Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

9 marzo 2010

Sempre più soci nelle cooperative
ROMA - "Se la presenza di immigrati nelle cooperative industriali incide circa per il 5% e nelle cooperative sociali per il 10%, la percentuale sale al 15% in quelle di servizi, per arrivare al 25% nel settore agroalimentare". Ma gli immigrati, oltre a essere dipendenti, spesso sono anche soci delle cooperative stesse. In quelle sociali "succede nel 10% dei casi, nei servizi si arriva all'80%". E nelle cooperative dei servizi aderenti a Legacoop, "si registrano le percentuali piu' alte di soci immigrati (70-80%), come anche le percentuali piu' alte di contratti a tempo indeterminato (75-95%) rispetto alla media (76%) degli altri settori di Legacoop". Numeri che arrivano da Daniele Conti, di Legacoop Servizi (già Ancst - Associazione nazionale delle cooperative di servizi), nei giorni scorsi a Capo Verde per il viaggio di studi promosso dal Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes.

"Concordando con l'organizzazione del Dossier Caritas/Migrantes la presenza di un nostro rappresentante- sottolinea Franco Tumino, al momento della organizzazione del viaggio presidente di Ancst (ora Legacoop servizi)- abbiamo voluto cogliere l'occasione di approfondire noi stessi le dinamiche dell'immigrazione; le presenze di lavoratori immigrati, che spesso divengono soci, sono sempre piu' numerose nelle cooperative di servizi, e la nostra associazione ha voluto sempre piu' supportare le cooperative nelle prassi di ascolto dei bisogni materiali e spirituali dei lavoratori migranti e nella definizione di politiche di integrazione".

"Non esiste un censimento dei lavoratori extracomunitari delle cooperative italiane, ma alcune indagini settoriali della Lega nazionale delle cooperative e mutue (Legacoop), la piu' antica delle organizzazioni cooperative italiane che associa oltre 15 mila imprese cooperative in tutte le regioni italiane e in tutti i settori produttivi, possono dare un'idea della dimensione del fenomeno", sottolinea Conti, mettendo l'accendo "sull'aspetto qualitativo del lavoro di dipendenti e dei soci extracomunitari in cooperativa". Entrando nel dettaglio territoriale, la Legacoop Toscana - "una delle regioni in cui si registra la piu' alta presenza di imprese cooperative aderenti a Legacoop" - ha svolto una ricerca tra i lavoratori immigrati delle cooperative toscane: ben il 40% e' originario di paesi africani; l'85% degli intervistati non cambierebbe lavoro, il 90% ritiene che in cooperativa non ci siano discriminazioni. Altro dato significativo: gli occupati diventano soci effettivi delle cooperative nel 74% dei casi).

"Le cooperative spesso sono anche la migliore risposta ai bisogni locali perche', oltre a creare posti di lavoro, rafforzano la coesione sociale, economica e territoriale, favorendo inoltre lo sviluppo sostenibile e l'innovazione sociale, ambientale e tecnologica", commenta Conti, precisando che "la risposta ai bisogni locali attraverso la nascita di cooperative non si sviluppa solo in Italia, ma spesso le stesse imprese cooperative mettono in atto iniziative collegate qui in Italia e nei Paesi d'origine degli imprenditori". Un esempio concreto? L'esperienza del progetto 'Ghanacoop': "Commercializzando i prodotti del posto, è riuscita a creare occupazione non solo in Italia ma anche nel Paese africano". Partita come associazione di cittadini ghanesi a Modena, oggi importa dal Ghana ananas e frutti esotici, ed esporta lambrusco, parmigiano, pasta e prosciutti. (Dire - Redattore Sociale)

9 marzo 2010 - Dire



Borse di studio per le figlie degli immigrati

08 marzo 2010 - Vita.it

E' il primo progetto del Comitato Promotore della Fondazione Equilatero che è nato oggi Milano

Affrontare il problema dell'immigrazione evitando di chiudersi nel proprio recinto culturale e premiare il talento. Sono questi i messaggi lanciati dal Comitato Promotore della Fondazione Equilatero che oggi è nato a Milano varando il suo primo progetto.
Un lavoro, come ha spiegato la presidente di Equilatero la senatrice Maria Ida Germontani, che riguarderà le figlie degli immigrati residenti in Lombardia che si distinguono negli studi e che sono quindi meritevoli di proseguire la loro istruzione e formazione culturale in Italia. In particolare il progetto prevede uno studio mirato a fotografare la situazione nelle scuole lombarde per poi sostenere il percorso scolastico con borse di studio a favore delle studentesse figlie di immigrati che si sono particolarmente distinte per capacità e bravura. «Non si può considerare il problema dell’ immigrazione con timorosa diffidenza solo sul fronte della sicurezza - ha spiegato la senatrice Germontani - perché una società civile, assieme ai doveri, deve riconoscere anche i diritti degli immigrati i quali, diventando nostri connazionali, condividono la nostra cultura e le nostre tradizioni». Chiaro il riferimento ad una nuova legge sulla cittadinanza che favorisca l'integrazione: «Gli immigrati devono sentirsi realmente coinvolti nella vita della nostra società. Penso in particolare ai bambini, nati nel nostro Paese da genitori stranieri, che studiano nelle nostre scuole e per i quali occorre già da oggi preparare il loro futuro di nuovi italiani. Fondamentale, in questo processo, è soprattutto l'educazione scolastica. E', infatti, nel cuore del sistema formativo, che maturerà o fallirà l'italianizzazione dei discendenti dei primi immigrati».

Gli studenti non italiani che frequentano le scuole della Lombardia sono circa 152.000 (ovvero l'11 per cento del totale della popolazione scolastica) e circa la metà di questi sono ragazze.
«C’è una nuova classe sociale rappresentata degli immigrati che hanno un lavoro» ha detto il presidente di Aifi Anna Gervasoni. «Ma molti di loro fanno fatica a pensare a una progressione in chiave futura per i loro figli. E’ un peccato perdere per strada l’eccellenza».
Pari Opportunità di partenza e meritocrazia. Ecco le ricette per un’integrazione di successo del Comitato Promotore della Fondazione Equilatero.



Cassibile, no alla tendopoli per immigrati
Romano: "Non incentiviamo altri arrivi"
Damiano Chiaramonte
Martedì 09 Marzo 2010 - 11:48 - Giornale di Siracusa

Siracusa – Un no secco alla tendopoli per ospitare i lavoratori stagionali immigrati di Cassibile arriva dal consigliere comunale del Pdl, Paolo Romano che, con una interrogazione al Sindaco di Siracusa elenca una serie di motivi a supporto della posizione critica rispetto al provvedimento annunciato dall’amministrazione Visentin.

Puntare ancora i riflettori su Cassabile e ritentare con l’esperienza della tendopoli per Paolo Romano significa dare forza all’espansione del triste fenomeno del caporalato e creare notevoli disservizi alla cittadinanza locale. Inoltre, il consigliere comunale del Pdl ritiene che possa incentivare fenomeni speculativi già ampiamente diffusi e creare ghetti “di cui non ne sentiamo sinceramente bisogno”, oltre ad alimentare il fenomeno dell’immigrazione clandestina.

Per essere convincente con i suoi interlocutori, Paolo Romano afferma che il territorio di Cassibile è stato soggetto ad un flusso migratorio non corrispondente né alle esigenze di richiesta di lavoro, né tanto meno alla prospettiva di benessere.

“Non solo, questo il flusso è stato ed è talmente elevato – aggiunge il consigliere comunale - che il tessuto sociale del territorio ha subito conseguenze disastrose creando disservizi, problematiche igienico-sanitarie, malumore nella cittadinanza, e non pochi problemi di ordine pubblico con gravi ricadute ineluttabilmente anche sull’economia locale”.

Per Paolo Romano, insomma, in questi anni sulla gestione e sulle politiche di integrazione sul territorio, “si è sbagliato tutto e credo si continui a sbagliare”.

In particolare, sulla preannunciata sistemazione di una tendopoli, Romano afferma che le aziende agricole che operano nel territorio di Cassibile “non richiedono, se non per poche unità, nessuna manodopera extracomunitaria e non si capisce come mai, ancora una volta, si cerchi di attrarre a Cassibile il flusso migratorio senza puntare invece su una politica di integrazione che coinvolga il comprensorio dei comuni della provincia dove di fatto la richiesta di manodopera è più esigente”.



Duecento milioni di cristiani discriminati
COrriere della Sera 9 marzo 2010
Rastrellamenti in Iraq, conversioni forzate nel Laos La minoranza religiosa più perseguitata nel mondo

Non fosse per le (prevedibili) reazioni, gli scontri fra cristiani e indù e le due chiese bruciate, l’immagine di Gesù che si beve una birra e fuma una sigaretta nell’abbecedario indiano scoperto il mese scorso dalle suore del Maghalaya, per quanto provocatoria e blasfema, sarebbe ancora il meno. Ci sono notizie che sfilano quasi ignorate: chi ha idea che nel Laos, a gennaio, siano stati messi agli arresti 48 cristiani nel distretto di Ta-Oyl «finché non rinunceranno alla loro confessione»? Stando al racconto dell’«International christian concern», gli ufficiali del distretto «hanno puntato le pistole alle teste dei cristiani» che però «si sono rifiutati di obbedire all’ordine di rinunciare alla propria fede». E poi ci sono i cristiani trascinati nella foresta, appesi agli alberi e crocifissi in Sudan, sette il 13 agosto dell’anno scorso, altri sei di lì a tre giorni, e chissà che altro è accaduto senza che si sapesse. Oppure quelli stanati casa per casa a Mosul, in Iraq, «hanno mirato con le pistole da pochi centimetri alla bocca, poi alla testa e quando imiei cari sono caduti a terra hanno tirato ai polmoni», raccontava la settimana scorsa al Corriere padre Mazen Matoka: i sicari gli hanno ammazzato padre e due fratelli. O ancora i pogrom anticristiani nell’Orissa degli integralisti indù, i cristiani bruciati vivi nel Punjab pachistano da fanatici islamisti, l’elenco degli orrori si arricchisce di anno in anno ed è più omeno noto come la «blasfemia» — magari con relativa condanna amorte— contestata in Paesi come l’Arabia Saudita se uno s’azzarda a portare un crocifisso. La stessa condanna a morte toccata a una madre in Corea del Nord, ammazzata dal regime comunista di Kim Jong-II perché accusata di regalare Bibbie.

Eccetera, eccetera. La sintesi della situazione, il 26 ottobre a New York, l’ha fatta l’arcivescovo Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede all’Onu: «Con l’aumento dell’intolleranza religiosa nel mondo, è ben documentato che quello dei cristiani è il gruppo religioso più discriminato perché potrebbero essercene ben più di 200 milioni, di differenti confessioni, che sono in situazioni di difficoltà a causa di strutture legali e culturali che portano alla loro discriminazione». Al telefono da Manhattan, l’arcivescovo Migliore tira un sospiro: «Mi sono appoggiato a statistiche fatte con accuratezza, proprio per dire l’ampiezza del fenomeno e anche per mettere nelle giuste proporzioni ciò che sta avvenendo. Sa com’è, a volte si ha l’impressione che con i cristiani si possa dire e fare tutto, quasi impunemente. E invece questa larga macchia esiste, nel mondo: persecuzione in alcuni casi, in altri discriminazione, in altri ancora condizioni tali da costringere i fedeli alla fuga o situazioni più velate, l’impossibilità di essere riconosciuti come pieni cittadini... Tutti fenomeni reali che stanno crescendo e richiedono una presa di coscienza».

Non che i cristiani, di per sé, siano minoranza. I fedeli cattolici battezzati nel mondo, in base all’ultimo Annuario vaticano, erano un miliardo e 166 milioni alla fine del 2008, con un aumento di 19 milioni (più 1,7 per cento) rispetto all’anno precedente. Considerate tutte le confessioni, i cristiani superano i due miliardi: un abitante del pianeta su tre. Eppure molti non se la passano bene, specie nelle tante zone dove sono una minoranza sparuta. «Possiamo stimare che tra il 75 e l’85 per cento degli atti contro una religione riguardi i credenti in Cristo», ha spiegato di recente ad Avvenire Berthold Pelster, ricercatore di «Aiuto alla Chiesa che soffre», l’associazione che stila un rapporto annuale sulla situazione dei cristiani nel mondo.

Considerata l’ultima mappa, dall’Africa al Medio ed Estremo Oriente, non c’è molto da stare allegri. Il rapporto di «Aiuto alla Chiesa che soffre» elenca 60 Paesi nel mondo nei quali la libertà religiosa è violata. Con tutte le gradazioni del caso: dai massacri all’impossibilità di esercitare liberamente il proprio culto. Nel 2009, tra l’altro, sono stati uccisi 37 missionari, calcola l’agenzia Fides della Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei popoli: 30 sacerdoti, 2 religiose, 2 seminaristi, 3 volontari laici. Quasi il doppio dell’anno precedente, il numero più alto degli ultimi dieci anni, e soprattutto nel continente americano.

«L’Occidente laico sembra non capire», considera Louis Sako, arcivescovo caldeo di Kirkuk: che calcola «825 cristiani ammazzati in Iraq dal 2003». La stessa considerazione che si legge in un libro di René Guitton, Cristianofobia. La nuova persecuzione (Lindau), che è stato un caso editoriale in Francia ed è appena uscito in Italia: «Il sempre più scristianizzato Occidente fa fatica a concepire che i cristiani possano essere perseguitati in quanto cristiani, perché essere tali, secondo uno slogan semplicistico che si sente ripetere spesso, significa stare al potere». Gli stessi cristiani, scrive il laico Guitton, «faticano ad associare al cristianesimo il concetto di minoranza».

Cristianofobia? L’arcivescovo Celestino Migliore preferisce evitare queste categorie: «In genere non amiamo molto parlare in termini di "fobie", che si tratti di cristiani, ebrei, musulmani o altro. È un po’ come quando si parla di "diffamazione" delle religioni. Suggestivo, ma rischia di essere un paravento per non parlare della vera questione». E cioè? «Il diritto alla libertà religiosa contenuto nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un diritto che non riguarda gruppi o istituzioni, ma è personale». Il punto è molto concreto: «Qui alle Nazioni Unite insistere sul diritto alla libertà religiosa significa chiedere di approfondirlo, vedere come è fatto rispettare nelle singole legislazioni nazionali. Questo è un compito dei governi: si tratta di trovare sintomi e cause di avvelenamento dei rapporti sociali, politici e anche geopolitici, a volte».

La guerra di religione può essere un paravento per altri interessi. Anche se, certo, «nell’avvelenamento ci possono essere pure dei sintomi religiosi», considera l’arcivescovo: «Questo però è un aspetto che non ci attendiamo sia affrontato dai governi o dalle organizzazioni internazionali. Va condotto dai credenti: di qui l’importanza del dialogo interreligioso». L’importante è distinguere i piani: «La "diffamazione" della religione è un problema reale e non lo disconosciamo, ma va riequilibrato e messo nel suo giusto contesto».






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