Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

23 giugno 2010

Amnesty: «In Libia calpestati i diritti umani»
Avvenire, 23-06-2010
LONDRA- Frustate per punire le adultere, detenzione a tempo indeterminato, violenze nei confronti di migranti richiedenti asilo e rifugiati, sparizioni forzate di dissidenti: in Libia la situazione dei diritti continua a risentire dell'assenza di riforme e le forze di sicurezza restano immuni dalle conseguenze delle loro azioni. È quanto denuncia Amnesty International in un nuovo rapporto intitolato «La Libia di domani: quale speranza per i diritti umani?». «Se la Libia vuole essere credibile sul piano internazionale, le autorità devono assicurare che nessuno sia al di sopra della legge e che tutte le persone, comprese le più vulnerabili ed emarginate, vengano protette dalla legge. La repressione del dissenso deve cessare», ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Le violazioni dei diritti umani, aggiunge Amnesty, continuano a essere commesse dalle forze di sicurezza, in particolare dall'Agenzia per la sicurezza interna (Asi), che pare avere poteri incontrastati di arrestare, imprigionare e interrogare. Migranti, rifugiati e richiedenti asilo, in maggior parte provenienti dall'Africa e in cerca di salvezza in Italia e in altri Paesi dell'Unione Europea, trovano invece arresti, detenzioni a tempo indeterminato e violenze in Libia. E Tripoli ha recentemente comunicato all'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati che doveva lasciare il Paese. «I partner internazionali della Libia non possono ignorare l'agghiacciante situazione dei diritti umani in nome dei loro interessi nazionali - ha sottolineato Hassiba Hadj Sahraoui -. La contraddizione di un Paese che contemporaneamente fa parte del Consiglio Onu dei diritti umani e rifiuta le visite dei suoi esperti indipendenti sui diritti umani, è stridente».



Amnesty accusa: «Riforme ferme, abusi su migranti»

il manifesto, 23-06-2010
Stefano Liberti
Riforme ferme, abusi nei confronti dei migranti, violazioni diffuse dei diritti umani, persone detenute senza accusa. In un rapporto che sarà reso pubblico oggi, Amnesty International punta il dito contro la Libia. Frutto di una visita sul campo di una settimana nel maggio del 2009 e di successive ricerche, il testo è un j'accuse severo contro la jama-rìhiya. E contro i paesi europei (in primis l'Italia) che, dopo la fine dell'embargo, hanno riallacciato fiorenti legami con Tripoli. «Il reintegro della Libia nella comunità internazionale non è stato accompagnato da riforme significative e da miglioramenti nella situazione dei diritti umani», denuncia il testo.
Se infatti la Libia «non è più lo stato paria che era non molto tempo fa», l'organizzazione sottolinea come la si-tuazione dei diritti umani rimane assai fosca. Alcuni gruppi o individui -denuncia il rapporto - sono presi costantemente di mira: «fra questi, bisogna includere chi critica i principi della rivoluzione che ha portato al potere il colonnello Muammar Gheddafi 40 anni fa, le persone considerate una minaccia alla sicurezza nazionale e gli immigrati in situazione irregolare». Certo, non è più il tempo in cui gli oppositori in esilio venivano catturati o liquidati con operazioni segrete. Non è più il tempo in cui - come accaduto nel triste episodio di Abu Salim del 1996 - rivolte carcerarie venivano sedate nel sangue, al netto di un migliaio di morti. Oggi, il regime mostra una faccia meno dura. Una certa libertà di espressione - all'interno di precise «linee rosse» - è concessa. Il fatto stesso che a un'organizzazione come Amnesty sia stato concesso un visto e sia stata organizzata una visita - sia pure con diverse restrizioni e contìnui cambiamenti di programma - è segno dei tempi che cambiano.
Un altro segno dei tempi che cambiano è la straordinaria benevolenza mostrata oggi dai capi di stato occidentali nei confronti della Jamahiriya e della sua «guida» Muammar Gheddafi. L'ex mad dog bombardato da Ronald Reagan nel 1986 è oggi uno dei leader africani più ascoltati e rispettati. L'Europa e gli Stati uniti perdonano le sue stramberie e gli rendono frequenti visite, non foss'altro per assicurare alle proprie industrie commesse e appalti e per garantirsi la fornitura di gas e petrolio. La Libia è oggi il partner perfetto: permette investimenti, fornisce idrocarburi e blocca l'immigrazione  clandestina.
Su quest'ultimo punto, il rapporto di Amnesty è particolarmente duro: «immigrati e richiedenti asilo vivono nella costante paura di essere arrestati e rinchiusi per un tempo indefinito in centri sovraffollati; di essere sfruttati e picchiati». Una considerazione che forse spiega il timing un po' strano del rapporto dell'organizzazione, pubblicato più di un anno dopo la visita in Libia. Proprio in queste settimane la commissione europea sta negoziando con la Libia un accordo di cooperazione e partenariato ad ampio ra



Discriminazione: salvadoregno indigente compie 60 anni e il Comune di Milano gli toglie il sussidio di povertà perché non ha il permesso di lungo soggiornante.
ImmigrazioneOggi, 23-06-2010
La delibera di giunta 3285/2005 prevede il permesso di soggiorno di lungo periodo per gli ultrasessantenni che chiedono di beneficiare dei sussidi. Ricorso al tribunale per una “azione civile contro la discriminazione” ai sensi dell’articolo 44 del Testo unico sull’immigrazione.
Il Comune di Milano ha tolto il sussidio che eroga alle persone in condizione di povertà assoluta ad un cittadino salvadoregno che ha compiuto 60 anni perché a tale soglia di età è richiesta la carta di soggiorno per beneficiare del sussidio. Sostenuto dall’Asgi e da Avvocati per niente, l’interessato si è rivolto al Tribunale di Milano per una “azione civile contro la discriminazione” ai sensi dell’articolo 44 del Testo unico sull’immigrazione.
Secondo i ricorrenti, la delibera di giunta 3285 del 23 dicembre 2005 con cui il Comune ha disposto un aiuto economico a favore degli anziani ultrasessantenni indigenti non solo è “discriminatoria” perché esclude dal beneficio gli stranieri che non sono beneficiari della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo), ma è anche “paradossale” perché altre delibere comunali prevedono interventi di sostegno ai disabili e agli adulti in difficoltà fino ai 60 anni di età che includono anche gli stranieri regolari che non hanno la carta di soggiorno. “Nell’un caso e nell’altro le erogazioni da ultimo indicate non sono condizionate per quanto riguarda i residenti stranieri, al possesso di carta di soggiorno - spiegano i ricorrenti -, sicché il collegamento tra i vari interventi determina un effetto paradossale: lo straniero in difficoltà o disabile titolare di un mero permesso di soggiorno gode dei sussidi economici di cui sopra fino al compimento dei 60 anni, ma poi li perde perché non può beneficiare, in mancanza della carta di soggiorno, del contributo di cui alla delibera 3285/05”.
Un criterio illogico e anticostituzionale secondo il difensore perché “la Corte ha ripetutamente stabilito che non è possibile limitare le prestazioni assistenziali a coloro che hanno la carta di soggiorno, perché questa a sua volta richiede un reddito minimo, sicché è assurdo escludere dalle prestazioni proprio coloro che non dispongono neanche di quel reddito minimo”.
Non è la prima causa del genere patrocinata dall’Asgi e da Avvocati per niente. Nel 2009 il Tar Lombardia e il Tribunale civile di Milano avevano bocciato infatti la Regione Lombardia che per il bonus per il terzo figlio richiedeva la carta di soggiorno. “I giudici hanno obbligato la Regione a estendere il bonus a tutti gli stranieri regolarmente soggiornanti – ricorda Alberto Guariso –. Non si comprende quindi perché il Comune intenda perseverare nell’errore; tanto più che persino il vigente regolamento comunale per gli interventi dei servizi sociali non fa più alcun riferimento alla carta di soggiorno”.



Immigrati in Italia: salute fragile

Galileo, 23-06-2010
Anna Lisa Bonfranceschi
Sono circa cinque milioni gli immigrati stranieri in Italia, di cui l’88,7 per cento regolari (fonte: Ismu). Ma la maggior parte è ancora restia a rivolgersi alle strutture sanitarie pubbliche in caso di necessità. E la colpa è soprattutto della mancanza di un’informazione adeguata. È quanto emerge dalla sintesi del progetto Migrazione e Salute, promosso dal Ministero della Salute e coordinato dall’Istituto superiore di sanità (Iss), che vuole offrire una panoramica delle condizioni socio-sanitarie degli stranieri in Italia e delle politiche attuate dalle diverse Regioni. Il progetto, nato nel 2008, si concluderà il prossimo luglio e ha coinvolto l’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea di Roma, l’Università della Sapienza, la Fondazione Labos (Laboratorio per le politiche sociali) e l’Area sanitaria Caritas di Roma.
Esistono due ‘categorie’ di immigrati: quelli provenienti dai “Paesi a forte pressione migratoria” (come le nazioni in via di sviluppo o dell’Est) e quelli provenienti dai “Paesi a sviluppo avanzato”. La distinzione viene fatta perché le questioni di salute nelle due categorie sono molto diverse, come emerge dall’analisi dei dati nazionali tratti dalle schede di dimissione ospedaliera (2007), dai certificati di assistenza al parto (2007) e dalle interruzioni volontarie di gravidanza (2006). Gli uomini provenienti dai Paesi a forte pressione migratoria, per esempio, si rivolgono alle strutture ospedaliere principalmente per fratture, traumatismi, appendici acute e bronchiti; gli altri, invece, sono più spesso ricoverati per patologie cardiovascolari, come insufficienza cardiaca, infarto e aritmie. Inoltre, si contano più casi di malattie infettive nei primi (sebbene, ricordiamolo, la prevalenza di Hiv tra gli immigrati è minore che nella popolazione italiana, 5,3% vs 8,8%), e più di patologie croniche nei secondi.
Distinzioni simili anche per le donne: quelle provenienti dai paesi più problematici sono ricoverate principalmente per parto (e per le problematiche legate alla salute riproduttiva), mentre quelle dei paesi a sviluppo avanzato entrano in ospedale soprattutto per malattie croniche, legate a insufficienza cardiaca e artrosi. Le prime, inoltre, richiedono più delle seconde ricoveri in day hospital per interruzione di gravidanze (rappresentano il 41% di tutti gli accessi, a fronte del 4% delle straniere di Paesi a sviluppo avanzato). Ma la differenza fondamentale tra i due gruppi sta nel fatto che le donne provenienti dalle nazioni svantaggiate accedono alle cure per il parto più tardi delle altre. Come è logico aspettarsi, i fattori che condizionano l’accesso ritardato alle strutture sanitarie sono la bassa età (più grande è la donna, minore è il rischio), la disoccupazione (casalinghe e disoccupate sono più a rischio rispetto alle donne occupate), e la bassa scolarità. Ovviamente, questo ritardo ha un effetto anche sui neonati, come ha di recente evidenziato uno studio italiano pubblicato su British Medical Journal (Rischi maggiori per i neonati stranieri).
Per tentare di aumentare il livello di scolarità e, di conseguenza, il grado di integrazione delle diverse comunità, dal 2006 è in corso il progetto europeo Includ-ed (Social Inclusion in Europe: an Educational Challenge), cui partecipa anche l'Università di Firenze e che sta valutando l'impatto dell'educazione nella vita sociale degli immigrati, compreso l’accesso alla salute (Insieme si studia meglio). Un’altra iniziativa, diretta questa volta proprio alla salute materno-infantile, è quella dell’Unicef e della Società Italiana di Pediatria, sostenuta dalla GlaxoSmithKline, che ha prodotto il libricino in sette lingue “Tu e il tuo bambino”, un opuscolo che contiene informazioni basilari per il benessere di mamma e figlio (Mamma in tutte le lingue).
C’è un dato almeno parzialmente positivo: negli ultimi cinque anni, in quasi la metà delle regioni italiane sembra cresciuta l’attenzione delle autorità e delle istituzioni locali per la salute degli immigrati. Sono stati presi in esame gli atti formali (leggi locali, delibere) emanati dal 1995 al 2010 ed è stata valutata la presenza di osservatori, ambulatori e servizi di assistenza a immigrati irregolari e comunitari a livello regionale e provinciale. La Puglia è risulta essere la regione più attenta e attiva alle politiche sanitarie in materia di immigrazione, mentre Calabria, Basilicata e Lombardia sono le meno sensibili.
Secondo il rapporto, oltre a lavorare sul fronte dell’informazione rivolta agli immigrati e sulla formazione del personale sanitario, è necessario intervenire in altri settori, in primis quelli del lavoro e delle pari opportunità (Due volte discriminate). Infatti, secondo una recente indagine sulla situazione lavorativa, svolta dalla Fondazione Ismu insieme al Censis e all’Istituto psicoanalitico per le ricerche sociali (Ipr), il 32 per cento degli immigrati (40 al Sud) ha sperimentato forme di lavoro irregolare. E questo nonostante il 40,6 per cento sia diplomato o laureato, rispetto al 44,9 per cento degli italiani (Dieci in pagella ai clandestini).



LEGGE ANTI-IMMIGRATI IN UNA CITTA DEL NEBRASKA

Fremont sulle orme dell'Arizona "Non si affittano locali agli illegali"
La Stampa, 23-06-2010
Maurizio Molinari
NEWYORK- Fremont ruba la scena all'Arizona nella lotta all'immigrazione clandestina. La cittadina del Nebraska che conta poco più di 25 mila abitanti ha infatti approvato con il 57 per cento dei voti, in una sorta di referendum locale, l'entrata in vigore di norme che impediscono di assumere immigrati illegali come anche di affittagli qualsiasi tipo di locali. Da oltre venti anni Fremont è una delle mete privilegiate dei clandestini di origine latinoamericana in arrivo dai confini messicani, attirati dai posti di lavoro della locali industria delle carni, ma con le nuove leggi non potranno più avere alcun lavoro così come non potranno adoperare i risparmi per affittare bar o ristoranti.
La messa al bando di «qualsiasi locazione ai clandestini» verte attorno ad un meccanismo che obbliga l'affittuario a chiedere
un'apposita autorizzazione al Comune che a sua volta prima di concederla è obbligato a verificare la legalità dello status di residenza. Per l'Unione americana delle libertà civili si tratta di una «lampante violazione delle libertà costituzionali» e i suoi avvoca-
ti hanno già annunciato l'inizio di un'azione legale che punta direttamente alla Corte. Suprema di Washington ma il consenso popolare alle norme approvare è molto solido. «Non credo che questa città debba aiutare i clandestini, assumerli o affittargli dei locali significa favorire l'illegalità e questo è errato, che se ne vadano altrove» ha dichiarato alle tv locali Linda Nafziger, fra i fautori dei provvedimenti approvati.
Il voto ha spaccato la popolazione di Fermont per gruppi etnici con la maggioranza bianca che ha votato in massa a favore e i circa 2000 ispanici che invece si sono opposti. Per l'amministrazione Obama il voto di Fremont apre un nuovo fronte di frizione
sui temi dell'immigrazione che si va a sommare con quello dell'Arizona. Ed a lasciar supporre che non si tratti di eventi separati e isolati c'è il fatto che ad aver scritto la legge dell'Arizona è lo stesso avvocato di Kansas City a cui si deve la stesura del testo di Fremont: Kris Kobach, candidato per i repubblicani alla carica di Segretario di Stato del Kansas nelle elezioni di novembre, il cui cavallo di battaglia è nel vanto di essere «il migliore nel difendere città e Stato americani dall'invasione dell'immigrazione clandestina».



Parigi, i cinesi in rivolta "La malavita ci spreme"

Rapina durante un matrimonio scatena le proteste della folta comunità asiatica
La Stampa, 23-06-2010
Domenico Quirico
PARIGI- Silenziosi, discreti, miti, obbedienti, rispettosi. Senza alcun dubbio fino al primo giugno scorso. Quando una banda di quartiere ha deciso di riempirsi le tasche assaltando una cerimonia di nozze nella Chinatown parigina, ovvero a Belleville. Alla fine dello sposalizio i manigoldi hanno scrupolosamente depredato invitati e sposi. Un buon bottino, hanno constatato i poliziotti; i rapinatori sapevano bene che tra le tradizioni cinesi c'è quella di regalare direttamente denaro alle nuove coppie piuttosto che tostapane e soprammobili. Uno degli invitati, quel giorno, ha cercato di reagire: ha estratto un coltello ferendo uno degli aggressori. Per la prima volta un cinese non ha subito ma ha reagito alla violenza con la violenza.
E' stato il segnale: la comunità più silenziosa della capitale ha preso coscienza di essere diventata la greppia della malavita parigina. E che ne aveva abbastanza di fare la vittima. Belleville, dove la formicolante comunità ha negli ultimi tempi trasferito molte delle sue operosissime attività dalla sede storica del tredicesimo arrondissement, ha una tasso di aggressioni, furti e violenze in allarmante ascesa rispetto ad altri quartieri. Nella più paciosa indifferenza della polizia e del comune afferma il portavoce delle associazioni cinesi Taki Zhang. Così migliaia di asiatici (oltre ottomila secondo la polizia, ventimila secondo gli organizzatori) sono scesi in strada. Una decisione anche questa storica: segna l'uscita a passo deciso della discretissima comunità cinese dal silenzio.
Ai cinesi si sono uniti i vietnamiti; la condizione di vittime ha reso solidali due comunità tradizionalmente poco inclini alla reciproca simpatia. Tutti insieme sono sfilati per le vie del quartiere con slogan assai repubblicani: «Giustizia per tutti», «Belleville quartier tranquillo», «Il rispetto di oggi è l'avvenire di domani». In prima fila Ahm Dao Traxel che è la figlia adottiva di Chirac di origine vietnamita che aveva da portare una testimonianza personale: «Io vivo nel tredicesimo arrondissement e sono stata aggredita due volte. Chiediamo null'altro che il diritto di lavorare e muoverci in santa pace».
Razzismo? Una nuova pericolosa forma di veleno xenofobo tra i tanti che scorrono nel paese della fraternité? Certamente la presenza dei cinesi in Ile-de-France soprattutto negli ultimi anni ha preso cadenze torrenziali; sono ormai duecentocinquantamila sui settecentomila censiti più o meno ufficialmente in Francia. Una parte consistente tra loro valutabile in decine di migliaia è formata da clandestini. Innescata nel 1975 in termini numerici rilevanti, dalla vittoria dei comunisti   in   Vietnam, estesa poi alle regioni del sud-est e alla   provincia   del Zhenjiang, la diaspora si è dimostrata assai dinamica sul piano economico e commerciale, diventando protagonista soprattutto nella ristorazione, negozi di alimentari e nell'import export.
I cinesi hanno rapidamente colonizzato Belleville, un'arnia ronzante che ha scardinato l'aspetto delle vie, le attività, gli equilibri tra le comunità. I cinesi nei rapporti di polizia sono accusati di aver esportato sulle rive della Senna anche una economia parallela basata sull'immigrazione clandestina e lo sfruttamento. Certo è un mondo autarchico e opaco, anni fa si scoprì che persino le morti erano tenute nascoste per non fornire dati alla amministrazione.
A Belleville si nega che esistano sentimenti anticinesi, semmai è in corso una guerra per il territorio. I cinesi comprano tutti i negozi, caffè ricevitorie della lotteria e le altre comunità che hanno impegnato anni ad integrarsi e uscire dalla miseria, si ribellano.
Una delle ragioni per cui le bande criminali hanno deciso di colpire i cinesi è sono perfetti come derubati: sono spesso privi di documenti, con una scarsa conoscenza del francese, abituati   a   diffidare dello Stato e quindi con scarsissima propensione a presentare denuncia. E hanno l'abitudine di portare addosso molto denaro.
II sindaco di Belleville Frédérique Calandra, ha promesso maggiore attenzione per questi suoi amministrati ma ha aggiunto: «Dovete organizzarvi, dobbiamo avere degli interlocutori». Hanno già seguito il consiglio, riunendosi in collettivo delle associazioni franco-cinesi. Ma ora vogliono incontrare e avere risposte dal sindaco di Parigi e dal prefetto.




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