprò più nulla. Ma cosa rimane d'un fatto del genere, a chi casualmente si trova a esserne testimone, a venirne anzi lambito, solo un attimo? Gli rimane, magari, una specie di tardo rimorso per l'inerzia; inerzia se non altro di attenzione, di sentimenti: mentre qualcuno gridava, piangeva, lottava, come era capace.
Rimane e insiste, per un po' di tempo, il pensiero di quelle due donne mai conosciute e, si può dire, mai viste; proprio quelle due, non altre, tra le innumerevoli come loro. Per quali vicende sono capitate in questo non-luogo, che deve sembrargli ricco di beni, se con accanimento e lacrime si sforzano di restarci; come può essere la loro vita, diventata così: vita di donne che si spogliano in pubblico per disperazione e rabbia, non riuscendo altrimenti a dire le proprie ragioni; verso quale altro non-luogo adesso sono dirette.




BRINDISI
Finisce l'anno, ne incomincia uno nuovo. E anche il secolo, anche il millennio sono agli sgoccioli: che cosa ci aspetta? Dedico gli ultimi momenti d'un anno difficile (come tutti) a qualcuno che non conosco. Si chiama Emany Mata Likombe, è incaricato d'affari dello Zaire a Varsavia. E continua a svolgere, là, attività ufficiale. Ma il governo dal quale dipende – e che non gli ha revocato il mandato né lo status diplomatico – si disinteressa della sua sorte. Saranno, come si legge, ripercussioni delle solite lotte tribali, in quello speciale ambito. Fatto sta che da due anni il signor Likombe è privo dello stipendio e di ogni altro finanziamento. E continua a rappresentare il suo Paese, espletando tutti gli incombenti necessari, in un casamento popolare senza ascensore d'un quartiere periferico, e lì in un appartamento sprovvisto del telefono, oltre che dell'insegna, della bandiera e di quant'altro sembrerebbe di prammatica.
Ma di cosa vive il signor Likombe? La notte spesso va a dormire nella sala d'attesa della stazione ferroviaria, su un panca, insieme ad altri barboni. E per assicurargli qualche pasto esiste un patto tacito fra tutte le ambasciate di Varsavia: non c'è loro pranzo o cocktail o cena cui non venga invitato Emany Mata Likombe. Perciò possiamo non preoccuparci di lui nell'immediato: è probabile che a Varsavia la notte di San Silvestro si festeggi anche in qualche sede diplomatica.
Si tratta d'un personaggio vero, della cui esistenza danno notizia le cronache. Ma insieme è un personaggio tout court: d'una letteratura tutt'altro che spregevole; o d'un cinema come ora non se ne fa più: il soggetto si sarebbe potuto proporre persino a Charlie Chaplin; anzi – forse meglio – all’ultimo Buster Keaton: a un vecchio Buster Keaton dal viso tinto di nero (chi non lo ha visto in Film di Becket lo ricordi almeno dire «Passo» in Sunset Boulevard di Billy Wilder).
Perché si tratta d'un personaggio di qualità? Perché la sua stessa esistenza è una metafora: ambigua come sono le metafore. Quel diplomatico africano è qualcuno la cui identità entra in crisi o addirittura – per alcuni lineamenti – si va smarrendo: è «un disperso», uno dei tanti (non riesco a dimenticare un'affermazione letta da poco: «Dio vuol bene solo ai dispersi»). Qualcuno la cui vita è legata a un ruolo che man mano si svuota. Restandone solo il guscio? Forse non solo il guscio. Ed è questa doppiezza a rendere il personaggio rappresentativo, affascinante: questo suo divenire fantasma rimanendo carne e ossa quotidiane; la maschera che gli si radica nella fisionomia, insieme alla pretesa di adempiere malgrado tutto a un compito, di mantenere una dignità impossibile. Sì, è un eroe borderline, una figura che sta sul confine, con un piede da una parte e uno dall'altra (ecco perché m'è venuto di dire Chaplin: pensando anche al finale del Pellegrino).
Metafora d'una sorte che non appartiene solo a Emany Mata Likombe. E' giusto dunque che il viso gli rimanga nero e da una parte della linea di confine ci siano anche la buia Africa e il terribile Terzo Mondo. Ma dalla parte opposta ci siamo noi, questa nostra metà del pianeta. E il luogo dove passa il confine non a caso è Varsavia (A Survivor from Warsaw). Metafora allora d'un destino sempre più comune: d'un non improbabile futuro.
Ecco perché vorrei che, al Te Deum di fine anno (o fine secolo), chi ci va si portasse un po' dietro anche il signor Likombe. E comunque tutti lo avessimo commensale dopo, il suo gomito invisibile contro il nostro, in rappresentanza degli infiniti altri dispersi: ce lo alleassimo in una speranza non facile, se non altro in un brindisi.

Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links