Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

13 gennaio 2014

Troppe ipocrisie sugli immigrati
Corriere della sera, 13-01-2014
ANGELO PANEBIANCO
La richiesta di Matteo Renzi di inserire la riforma della Bossi-Fini fra i temi del contratto di governo, al di là delle motivazioni del neosegretario del Pd, potrebbe essere una occasione da cogliere per dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione. Dobbiamo solo limitarci a tamponare e contenere i flussi migratori o abbiamo bisogno di interventi più attivi e, soprattutto, più selettivi? Una domanda che diventa possibile se ci si lascia alle spalle le ambiguità e le ipocrisie che hanno fin qui dominato il campo. Le ambiguità dipendono dal fatto che sembriamo incapaci, a causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza (il dovere di accogliere i meno fortunati di noi)? Troppo spesso i due criteri vengono mescolati, l’immigrazione viene giustificata alla luce di entrambi. Se non che, si tratta di criteri fra loro in contraddizione. Ne deriva l’impossibilità di formulare proposte coerenti.
Le ragioni della convenienza sono note: abbiamo bisogno di contrastare l’invecchiamento della popolazione, abbiamo bisogno - almeno se la ripresa economica, come si spera, prima o poi arriverà - di forza lavoro aggiuntiva e di nuovi consumatori. Ma a queste ragioni, ispirate alla convenienza, ne vengono sovente aggiunte altre di diversa natura, di ordine umanitario (le ragioni dell’accoglienza). I piani si confondono rendendo impossibile fare scelte razionali. L’appello all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici (ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati. È la confusione fra il messaggio evangelico e la politica, fra l’universalismo della Chiesa, che parla a tutti gli uomini, e l’inevitabile particolarismo dello Stato che risponde a un insieme definito di contribuenti.
L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della «scarsità »: quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo? Quante risorse possiamo mettere a disposizione dell’accoglienza se la vogliamo decente? A chi e a quali altri compiti toglieremo queste risorse?
L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o «meschino» possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza , della nostra convenienza . Una volta adottato con franchezza ci consente di porci il problema - che altri Stati si sono già posti - di come selezionare gli immigrati. È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali caratteristiche, con quali eventuali competenze? Oggi il problema forse non si pone data l’elevata disoccupazione intellettuale giovanile (che resta grave, anche facendo la tara alle statistiche ufficiali che, fraudolentemente, imbarcano fra i disoccupati anche gli studenti).
Però, domani potremmo avere bisogno di importare mano d’opera qualificata, per esempio in settori tecnici lasciati sguarniti dai nostri giovani. In quel caso, una politica dell’immigrazione lungimirante cercherebbe di attirare quel tipo di mano d’opera a scapito di altri tipi. Considerando inoltre che un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa mano d’opera non qualificata. Oltre una certa soglia, non può assorbirla nei mercati legali, finendo così per favorire quelli illegali, gestiti dalla criminalità. Un effetto collaterale di una politica ispirata alla convenienza è che faremmo star bene anche gli immigrati che accogliamo.
E poi ci sono altre considerazioni che dovrebbero entrare nelle valutazioni di chi decide la politica dell’immigrazione. Per esempio, certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico. Quanto meno, questo dovrebbe essere un legittimo tema di discussione.
Una politica realistica, fondata sulla convenienza, si dovrebbe insomma porre problemi di scelta, di selezione (da monitorare e rivedere nel tempo, alla luce dell’esperienza). Non si tratta di inventare nulla. Altri Paesi hanno già imboccato questa strada.



Il ghetto per immigrati nel cuore di Roma “Dormiamo per terra, senza acqua né luce”
CARLO PICOZZA
Ammassati da tre mesi in un palazzo occupato: ecco i superstiti di Lampedusa  
la Repubblica, 13-01-23014

ROMA - Lampedusa è al civico tre di via Curtatone, Roma centro, insieme con un pezzo d'Africa subsahariana. Nella vecchia sede dell'Ispra, Istituto per la protezione ambientale, più di 450 eritrei, profughi e rifugiati politici per lo più, sopravvivono, con una cinquantina di bambini.
DORMONO in terra, nei corridoi e nelle stanze-ufficio piene di polvere e insidiate dai topi. Asserragliati dietro la cancellata appena nascosta dallo sporco sulla vetrata, si danno il cambio, 40 alla volta, in difesa di quell’avamposto della disperazione nel cuore della capitale.
Giovani e giovanissimi. Sono i sopravvissuti alle traversate del Mediterraneo. Gli scampati ai pericoli delle marce nel deserto, ai maltrattamenti nei centri libici di detenzione, ai soprusi degli scafisti, hanno fatto i conti con l’accoglienza italiana, «segregati per mesi in condizioni inumane», racconta uno di loro.
Si sapeva dell’insediamento di 500 eritrei ed etiopi al Collatino, in un palazzo abbandonato dal ministero del Tesoro. Si era detto, visto e scritto, dopo le sanzioni dell’Europa all’Italia, dei mille tra eritrei, etiopi, somali e sudanesi che alla Romanina, in uno stabile malmesso e pericolante dell’Enasarco, vivono da anni tra infiltrazioni d’acqua e mura cadenti. E si conosceva la baraccopoli tirata su da un centinaio di eritrei ed etiopi a Ponte Mammolo. Ma ora spunta, nel cuore di Roma, un altro ghetto per migranti. Viene alla luce con un blackout provocato da qualcuno che, entrato negli interrati dal tombino di una strada vicina, ha tagliato i cavi nella cabina dell’azienda elettrica comuna-le, interrompendo il flusso di energia al palazzo. Così, da cinque giorni, quei migranti vivono senza luce e senza l’acqua delle vasche alimentate dalle pompe dell’autoclave, in condizioni disumane.
«Siamo vivi; è quanto basta», dice Yohanns Mhretaab, 23 anni sbarcato a Lampedusa nel maggio 2011 con altri 250 dannati della terra e del mare. «In quattro giorni di navigazione sono morti tre bambini e un giovane », racconta. «Avevo già provato nel 2009 ad approdare in Sicilia, sborsando sempre un migliaio di euro agli scafisti, ma, con gli altri, sono stato subito respinto in Libia su una nave italiana ».
Da tre mesi e mezzo vivono lì, a due passi dalla stazione Termini. «Abbiamo un tetto, ora — dice Selam H. — ho dormito in strada per più di un anno». «Per mangiare andiamo alla mensa della Caritas, in via Marsala, vicino Termini o in via degli Astal-
li, dalle parti di piazza Venezia». «All’inizio — racconta don Mosè Zerai, il sacerdote eritreo presidente di Habeshia, l’agenzia che si occupa di assistenza ai rifugiati africani — l’immobile è stato occupato da un gruppo consistente di eritrei insieme al Coordinamento di lotta per la casa. Poi i migranti, con i movimenti per il diritto all’abitare, hanno sollecitato un incontro con il Comune e avviato un confronto con la prefettura». Giorni fa è arrivata la rassicurazione: «Restate lì in attesa di una sistemazione idonea».
Qualche ora dopo lo stabile è rimasto al buio. Un blackout per l’intero quadrante urbano c’era già stato. «È intervenuta l’Acea che ha riparato il guasto», ancora don Zerai, «ma nel palazzo di via Curtatone la luce non è più tornata». «Spero», dice, «che si trovi presto una sistemazione dignitosa e sicura per quelle famiglie ». «Anche questo insediamento », aggiunge Emilio Drudi, collaboratore dell’Agenzia Habeshia, «è il risultato degli ultimi vent’anni di disinteresse: mancano una legge sul diritto di asilo e un sistema di accoglienza adeguato».
Già, l’accoglienza. Osservarli lì che, a decine, con buste stracolme di cenci, mano nella mano dei piccoli, arrancano per le scale buie già nel primo pomeriggio di una domenica uggiosa, richiama le immagini che sotto le feste il Tg2 ha trasmesso dal Centro di identificazione ed espulsione di Lampedusa. «Si sono dimenticati di noi», si sfoga un ventenne. È un sopravvissuto al naufragio del 3 ottobre, alla strage di quasi 400 vite. È spaesato e impaurito. Per parlare esce e, sotto i fari della banca vicina all’ingresso del palazzo, confida: «Sarebbe stato bello avere ancora luce e acqua, ma stiamo meglio qui che nel nostro Paese perché non abbiamo perso la speranza di una vita migliore».



Gli sbarchi non si fermano già 1.500 da inizio anno    
la Repubblica, 13-01-23014
ROMA — Nonostante il freddo e il maltempo, continua l’ondata di sbarchi di migranti provenienti dalle coste africane. Dall’inizio dell’anno sono già 1500 gli stranieri arrivati nel nostro Paese. Sabato ne sono stati soccorsi 236 su un barcone, mentre un’altra imbarcazione con 200 clandestini a bordo è stata avvistata ieri a sud di Lampedusa. Ma c’è anche chi cerca di raggiungere le nostre coste in barca a vela. Come i 12 migranti (sette siriani e 5 pachistani, tra cui anche una ragazza in avanzato stato di gravidanza), soccorsi ieri dalla Guardia costiera a sud di Gallipoli. Per far fronte all’emergenza, il Viminale ha fatto partire una circolare indirizzata a tutti i prefetti per individuare nuove strutture per l’accoglienza temporanea e il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha istituito una task force che ispezionerà i vari centri per valutarne le condizioni.



Da migranti a detenuti
Dentro il «carcere» di Pozzallo
l'Unità, 12-01-2014
Flore Murard-Yovanovitch
Il caso del Centro di primo soccorso e accoglienza (Cpsa) di Pozzallo è esemplare. Collocato nel porto, in una zona franca, il capannone doganale si erge dietro un ulteriore recinto di barriere, cancelli e filo spinato. A fronte di una capienza massima di 130 posti, il centro il 7 novembre scorso «ospitava» oltre 400 migranti (una costante per tutta l’estate 2013) oggi, invece, circa 250. Per alleggerire la capienza, nei mesi di ottobre e novembre scorso era stata persino allestita una «dependance» del centro, nella palestra di Pozzallo, - 200 profughi nelle aule - cosa che suscitò molte polemiche.
Un sistema di accoglienza che avrebbe dovuto soddisfare esigenze di transito solo per 24-72 ore e che invece è stato utilizzato per limitare la libertà personale o la libertà di circolazione dei migranti appena sbarcati per tempi che hanno anche superato i due mesi. Ed ancora il mese scorso una parte dei migranti accolti nella tendopoli del PalaNebiolo a Messina, veniva ricondotta nella Palestra di Pozzallo per la cronica assenza di posti nei veri centri di accoglienza del sistema Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) o Sprar (Servizio per la protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati).
Nel Centro di Pozzallo, non c’è una mensa, il pranzo - lo si fa seduti sui materassi o in fila nel cortile. Non funziona il servizio di lavanderia, né quello di barberia, nessuna privacy dei lavandini e carenti condizioni igieniche. Il dormitorio, un’immensa aula di 400 materassi sporchi e sfilacciati buttati a terra, senza lenzuola, dove uomini di tutte le età e provenienze, persino donne e minori, dormono insieme, testa piede in un inenarrabile promiscuità. Il reparto femminile (che esisteva nel 2011) è scomparso. Donne e minori non accompagnati giacciono in mezzo a uomini sconosciuti. Di notte non si dorme, tra tafferugli, grida e musica.
Esseri umani ammucchiati, ridotti a corpi sorvegliati da telecamere di sorveglianza controllate dall’ufficio del direttore del centro e guardati a vista dalla polizia presente 24 ore su 24 in garitte trasparenti piazzate nei luoghi di riposo. Le minime esigenze di privacy sono costantemente violate.
Il centro di Pozzallo manca soprattutto drammaticamente di un servizio di tutela legale e di orientamento a rifugiati e potenziali richiedenti asilo. Un unico mediatore in lingua araba per 200 migranti, nessuno per l’inglese, In quella estrema sponda della Sicilia sud-orientale, dove sbarcano non tanto migranti economici, ma profughi in fuga da conflitti: Etiopi, Eritrei, Somali, alcuni dei quali detenuti per mesi o anni nei famigerati lager libici e scappati imbarcandosi a costo di naufragare. Ed eccoli qua, quei soggetti vulnerabili, senza tutela legale né corretta informazione sul loro statuto, sulle loro richieste, sui loro diritti.
Come unico «documento», i braccialetti di plastica al polso con il codice di identificazione che serve per avere cibo o ricariche. Quella cifra che ha preso il posto del tuo nome, e identità. «Cosi ti chiamano nel centro: K68», ci dice Mohammed, un ventenne eritreo.
In una stanza più interna, erano rinchiusi quelli non identificati o quelli non si vogliono fare identificare. Uso dei manganelli, anche elettrici, prelievo coatto delle impronte digitali in un luogo fuori dal monitoraggio di associazioni indipendenti ed avvocati.
Degli abusi all’interno del centro non si ha più testimonianza da fine settembre (dopo il cambiamento dell’allora Vice-Questore di Ragusa). Prima della fine dell’estate, alcuni profughi intervistati fuori dal centro, raccontavano di pestaggi e persino di una stanza speciale – dove si realizzava una forma di «sequestro» interno al centro, dove senza pasto ne tutela erano rinchiusi presunti scafisti o persone che si erano ribellati all’identificazione ed al prelievo forzato delle impronte.
I volontari e l’ente gestore non hanno altra sigla o nome da dichiarare che quelli del Comune di Pozzallo. Lo standard di accoglienza, ai minimi e al di sotto di tutti standard internazionali, viola anche vari articoli del Capitolato di appalto (per la gestione dei Cpsa del novembre 2008). La tutela sanitaria è al limite: due medici convenzionati dal centro di cui uno anche medico autorizzato dalla Capitaneria per i controlli sanitari a bordo delle nave (cioè impegnato negli numerosi sbarchi), a rotazione. Nessuna assistenza psicologica e post-traumatica per profughi che hanno sofferto traumi.
Decisamente fuori dalle regole i tempi di permanenza, che sono lunghissimi, da uno a tre mesi. Mentre una struttura come un Cpsa in base al regolamento attuativo della legge sull'immigrazione (art.23) sarebbe «destinata all’accoglienza dei migranti per il tempo strettamente occorrente al loro trasferimento in altri centri (indicativamente 24/48 ore)».
Quello che avviene a Pozzallo non è molto differente da quello che accade a Lampedusa, dove gli ospiti del centro sono dei veri e propri reclusi, e dove in passato la struttura si è caratterizzata per aver trattenuto decine di minori non accompagnati, egiziani e somali, detenuti per i ritardi delle procedure di asilo, la lentezza delle Commissioni territoriali, e per la mancanza di posti in altre strutture di accoglienza dello Sprar (il sistema di protezione per i domandanti asilo e i rifugiati).
Anche a Pozzallo è un limbo totale. Donne, somale, accasciate lunghe ore, sui materassi, incontrate lo scorso 4 settembre sono lasciate mesi al buio sul proprio futuro. Nessun che abbia pronunciato la parola «asilo». Alì, un rifugiato dal Darfur aggiunge, «“Ricevi cibo di cosa ti lagni?”, ci dicono gli dentro: non hanno nessun idea che non veniamo per migliorare la vita in Italia ma che siamo sfuggiti per salvarci la pelle». Altri, come gli eritrei invece non avrebbero voluto fare la richiesta d’asilo in Italia, perché hanno parenti in altri paesi europei. Jamal: «Non pensavo che sarei stato testimone di discriminazioni razziali in una paese democratico».
Questo il Centro di Pozzallo: fino a ieri, circa duecento cinquanti profughi e potenziali richiedenti asilo, che come in altri centri vengono confinati mesi in un luogo di trattenimento informale diventato di fatto di segregazione. Nel silenzio di tutti. Non solo a Lampedusa dunque l’accoglienza si trasforma in detenzione (spesso su base razziale).



Immigrati: naufragio Lampedusa, in aula il racconto degli stupri e delle torture
Focus, 13-01-2014
Palermo, 13 gen.- (Adnkronos) - Arrivano per la prima volta in un'aula di giustizia i racconti agghiaccianti degli stupri e delle torture subiti da un gruppo di profughi superstiti del naufragio del 3 ottobre 2013 in cui morirono, davanti alle coste di Lampedusa, 366 immigrati. Sette eritrei sono arrivati al Tribunale di Palermo dove e' iniziato pochi minuti fa l'incidente probatorio nel procedimento contro Mouhamud Muhidin, un 25enne ex guerrigliero somalo, arrestato con l'accusa di tratta di essere umani. L'uomo e' accusato di avere fatto parte di un gruppo di criminali che hanno sequetrato nel deserto tra la Libia e il Sudan una cinquantina di profughi che poi avrebbero raggiunto le coste libiche per raggiungere Lampedusa. In aula, nel nuovo Palazzo di giustizia, c'e' anche l'imputato, cicondato dalle guardie penitenziarie. Nessuno sguardo con i sette suprstiti, tutti giovanissimi, tra cui una ragazza di appena 18 anni, stuprata e torturata durante il sequestro. Il gip Giangaspare Camerini sta ascoltando i profughi grazie a un'interprete tigrina che traduce in italiano.



Islam a scuola? Meglio un’ora (unica) di religioni
In Austria e a Francoforte, per arginare l’estremismo, i bimbi musulmani studiano il Corano in classe. E in Italia? Branca (Università Cattolica): «Sbagliato dividere cristiani e islamici. Impariamo insieme le diverse fedi»
Corriere della sera, 13-01-2014
Alessandra Coppola
Il precedente è austriaco, e funziona da anni: corsi per insegnanti di religione islamica nella scuola pubblica. Il progetto-pilota dell’Assia, in Germania, raccontato qualche giorno fa dal «New York Times» – che detta gli argomenti anche agli europei – è una realtà già praticata e diffusa su scala nazionale alle porte dell’Italia, appena oltre il Brennero.
MODELLO AUSTRIACO - Ay?egül Dinckan-Yilmaz, 31 anni, origine turca, è una delle formatrici all’IRPA(in inglese MTTC – Muslim Teachers Training College ). L’Istituto conferisce una regolare laurea in Istruzione, spiega Ay?egül, e dipende dal Consiglio islamico dell’Austria, organismo ufficialmente riconosciuto da Vienna. Per intendersi: i docenti sono pagati dal ministero della Pubblica istruzione. Corsi di teologia islamica, ma anche di pedagogia, didattica e legge. «Durante la pratica – continua –, i nostri studenti cominciano a lavorare con bambini di diverse origini etniche. Gli stessi studenti hanno provenienze varie: molti dalla Turchia, ma anche dai Balcani e dal mondo arabo». In 500 già sono in cattedra, distribuiti per i 50 mila alunni musulmani del Paese: «Sono sempre di più gli allievi che si iscrivono a questi corsi. Ai ragazzi è data la possibilità di imparare la loro religione da specialisti in lingua tedesca e possono usare questa conoscenza per parlare di Islam in tedesco anche con i loro vicini». Enfasi sul dialogo interreligioso: «Abbiamo varie collaborazioni e scambi di docenti, per esempio con l’Istituto di formazione delle chiese cristiane di Vienna».
SITUAZIONE IN ITALIA - Immaginabile in Italia? È un modello che si può importare? Il professor Paolo Branca, studioso di Islam della Cattolica di Milano e tra i più noti in Italia, spesso consulente del governo, un’idea di quel che si potrebbe fare da questa parte delle Alpi ce l’ha: «Trasformare l’ora di religione in una lezione sulle religioni». In sintonia con una popolazione scolastica che da tempo non è più omogenea: molti i musulmani, ancora di più gli ortodossi. «La realtà si sta già muovendo da sola in questa direzione». Il 15 per cento dei genitori islamici a Milano non chiede l’esonero per i figli e nella pratica molti insegnanti armati di buona volontà tentano di valorizzare le diversità che incontrano in classe. Di ridiscutere l’ora di religione nel nostro Paese, però, non se ne parla.
IL RISCHIO ESTREMISMO - E dell’ipotesi di affiancare alle lezioni di cattolicesimo quelle sull’Islam? La spinta al progetto di Francoforte nasce anche dal timore di emarginazione e radicalizzazione dei giovani musulmani. Il caso di una cellula terroristiche turco-tedesca nel 2007, l’allarme dei servizi segreti sul proselitismo salafita, le più recenti segnalazioni di volontari partiti dalla Germania per partecipare al jihad in Siria. Non sono vicende del tutto lontane dall’Italia, e da tempo studiosi come Branca segnalano la necessità di accompagnare la crescita dell’Islam, di non abbandonarla agli scantinati e ai predicatori più estremisti, per evitare deviazioni pericolose. Chi però da noi potrebbe formare gli insegnanti di religione se non esistono istituti superiori di studi islamici e se nelle moschee non c’è personale qualificato in grado di farlo?
L’ORA DI «RELIGIONI» - La questione allora riguarda l’approccio complessivo della cattolica Italia alle confessioni altre. Quanto alle scuole, dal momento che è tutto da inventare, il professore torna sull’idea iniziale e suggerisce di non dividere gli alunni per tradizione religiosa - i cristiani da una parte, i piccoli islamici da un’altra , «sarebbe un passo indietro» -, invitando piuttosto a prendere in considerazione uno studio delle religioni che tenga insieme tutti gli italiani, di ogni fede, fin dalle elementari.



Da Masterchef a Masterpiece: il talento dei “nuovi italiani” per la tv
Corriere.it, 13-01-2014
Roberta Scorranese
Nikola Savic, 36 anni, nato a Belgrado ma residente in provincia di Venezia: finalista a Masterpiece, il talent letterario di Rai 3 che mette in palio la pubblicazione di un romanzo inedito con Bompiani (qui il blog del Corriere che prende spunto dalla trasmissione). Jelena Kuznecova, 27 anni, nata in Lettonia ma residente a Granarolo, anche lei finalista a Masterpiece (a destra nella foto). Elhaida Dani, nata in Albania, vincitrice del talent canoro di Rai 2 The Voice of Italy. E si potrebbe continuare con Rachida (a sinistra), star di questa edizione di Masterchef. O con Haeri, l’altra finalista alla gara culinaria di Sky. E così via.
    Il talento di casa nostra insomma mescola le carte e fa emergere i «nuovi italiani», che adesso conquistano medaglie non più solo per una diligente preparazione scolastica, ma anche nelle competizioni dove occorre una padronanza estrema della lingua (italiana, beninteso) o dei segreti in cucina. Perché l’arte è quell’alchimia indicibile tra rigore tecnico e imprevisto.
L’innesto con il nostro Paese insomma sembra maturo, in fioritura. Con risvolti interessanti per la nostra cultura. Prendiamo il caso di Masterpiece: nel commentare la scrittura di Nikola, il premio Strega 2013 Walter Siti ha parlato di «una scrittura attenta all’espressività, allo scorrere del tempo, alle trasformazioni del protagonista». Calibrata, efficace anche se in ebollizione.
    Eccola (in un passo del suo romanzo inedito Vita migliore): «Snezana ha i capelli castano chiaro e lunghi fino al culo ed è più grande di me solo di sei mesi, ma va in terza perché io ho cominciato con sette anni piani e lei invece con sei. Non vedo nessuna somiglianza con Buglia e la sua faccia serenamente schifata».
Anche per Jelena e per la sua storia Come un déja vù si è parlato di «una voce fresca, lineare, accurata». Niente male per una che l’italiano lo ha dovuto imparare in ritardo rispetto ad altri coetanei che qui in Italia sono nati. Eppure, il segreto di questo successo sarebbe proprio questo «scarto», questa imprecisione nella norma linguistica, quest’ansia di raccontare qualcosa, che, forse, manca a chi la lingua la conosce così bene da essersene annoiato.
Anche per la 47enne Rachida, madre di due figlie e sarta a Sorisole, in provincia di Bergamo, il quid sta in una frenesia malcelata, un’emotività scaturita anche da una inadeguatezza (forse, a nostro avviso, un po’ troppo rimarcata dagli autori del programma, tanto da sfiorare la caricatura).
Dunque la non-italianità come valore aggiunto, come iniezione di una vitalità doppia? Può darsi.
    Quel che è certo è che partorisce libri, voci, personaggi interessanti.



Il pediatra per i figli di immigrati irregolari
La copertura fino al 14° anno di età. Per il nuovo servizio stanziato un milione di euro
La Nuova Ferrara, 12-01-2014
Il pediatra di libera scelta ora può essere scelto anche per i bambini figli di immigrati senza permesso di soggiorno. L’indicazione del nominativo ha validità annuale dal momento dell’iscrizione ed è rinnovabile di anno in anno fino al compimento del 14° anno di età, purché il bambino sia presente nel territorio regionale.
La novità è stata introdotta da una delibera della giunta regionale dell’Emilia-Romagna in attuazione dell’Accordo Stato-Regioni del 20 dicembre 2012 «che prevede a carico delle Regioni - spiega un comunicato dell’Emilia Romagna - la realizzazione di iniziative più efficaci nel garantire alle persone straniere presenti sul territorio nazionale uniformi percorsi di accesso e di erogazione delle prestazioni sanitarie». L’accordo indica l’iscrizione obbligatoria al Servizio sanitario regionale per i figli minori presenti sul territorio e la possibilità che le Regioni possano prevedere l’assegnazione del pediatra di libera scelta.
Le eventuali prescrizioni del pediatra - viene precisato - si applicano alle prestazioni sanitarie effettuate esclusivamente nelle strutture sanitarie pubbliche dell’Emilia-Romagna e all’assistenza farmaceutica.
Per finanziare l’accesso la Regione ha stanziato circa un milione.
Sempre in riferimento all’accordo del 2012, la delibera stabilisce nei confronti dei cittadini comunitari che hanno la residenza anagrafica in Emilia-Romagna, in alternativa al contratto di assicurazione sanitaria, la possibilità di iscriversi al Servizio sanitario attraverso il versamento di un contributo.
L’iscrizione ha validità annuale, dall’1 gennaio al 31 dicembre, non è frazionabile e non ha decorrenza retroattiva.
Per i cittadini comunitari iscritti ad un corso di studio, ai fini dell'iscrizione volonta

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