Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

20 settembre 2010

Svezia shock, xenofobi in Parlamento
Il Messaggero, 20-09-2010
Stefano Marinone
Gli estremisti superano lo sbarramento, il centro-destra vince ma non ha maggioranza
Dopo Olanda. Belgio (e non solo), l'ondata razzista e xenofoba che sta investendo l'Europa, si è abbattuta
anche sulla democratica, pacifica e tollerante Svezia. I risultati delle elezioni politiche di ieri parlano chiaro: per la prima volta nel Parlamento che ospitò Olof Palme, entra il partito dell'ultradestra, autodefinitosi "Democratici
di Svezia",(Sd).
Hanno conquistato, secondo dati parziali, il 6,2%,  superando   largamente lo sbarramento
Le elezioni sono state vinte, secondo le previsioni, dal centrodestra del primo ministro Frederik Reinfeldt, ma la sua coalizione "Alleanza" ha ottenuto solo il 48.8% dei voti, sfiorando appena la maggioranza che le avrebbe permesso di formare da sola il governo. Reinfeldt ha visto comunque premiato il suo esecutivo: i dati più recenti infatti mostrano una crescita dell'economia dell'1,9 per cento nel secondo quadrimestre (+ 4,6 per cento rispetto all'anno precedente) e una contrazione della disoccupazione. La corona si è decisamente rafforzata negli ultimi mesi e si calcola che a fine 2010 il rapporto deficit/Pil sarà del 2,1%, ampiamente al di sotto della soglia del 3% stabilita dall'Unione europea.
Escono sconfitti i socialdemocratici e i loro alleati, che si sono affidati a una donna, Mona Sahlin. per recuperare il primato perduto quattro anni la: si sono fermati al 43,7%. Durante la campagna elettorale avevano denunciato come l'uscita dalla crisi economica guidata dal centrodestra avesse comportato pesanti tagli al welfare. Non è bastato a convincere gli elettori.
A questo punto, non avendo nessuna delle due coalizioni ottenuto la maggioranza assoluta, l'estrema destra diventa o potrebbe diventare determinante per la formazione di un governo. Ma sia il centro sinistra che il centro destra hanno garantito in campagna elettorale che non avrebbero mai formato una coalizione con l'Sd. «Non li toccherei nemmeno con le pinze» ha ripetuto più volte il premier Frederik Reinfeldt. Ma intanto il trentunenne Jimmi Akesson, il leader dei Democratici di Svezia, non si dispera. Anzi ha già annunciato la sua strategia. «Per il semplice fatto di trovarci in parlamento. li spaventeremo e li costringeremo ad adattarsi. Vogliamo essere i giullari di corte così che gli altri partiti adottino le nostre politiche», soprattutto in fatto di immigrazione. «L'Islam - ha tuonato nei giorni scorsi - è la più grande minaccia straniera perla Svezia dai tempi della Seconda   Guerra
Mondiale». E ancora: "L'immigrazione di massa sta corrodendo il nostro welfare, la nostra priorità è chiara, ripristinare lo stato sociale svedese».



L'intervista - Jimmie Akesson, 31 anni, gessato grigio: «Immigrazione problema europeo»
«Basta dire che siamo razzisti Per gli stranieri non c'è più posto»
Corriere della Sera, 20-09-2010
Paolo Salom
Il leader della destra: «Ora la smetteranno di trattarci da paria»
STOCCOLMA — «Ora? Ora  dovranno smetterla di trattarci da paria e cominciare invece ad ascoltarci». Jimmie Akesson, 31 anni, leader dell'estrema destra parla con calma. Gessato grigio, camicia scarlatta aperta sul collo, non sembra patire i rigori del precoce autunno scandinavo. E soddisfatto: ha guidato un manipolo di Democratici svedesi in Parlamento per la prima volta. Vincente la sua scelta di «ripulire» il partito dagli elementi più impresentabili (vicini alle tesi neonaziste o alla superiorità ariana). Con qualche ammiccamento inevitabile, come lo spot tv che, per giorni, ha mostrato una vecchina (bianca) aggrappata al suo girello travolta, mentre si reca a ritirare la pensione, da un gruppo di giovani musulmane in burqa e con le carrozzine colme di infanti. Spot riuscito e adesso Akesson—novello Martin Lutero — è pronto a declamare le sue «tesi» per riformare la politica nazionale. L'altro giorno ha affisso simbolicamente le «99 richieste» dei Democratici svedesi all'ingresso del Rik-sdag. Ritiene che il suo partito avrà la forza di cambiare gli equilibri in Parlamento?
«Penso di sì. Certo ora le due principali alleanze che fanno capo ai moderati e ai socialdemocratici dovranno ascoltare quello che abbiamo da dire».
A cosa si riferisce?    ,
«La politica sugli immigrati deve cambiare: non si può più andare avanti così. Basta vedere cosa accade nel resto d'Europa. Qui in Svezia siamo messi anche peggio: in percentuale sulla popolazione abbiamo probabilmente il tasso più alto di stranieri».
Lei ha detto che «l'Islam è la minaccia dall'estero più grande per la Svezia dai tempi della Seconda guerra mondiale» e per questo il suo partito è considerato xenofobo e razzista...
«Non siamo razzisti, non siamo xenofobi. Tutti quelli che avevano posizioni estremiste sono stati da tempo invitati a lasciare il partito. Noi vogliamo semplicemente che l'immigrazione sia limitata in un Paese dove la disoccupazione è al
9%. Anche perché tra gli stranieri il tasso è doppio: che senso ha continuare a farli arrivare?».
Molti sono rifugiati da Paesi in guerra...
«E da noi pesano sul welfare, contribuendo ad affossarlo. Noi vogliamo ripristinare il vero welfare svedese, vogliamo che gli svedesi senza lavoro tornino a guadagnare».
Ma i lavori riservati agli stranieri gli svedesi da tempo non li vogliono più fare: netturbini, badanti, taxi¬sti...
«Ora la concorrenza degli stranieri è insuperabile, perché accettano stipendi più bassi. Ma gli svedesi torneranno a cercare quei lavori, anche perché intendiamo cambiare le regole dei sussidi di disoccupazione, rendendoli più difficili da ottenere».
Ritiene di poter entrare in un governo con i moderati?
«Tratteremo il nostro appoggio. Vogliamo che gli altri partiti cambino la loro politica. Quello che conta è che ormai la nostra agenda è diventata l'agenda nazionale. Se non questa volta, al prossimo giro saremo al governo: è una promessa».



Il senso di colpa che ci spinge a essere o parere così buoni

Il Foglio, 20-09-2010
Che cosa vogliamo vendicare quando parliamo in libertà di deportazione di un'etnia nell'Europa di oggi? Da quale segreta pulsione viene questo linguaggio offensivo dell'intelligenza, della morale e dell'onore, che riempie della tragica memoria della Shoah l'aria vuota della retorica umanitarista? Si tratta di 1700 rimpatri via aerea con rimborso, effettuati per smantellare campi abusivi in un paese abitato da 400.000 rom assistiti dal sistema di welfare, gruppi di zingari sono andati in Francia da altri paesi per avere un passaggio pagato verso i paesi d'origine: è un sacrificio genocida, è lo sterminio rituale e industriale d'un popolo in nome del razzismo biologico, di una pretesa di superiorità negatrice di Dio? Come è possibile che gente in perfetta buona fede, e non stupida, porti fino al grottesco più deformato quella che dovrebbe essere una calma e razionale visione delle cose?
Si può abortire un bambino al mattino e piangere sul destino degli zingari la sera? Si può assistere moralmente sordi a un sacrificio umano di quelle proporzioni, milioni di aborti che inseguono altri milioni di aborti, e bonificare la propria anima con la sollecitudine per i nomadi? Sì può provare commozione per i respingimenti dei migranti quando respingere, abbandonare, negare, oltraggiare le attese di carità e di amore è diventato il tran tran del modello moderno prevalente di famiglie e coppie e amori in cui la ricerca soggettiva del piacere è l'unica regola? Si può cercare Cristo nei povericristi, e la persona umana nel nomadismo martire, quando il racconto cristiano è irriso e marginalizzato nelle idee, nella cultura, nella comunicazione via radio, tv e giornali?
Insomma: c'è una sproporzione a suo modo eloquente, ma che rende necessaria una spiegazione del fenomeno, tra il cinismo su una natura umana considerata senza legge, senza protezione di diritti non negoziabili, e il ghigno umanitario con il quale le classi dirigenti di mezza Europa esprimono lo sdegno per un lapsus etnieista in una circolare ministeriale del governo di Sarkozy,
La sacrosanta condanna del razzismo prende toni ipocondriaci, si allarga alla proibizione di nominare in un qualunque senso popoli, costumi, tipicità, che in tutto si vede il germe della violazione dei diritti umani universali. Se dici che gli zingari sono strepitosi suonatori di violino, sei già un razzista. Se mostri predilezioni nazionali, sei fuori dallo schema asettico di un'Europa algida, afasica, senza radici, che si riconosce nelle direttive della Unione più che nella sua ritrattistica letteraria, nei suoi proverbi, nelle sue verità ancestrali, nel suo passato.
Solo un immenso senso di colpa può spiegare l'ottusità umanitaria dilagante. Abbiamo l'oscura percezione dì un limite superato. Newman diceva che il cristianesimo sopravviverà finché ci sarà una natu¬ra umana. E proprio quella natura sembra essere messa in discussione nel parco buoi dell'ingegneria genetica, nelle nuove abitudini riproduttive e nell'idea stessa di "salute riproduttiva e sessuale". In cambio di tanta discesa agli inferi, cerchiamo nella benevolenza che non costa, perché spesso a spese di poveracci delle periferie urbane, una compensazione psicologica e morale. Gli zingari deportati, appunto.



Ritrovare un'identità unitaria per confrontarsi con l'Islam

L'Occidente e il mondo musulmano
Corriere della Sera, 20-09-2010
ANTONIO PURI PURINI
Se l'Europa si perde in una sgradevole    rissa sull'espulsione dei rom, le sarà difficile rivolgersi in maniera unitaria al mondo musulmano. Sarebbe un'occasione persa mentre incombe la minaccia di un pericoloso conflitto cultura le fra l'Islam e l'Occidente. Il fuoco che cova sotto le ceneri è alimentato da diversi fattori: l'irrisolto conflitto israelo-palestinese, i risentimenti antiamericani provocati dalla guerra in Iraq, le incertezze sull'Afghanistan e sul Pakistan, l'esistenza di fanatismi speculari nel mondo islamico e nel mondo occidentale e, ovviamente, la crescente presenza islamica nel nostro continente. L'interesse alla stabilità e alla convivenza dovrebbe stimolare i pilastri dell'Occidente, Stati Uniti ed Europa, a contribuire, ognuno per la propria parte, al risultato comune. L'Europa non può sostituirsi agli Stati Uniti in Medio Oriente ma potrebbe definire una posizione univoca sull'Islam. Eppure, l'Europa rimane divisa. I singoli governi agiscono con ottiche nazionali — ad esempio sul divieto del burqa — prive di spirito unitario. I richiami al dialogo intercultu¬rale, gli appelli alla moderazione dei capi islamici in Europa, i segnali sull'adesione della Turchia all'Unione Europea, i rimpianti (spesso ipocriti) per l'omissione delle radici cristiane nel trattato di Lisbona sono argomentazioni fiacche. Ci vuole altro per definire una posizione comune; per affrontare insieme la sfida dell'integrazione delle comunità musulmane; per rendere credibile un'identità europea; per chiarire la differenza fra società multietnica (che la tutela) e società multiculturale (che la dissolve). Il mondo musulmano preme alle porte dell'Europa. È un fatto demografico ed economico. Ma non è detto che tutto debba andar male. L'Unione Europea deve però dimostrare di non essere esangue e spiegare con spirito laico che non è uno spazio vuoto dove tutti possono fare il proprio comodo ma una comunità retta da valori e regole, che il rispetto reciproco è una componente essenziale della cultura europea, che la tolleranza è nell'interesse dei musulmani. Un'azione di questo genere presuppone un'impostazione e una forte volontà basata sul rispetto della Carta dei diritti fondamentali, parte integrante del Trattato di Lisbona. Presuppone anche l'adozione di politiche comuni impegnative che vanno dal controllo delle frontiere esterne a programmi di vera e propria integrazione degli immigrati. Ci vuole anche orgoglio: da sola, la presenza (necessaria) del crocifisso nelle aule scolastiche non impedirà che un'immigrazione priva di briglie arrivi ad alterare la nostra identità comune.
Ma vì sono due questioni ancora più importanti. La convivenza fra Occidente (in questo caso l'Europa) e Islam può riuscire solo se l'Europa terrà conto del sentimento della gente comune e se avrà coscienza della propria vocazione unitaria. Il normale cittadino possiede un senso istintivo dei confini dell'Eurpa, ne paventa il dissolvimento in uno spazio allargato a nuovi e imponenti insediamenti musulmani; non capisce perché la pacificazione con l'Islam, di cui l'adesione della Turchia sarebbe un simbolo, debba venire sperimentata sulla propria pelle. Le famiglie Dupont, Muller, Rodriguez, Rossi cercano stabilità e sicurezza, seguono con sgomento i litigi fra i capi di governo dell'Unione Europea e la mancanza di europeismo su questioni dove l'unità dovrebbe essere essenziale. Non si fidano della politica; esitano pertanto a porre questioni delicate nelle mani di dirigenze percepite come prive di autorevolezza. La definizione del rapporto con l'Islam comporta anche la necessità di prendere sul serio la questione dell'identità europea. I nostri Paesi hanno di fatto cancellato la storia e la storia dell'arte dagli adempimenti scolastici; la televisione, sotto la pressione degli interessi commerciali, ha abbandonato la salvaguardia della memoria storica; gli stessi nuovi mezzi di comunicazione si configurano sulle esigenze del futuro e ignorano il passato; antichi paesaggi naturali e urbani vengono distrutti con spregiudicatezza; la politica offre spesso uno spettacolo miserando. Senza memoria storica, capacità di riconoscere essenziali simboli e segni ereditari, sostanza nell'azione di governo sarà impossibile aggiungere alle singole e fiaccate fisionomie nazionali una comune identità europea. Rischia di rimanere solo il consumismo.
In queste condizioni, è chiaro perché i motivi ispiratori di una grande politica sono assenti e perché molti governi sono riluttanti ad affrontare temi che imporrebbero adempimenti scomodi e inediti. Ci vogliono grandezza morale per rivolgersi al mondo musulmano come a una civiltà e chiarire che cosa si pretende da loro, coraggio politico (ad esempio la Germania) per cogliere le implicazioni problematiche dell'adesione della Turchia all'Unione, sensibilità culturale per riproporre, nelle scuole e nella televisione, un nuovo umanesimo che esprima un'autentica fierezza europea. Se dovesse accontentarsi dell'attuale basso profilo, l'Europa rimarrà incapace di lanciare un messaggio credibile all'Islam e si nasconderà dietro politiche che renderanno ancora più opaca la convivenza con il mondo musulmano.



Parte la nuova settimana degli sgomberi ma nessuno aderisce ai servizi sociali

Dnews, 20-09-2010
Demoliti finora una decina di insediamenti illegali
Una corsa contro il tempo per sgomberare 209 campi abusivi. Ma a distanza di un paio di settimane dall'inizio degli sgomberi degli insediamenti irregolari, soltanto una rom ha aderito ai servizi sociali offerti dal Comune di Roma, Il resto ha fatto i bagagli e adesso vaga per le strade della Capitale, pronta a ricostruire le baracche abbattute in un altro luogo, A Roma la prefettura ha censito 209 insediamenti abusivi. Il 27 agosto scorso, a seguito della morte di un
bimbo di tre anni in un campo della periferia, sono partite le prime demolizioni, Aì rom vengono offerti alloggi temporanei in residence, ma i capifamiglia temendo la disgregazione dei nuclei familiari preferiscono trasferirsi in altri campi. Il piano del sindaco Alemanno prevede dai 12 campi attrezzati fuori dal raccordo anulare per un massimo di 6mila posti. Un problema, visto che i rom censiti da Opera nomadi nella Capitale sono oltre settemila,



Dialoghi Luigi Cancrini
PRIMO MOIOLI
Lo spettro del razzismo
l'Unità, 20-09-2010
Niemoller e/o Brecht: «prima vennero per i comunisti, e io non dissi nulla perché non ero comunista; poi vennero per gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo; poi vennero per gli omosessuali, e io non dissi nulla perché non ero omosessuale. Poi vennero a prendere me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa».
RISPOSTA ??? Dice Barroso a Sarkozy (e a Berlusconi e a Bossi) che l'espulsione di un cittadino comunitario è possibile sulla base di motivazioni che lo riguardano in quanto persona non in quanto appartenente ad una religione o ad una razza, È il principio su cui si è costituita l'Europa. È il principio su cui si è definita la cultura giuridica dell'occidente dopo la seconda guerra mondiale seppellendo, allora si pensava che sarebbe stato per sempre, gli orrori dell'olocausto. Ricordare ora che non furono solo gli ebrei ad essere perseguitati ma anche i Rom oltre che i pazienti psichiatrici e i disabili è perfino banale. Quello che si sente di nuovo mentre parlano Sarkozy, Berlusconi e Bossi, tuttavia, è di nuovo il tentativo di attribuire la colpa della difficoltà di un paese a un nemico esterno, ad una minoranza da odiare e da perseguitare. Strumentalizzando il disagio dei più semplici fra gli elettori e dando corpo al timore di Primo Levi sul perdersi della memoria. La lezione dell'olocausto, purtroppo, uomini presuntuosi e modesti come quelli di cui stiamo parlando non la impareranno mai.



Immigrati comunitari non in regola: sanzioni, multe e anche espulsioni. Nuove regole da Maroni.

BusinessOnline, 20-09-2010
Marcello Tansini
Nuove sanzioni nei confronti degli immigrati non in regola. Il ministro degli Interni, Roberto Maroni, sembra ben fermo su questo punto e deciso a dar vita a nuove regole affinché si possa garantire una convivenza civile in Italia fra italiani e stranieri.
Sull’onda di polemiche e critiche su quanto sta accadendo in Francia e sulla decisione del presidente Sarkozy di rimandare tutti i rom a casa, anche l’Italia si gira a guardare, appoggiando la decisione del presidente francese e garantendo al più presto cambiamenti per gli immigrati.
Sulla polemica dei rom, Maroni ci ha tenuto a spiegare: “L'emergenza campi nomadi noi l'abbiamo affrontata a partire dall'agosto 2008 e l'abbiamo praticamente risolta: sono in corso di attuazione i piani che prevedono di chiudere i campi nomadi abusivi e di sostituirli con i campi attrezzati, che sono anche controllabili dalle forze dell'ordine. Nessuna espulsione di massa, solo applicazione della legge per cui chi non ha diritto a restare deve essere riportato a casa sua. Che poi è quello che stanno facendo i francesi”.
Più volte, infatti, il ministro ha ribadito che saranno espulsi solo coloro che dimostreranno di non essere in regola con documenti e lavoro e per cui non c’è ragione restino nel nostro Paese.
E poi fa un esempio: “se noi fermiamo un cittadino romeno, francese o inglese che vive da 6 mesi senza reddito non possiamo far altro che invitarlo a tornare a casa. E ovviamente lui non ci va. Questa è una lacuna che vogliamo colmare nel pieno rispetto delle norme europee”.



In corsia più infermieri dall'est

Il Sole, 20-09-2010
Gianluca Schinaia
Una corsia preferenziale per lavorare nella sanità italiani. Medici, infermieri e tecnici di laboratorio sono immigrati molto richiesti nel nostro Paese. Così gli stranieri che hanno competenze mediche e sanitarie fruiscono di una doppia agevolazione in termini normativi: un percorso facilitato per la procedura d'ingresso in Italia e un iter burocratico più semplice - rispetto ad altri professionisti stranieri - per il riconoscimento del proprio titolo di studio.
Secondo l'ultimo monitoraggio dell'Ipasvi (la federazione dei collegi degli infermieri), oggi su quasi 370mila operatori sanitari iscritti alla confederazione il 10% (37.269) proviene da altre nazioni: di questi sono donne l'86%. In particolare, oltre la metà degli infermieri immigrati sono comunitari (21.223) e i restanti 16.046 provengono da paesi extra-Ue. Rilevante il dato degli infermieri rumeni nel nostro Paese (11.350), i professionisti stranieri più rappresentati nella categoria. Nella classifica generale degli infermieri provenienti da altri paesi seguono poi polacchi (3.644), svizzeri (2.943), peruviani (2.211), tedeschi (1.959), indiani (1.564), albanesi (1.506), francesi (1.144) e spagnoli (835).
E una ricerca recente curata da Ismu, Censis e ministero del Lavoro, segnala che medici e paramedici stranieri rappresentano appena l'1,7% del totale dei lavoratori immigrati. Tant'è che per incentivare la presenza di personale medico a giugno scorso il ministero della Salute ha delegato il ricevimento dei diplomi di laurea di infermieri e tecnici sanitari di radiologia medica – e l'istruttoria relativa – ad appositi uffici regionali, al fine di velocizzare la procedura di riconoscimento.
Due sono, almeno sulla carta, le agevolazioni riservate a medici e infermieri che provengono dall'estero. Innanzitutto, l'articolo 27 del Dlgs 286/98 (testo unico sull'immigrazione) prevede che alcuni lavoratori stranieri non siano sottoposti ai rigidi dettami imposti dalle ordinarie procedure d'ingresso. Si tratta di professionisti e lavoratori altamente specializzati come ingegneri, ricercatori, dirigenti, calciatori e, appunto, medici e infermieri. Per loro, tra il momento di richiesta del nullaosta e la concessione passa pochissimo tempo: circa un mese. Altro che i 291 giorni medi di attesa (stimati dal Viminale) che toccano agli immigrati "ordinari".
La seconda concessione normativa riguarda l'equipollenza, ovvero l'equivalenza di un titolo di studio straniero nel nostro ordinamento. Questa procedura è semplificata per medici e infermieri che si rivolgono, infatti, direttamente al ministero della Sanità, mentre gli altri laureati stranieri devono passare per le università. Per avviare l'iter ci deve essere una chiamata specifica da un ospedale (pubblico o privato), o un'agenzia di somministrazione o una società cooperativa già in contatto con una struttura sanitaria. Per i professionisti comunitari, il riconoscimento è automatico se si soddisfano alcuni requisiti di base. Per gli extracomunitari, invece, la procedura è più complessa (si veda la scheda a fianco). E sono proprio i cittadini provenienti dai paesi extra Ue che più richiedono il riconoscimento del titolo di studio in campo medico.
Roberto Reyes, presidente della cooperativa sociale "Studio 3 R" che si occupa di mediazione interculturale a Milano, spiega come nella pratica il riconoscimento per i professionisti extracomunitari in ambito medico-sanitario non sia così rapido come appare dal dettato normativo. «Dopo la richiesta specifica da parte di una struttura italiana, l'interessato deve tradurre tutti i certificati di studio idonei al riconoscimento e presentarli al consolato italiano, quindi c'è la dichiarazione di valore del console, poi vengono fatte due copie, vidimate, e infine si spedisce il tutto in Italia». Intanto passa circa un anno. «Qui il materiale viene girato alla struttura che ha richiesto il lavoratore, e lo stesso istituto cura poi la domanda di equipollenza: dopo circa cinque mesi arriva l'emanazione del decreto "nominale" che riconosce il titolo di studio. Ma non è finita: c'è anche l'esame di iscrizione all'Albo...».
Il risultato? «In tanti desistono perché pensano sia l'ennesima truffa». Oppure si iscrivono in un'università italiana e ricominciano gli studi daccapo. Come Sonia Salas, infermiera peruviana: «Mi sono laureata in scienze infermieristiche ad Ayacucho (Perù) e ho iniziato a lavorare al San Raffaele di Milano nel '90. Poi è arrivata la legge sull'equipollenza, ma sarei dovuta tornare a casa e per me era un problema. Così sono entrata in un'università italiana, la "Vita e Salute" del San Raffaele. Ho pagato le tasse, frequentato e passato tutti gli esami. E per superarli, mi è toccato seguire anche un corso intensivo d'inglese».



Non basta la laurea in Italia: al medico serve la cittadinanza

Il Sole, 20-09-2010
Carlo Giorgi
«Ho una laurea italiana e sono regolarmente abilitata alla professione. Ma se la legge non cambia non potrò mai fare il medico di famiglia, come facevo invece nel mio paese. E questo solo perché sono straniera». Il caso della dottoressa Maria Braniste, moldava, è comune a molti medici immigrati in Italia. Secondo la legge, infatti, per partecipare a concorsi pubblici con cui vengono assegnati i posti nelle strutture del sistema sanitario nazionale, è necessario essere titolari di cittadinanza italiana.
Fatta salva l'abilitazione professionale, è questo il maggiore scoglio contro cui si infrangono i progetti dei medici extracomunitari. «Ho ottenuto il permesso di soggiorno nel 2003 – spiega Braniste – e potrò richiedere la cittadinanza a partire dal 2013. Fino ad allora le mie opportunità di lavoro saranno limitate al settore privato: collaborazioni con residenze per anziani, associazioni di ambulanze o studi medici». Sono 16.159, secondo Fnomceo, la Federazione degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, i medici stranieri abilitati alla professione in Italia, il 4,4% dei 370mila professionisti registrati dagli Ordini. La prima ondata di questa "immigrazione sanitaria" varca i nostri confini prima della crisi dell'ex-blocco sovietico: nelle università italiane si iscrivono molti studenti mediorientali, iraniani, greci, africani. E una buona parte di loro, una volta laureati, decide di non tornare in patria. Caduto il Muro di Berlino, invece il flusso della migrazione cambia: i medici, spesso già esperti, arrivano da Romania, Albania, Russia, Moldavia. Infine, negli anni più recenti si registra un nuovo aumento di studenti universitari stranieri.
«Solo nelle università di Roma, lo scorso anno, abbiamo avuto 40 matricole provenienti dai paesi arabi» racconta Fouad Aodi, medico palestinese, in Italia dall'81, oggi professore di fisiatria all'università La Sapienza e presidente dell'Amsi, Associazione medici stranieri in Italia. «Al di là di casi specifici di cattiva gestione, l'Italia ha uno dei sistemi sanitari migliori al mondo – sostiene Aodi – e anche per questo richiama medici e studenti dall'estero».
L'accoglienza e l'integrazione di professionisti della sanità è un fenomeno che coinvolge tutti i paesi ad alto reddito. Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità nel periodo 1980-2010 in molti paesi d'Europa il numero di impiegati stranieri nel settore sanitario si è alzato di più del 5% all'anno. Nei paesi dell'Ocse, infatti, circa il 20% dei medici è straniero (56 mila medici indiani) e si contano circa 110mila infermiere filippine. «Si tratta di una migrazione preoccupante – sottolinea Fouad Aodi – perché c'è il rischio di uno spopolamento di medici e paramedici nei paesi più poveri. Occorre sempre di più investire in formazione e aiuto ai sistemi sanitari del Sud del mondo». Per un medico extracomunitario, il riconoscimento del titolo di studio in Italia (si veda la scheda a fianco) è un passaggio fondamentale: «Ho lasciato la Moldavia per motivi economici e i primi anni in Italia ho fatto per necessità la baby sitter. Poi ho chiesto il riconoscimento del mio titolo – racconta Braniste –. Per ottenere una laurea valida ho dovuto sostenere altri sette esami universitari. E, finalmente, nel 2005 sono stata abilitata ad esercitare la professione».
Il dottor Elias Attalla, palestinese, lavora dal 1990 alla medicina d'urgenza del Policlinico Umberto I di Roma. «Quando studiavo, in Giordania, non era possibile specializzarsi in medicina – spiega Attalla –; per questo negli anni '70 sono venuto in Italia. Qui ho conosciuto mia moglie e sono diventato cittadino italiano. Questo, tra l'altro, mi ha permesso di accedere a un concorso pubblico». Il dottor Tshomba Yamume, nato a Kinshasa, Repubblica democratica del Congo, ma in Italia fin da bambino, invece è un giovane chirurgo vascolare che opera al San Raffaele di Milano: «Mia sorella, che è rimasta a Kinshasa, mi invita spesso a tornare – dice Yamume –, e io non ho abbandonato la speranza di mettere al servizio del Congo la mia formazione, costruita in un centro come il San Raffaele. Ma, paradossalmente, la mia attuale professionalità in un paese dove il 70% del territorio non ha copertura sanitaria, risulterebbe inutile. Lì mancano i farmaci per la malaria e le garze. Altro che chirurgia all'avanguardia».



Studenti stranieri: non occorre il visto per rientrare in Italia dopo un soggiorno di studio presso un ateneo dell’Ue.

ImmigrazioneOggi, 20-09-2010
Una circolare del Ministero dell’interno chiarisce che gli studenti stranieri, già titolari di permesso di soggiorno italiano e temporaneamente trasferiti in altro ateneo dell’Ue, possono rientrare in Italia senza visto ed ottenere il rinnovo del titolo originario anche se scaduto da tempo.
La scorsa settimana il Ministero dell’interno ha emanato una circolare a tutela dei numerosi studenti stranieri che in base alla direttiva 2004/114/CE si trasferiscono temporaneamente in un altro Stato membro dell’Ue per integrare il corso di studio intrapreso in Italia, per poi ritornare nell’ateneo italiano di partenza.
Il problema era sorto a causa di una interpretazione restrittiva della direttiva da parte di alcune questure, secondo le quali non sarebbe stato possibile richiedere il rinnovo dell’originario permesso di soggiorno scaduto a seguito di trasferimento in altro ateneo dell’Ue se non previo rilascio di un nuovo visto d’ingresso.
La Direzione per l’immigrazione della PS ha invece opportunamente precisato che in base alla direttiva, volta a salvaguardare il diritto alla mobilità degli studenti, lo studente straniero che abbia intrapreso in Italia  un corso di studio che prevede lo svolgimento all’estero di parte di esso, potrà riprendere lo studio presso l’ateneo italiano senza dover richiedere un nuovo visto d’ingresso. Infatti, precisa la circolare, qualora l’originario permesso di soggiorno rilasciato dalla questura sia scaduto, oppure lo studente abbia interrotto il soggiorno in Italia oltre sei mesi, potrà chiederne il rinnovo allegando alla domanda: una certificazione dell’ateneo italiano attestante che la frequenza all’estero rientrava nel programma del corso di studio iniziale; copia del permesso di soggiorno rilasciato dallo Stato membro; una certificazione dell’ateneo europeo attestante  il regolare svolgimento del programma in quello Stato membro.



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