Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

04 luglio 2011

 

L’inferno di Kinisia e il nuovo milionario Cie di Trapani
l'unità, 02-07-2011
Stefano Galieni
Una deviazione sull’autostrada fra Trapani e Marsala, piccole frazioni che si susseguono “Misericordia” “Rilievo”, poi l’aperta campagna, gialla e secca. La strada è sterrata e in lontananza un mosaico di colori, una volta era l’aeroporto di Kinisia. Tende azzurre, di quelle da campo, senza un angolo di ombra, container colorati, dai colori più diversi come mattoncini lego e poi filo spinato, sbarre, polizia e vigili del fuoco. Un inferno per 48 dannati, quelli che non sono riusciti a fuggire. Chi ci ha provato ed è stato ripreso racconta di maltrattamenti. L’apertura del nuovo Cie, progettato quasi 10 anni fa, è presentata come la soluzione perfetta, ma per cosa? Per rinchiudere in un luogo più inaccessibile e fino a 18 mesi persone colpevoli solo di essere arrivati in Italia bruciando la frontiera? La nuova struttura super moderna, 206 posti, voluta dal potente di Trapani, l’onorevole D’Alì, (PdL) è uno schiaffo al diritto e alla miseria. Sui costi per la sua realizzazione domina il silenzio ma si parla di almeno 10 milioni di euro, in una terra che avrebbe bisogno di altri investimenti e contro persone che potrebbero, trovare, con una spesa assai minore modalità di inclusione ben diverse. Kinisia, come Palazzo S. Gervasio (Pz), rappresentano invece in pieno il pardigma di Maroni sull’immigrazione. A Pontida i suoi, saranno rimasti contenti nell’apprendere l’ennesimo giro di vite nei confronti di “clandestini” poco sfruttabili, ma oggi molti Cie sono vere e proprie polveriere pronte ad esplodere, di rabbia e di dolore. Contengono persone che credevano di trovare in Italia democrazia e diritti. Non è andata così. 
 
 
 
Al porto
Il sindaco di Napoli accoglie 80 immigrati
Corriere della sera, 04-07-2011
Il sindaco di Napoli Luigi de Magistris ha ieri accolto oltre 80 minorenni immigrati arrivati da Lampedusa.
Per loro sarà attivata una rete di famiglie affidatane.
 
 
 
Cosenza sullo sbarco immigrati
Julienews.it, 04-07-2011
“Da oltre due mesi, da quando cioè è cominciata l’emergenza umanitaria, la Regione Campania sta lavorando senza sosta per accogliere i migranti provenienti del Nord Africa”. 
Lo ha dichiarato l’assessore alla Protezione civile di Palazzo Santa Lucia Edoardo Cosenza, che è anche soggetto attuatore del piano di accoglienza regionale. 
“Riteniamo – ha detto Cosenza, presente questa mattina alle operazioni di sbarco – che in circostanze come questa si debba lavorare con sobrietà, solo per garantire la migliore assistenza possibile a persone che vivono una forte emergenza. Anche oggi è con piacere e commozione che abbiamo permesso ad un bimbo di un anno ed un mese proveniente dalla Libia di ricongiungersi con il papà, peraltro cieco, che già si trovava in una delle strutture di accoglienza della Campania. Il piccolo, insieme con la madre, era invece rimasto bloccato nel Paese di origine. 
“Dalla fine di aprile, questo – ha aggiunto l’assessore Cosenza - è il quinto sbarco di migranti curato dalla Regione Campania, che ha sempre messo in campo tutte le risorse necessarie, dai generi materiali di prima necessità alle figure professionali, come i mediatori culturali. 
“Anche oggi erano presenti ben 30 persone della Protezione civile campana, tra funzionari, tecnici e volontari oltre al personale della Croce Rossa della Campania, che ringrazio per la collaborazione . Tutti gli sbarchi e i trasferimenti sono sempre stati curati con grande professionalità e rigore, garantendo ai migranti il massimo della riservatezza necessaria. Sovraesporli, avrebbe potuto causare inutili problemi e disservizi che non avrebbero certo giovato alla situazione”, ha concluso Cosenza.
 
 
 
Terrorismo, espulso algerino salafita Maroni: «Era pronto a colpire»
Il Messaggero, 04-07-2011
CARLO MERCURI
ROMA - Nelle patrie galere soggiorna da qualche mese Riadh Nasri, tunisino, l'uomo che tra il 1997 e il 2001 avrebbe avviato in Italia il reclutamento a favore dei salafiti. Ci è stato rispedito dagli americani, che lo avevano imprigionato a Guantanamo. Così come ci è stato rispedito indietro un altro tunisino, Adel Ben Mabrouk, anche lui proveniente da Guantanamo e anche lui salafita. Mabrouk aveva pianificato una serie di attentati da realizzare al Duomo di Cremona, alla metropolitana e al Duomo di Milano.
Oltre a questi due ce ne sono almeno altri venti, di terroristi salafiti, nelle nostre carceri. Undici vennero arrestati in un colpo solo, a Napoli, nel novembre dell'anno scorso,  in  un'operazione che sgominò un'intera cellula qaedista dedita alla confezione di documenti falsi.
E' talmente alta l'attenzione della nostra Intelligence su questi salafiti, che ieri il ministro Maroni ha disposto l'immediata espulsione per motivi di pericolosità sociale del terrorista algerino Yamine Bouhrama, rimpatriato ad Algeri immediatamente dopo la sua scarcerazione con un volo da Fiumicino.
Bouhrama, secondo il Viminale, «aveva costituito in Italia una cellula terroristica volta a sostenere il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento, funzionalmente collegato ad Al Qaeda, svolgendo attività di proselitismo». Una cellula, ha aggiunto il Ministero dell'Interno, «pronta a compiere atti terroristici di portata più devastante rispetto a quelli già a suo tempo consumati dallo stesso gruppo eversivo in Spagna e in Gran Bretagna».
Quindi Bouhrama, dopo aver scontato una condanna a 6 anni di reclusione per associazione con finalità di terrorismo internazionale, falsità materiale, contraffazione di pubblici sigilli e ricettazione, è stato scarcerato dal penitenziario di Macomer, in provincia di Nuoro. «L'immediato rimpatrio del terrorista algerino, subito dopo la sua scarcerazione - spiega ancora una nota del Viminale - conferma l'efficacia degli sforzi profusi» dalle strutture di Polizia «quotidianamente impegnate nel monitorare e contrastare ogni forma di illegalità connessa all'immigrazione clandestina».
Tra tutti gli islamisti radicali in Italia, i nostri 007 dedicano un'attenzione particolare proprio ai salafiti, ritenuti tra i più pericolosi. E' l'immigrazione illegale dal Maghreb che ha portato nel nostro Paese, negli ultimi anni, decine di migliaia di algerini, marocchini e tunisini. Tra di loro si nascondono gli estremisti che dalla Organizzazione di Al Qaeda nel Maghreb islamico sono passati nel Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, un autentico network del terrore.
 
 
 
Immigrazione, ricerca IRES CGIL: rischio nuove Rosarno, il Sud è una polveriera
cgil foggia, 04-07-2011
Rischio di conflittualità sociale. Le cause risiedono nei profondi squilibri territoriali e di sviluppo che vanno ricercati nella crisi economica, nelle condizioni sfruttamento, nel sommerso, nelle connivenze con la criminalità organizzata 
 I fatti di Rosarno del gennaio dello scorso anno, come quelli di Castel Volturno, non sono casi isolati ed episodici ma il frutto di ‘equilibri distorti´ che permangono non solo in quelle stesse aree colpite dalla ‘rivolta degli immigrati´ ma in tante altre parti del paese: potenziali ‘nuove Rosarno´ che specie in alcune zone del Mezzogiorno sono vere e proprie ‘polveriere´. 
Prendendo come paradigma il caso Rosarno, l´IRES CGIL - in collaborazione con il dipartimento Mezzogiorno e l´ufficio Immigrazione della CGIL insieme con le categorie FLAI e FILLEA - ha realizzato una ricerca sul territorio dal titolo ‘Immigrazione, sfruttamento e conflitto sociale´. Una vera e propria mappatura delle aree a rischio del paese da dove emerge che le provincie di Caserta, di Crotone e di Napoli, sono le prime tre nella classifica tra le quindici provincie a maggior propensione rischio di conflittualità sociale. La rivolta degli immigrati di Rosarno, come quella di Castel Volturno, non ha infatti una genesi casuale, “non è una mera questione di ordine pubblico in cui affiorano d´improvviso gravissimi atti di razzismo e xenofobia”, come spiega la ricerca, ma è il prodotto di una serie di fattori, di “equilibri distorti”. 
Profondi squilibri territoriali e di sviluppo che vanno ricercati nella “crisi economica, nelle condizioni di lavoro particolarmente dure al limite della schiavitù, in un sistema d´impresa in cui la contrazione del costo del lavoro è l´unica risposta per migliorare la competitività e in cui il peso del sommerso è sempre maggiore, nelle connivenze con la criminalità organizzata e nella mancanza di controlli da parte delle istituzioni”. 
Lavoro e vita immigrati paradigma per valutare qualità sociale. La mappatura prodotta dall´IRES sui ‘territori a rischio´ di conflittualità sociale è quindi il frutto dell´aggregazione di quattro indici che corrispondono alla qualità dello sviluppo economico, dello sviluppo occupazionale, sociale e dell´insediamento della popolazione straniera. La combinazione di questi quattro indici, calcolati a livello provinciale, ha prodotto la classifica delle quindici provincie italiane a maggior propensione rischio di conflittualità sociale. Oltre le citate Caserta, Crotone e Napoli, potenziali rischi investono in successione le provincie di Siracusa, Ragusa, Caltanissetta, Reggio Calabria, Salerno, Catania, Trapani, Foggia, Taranto, Palermo, Agrigento e Lecce. 
“Ciò che risulta chiaro dalla ricerca - sostengono le Segretarie Confederali della CGIL, Vera Lamonica e Serena Sorrentino -, a conferma delle nostre denuncie sul tema, è che la qualità del lavoro e della vita stessa degli immigrati è un paradigma imprescindibile per valutare la qualità sociale di un territorio”. Secondo le due dirigenti sindacali, infatti, “come lavorano e come vivono è una fotografia della generale qualità sociale”. Non per altro i fatti di Rosarno, aggiungono Lamonica e Sorrentino, “devono essere il punto di riferimento per determinare quelle politiche sull´immigrazione, sul lavoro sommerso e sulla legalità per produrre un complessivo miglioramento della qualità sociale”. 
Serve tavolo permanente con istituzioni locali. Una ricerca, insomma, che per la CGIL è da intendersi come un punto di partenza utile alla creazione di un ‘tavolo´ permanente di confronto tra le diverse strutture del sindacato stesso direttamente coinvolte e le istituzioni locali, “per avviare un percorso di lavoro condiviso che permetta da un lato di individuare e proporre le policies più adatte, dall´altro di promuovere iniziative volte a prevenire e contrastare l´insorgere di questi fenomeni”. 
 
 
 
Agroalimentare, De Felici: “settore essenziale per l’economia foggiana”
Stato quotidiano, 04-07-2011
Mara De Felici
Foggia – E’ possibile parlare di “emergenza” nel descrivere un fenomeno caratterizzato dallo sfruttamento e della scarsa accoglienza dei lavoratori migranti in Puglia (e in particolar modo in provincia di Foggia) quando da circa 15 anni il sindacato e tante associazioni di volontariato denunciano le degenerazioni legate ai flussi immigratori? A nostro avviso no, e non è ovviamente solo una questione di linguaggio: perché così facendo si alimenta la diffidenza dei cittadini e dei lavoratori italiani verso gli immigrati, soprattutto si costruiscono alibi per quelle istituzioni che sarebbero tenute ad intervenire per il rispetto della legalità, per l’accoglienza, per una trasparente intermediazione nel mercato del lavoro.
Ma in Italia, in Puglia, in provincia di Foggia, in particolar modo d’estate, durante la stagione dei grandi raccolti che alimentano una maggiore mobilità stagionale interna al Paese e dall’estero – soprattutto dai paesi neo-comunitari -, sentiamo ancora parlare di emergenza. Con un sistema di leggi nazionali che alimenta ad arte quell’“esercito di riserva” di chi – senza status di cittadinanza, senza permesso di soggiorno, quindi senza diritti e tutele da reclamare – è funzionale alla valorizzazione massima degli interessi degli imprenditori agricoli; un sistema arcaico, ottocentesco, che cerca e utilizza non uomini ma braccia. Tanto da far titolare un rapporto di Medici Senza Frontiere sulla condizione dei migranti in terra dauna “Una stagione all’inferno”.
Le condizioni inaccettabili cui sono costretti tanti braccianti stranieri nella nostra provincia sono esplose in tutta la loro forza mediatica dopo l’inchiesta de l’Espresso firmata da Fabrizio Gatti nell’agosto del 2006. A quelle denunce seguì la decisione di Cgil Cisl Uil di svolgere a Foggia una grande manifestazione nazionale sul tema della dignità del lavoro e dei diritti dei lavoratori immigrati, che si tenne il 21 ottobre. Anche se, solo due anni prima, identica inchiesta che denunciava il fenomeno del caporalato era stata realizzata da Panorama. Ad oggi poco o nulla è cambiato. Un sistema di sfruttamento che prima dell’utilizzo di lavoratori stranieri aveva quali vittime i braccianti italiani. Un gioco al ribasso dei salari, dei diritti, della dignità personale. Ed è soprattutto in agricoltura che si addensano le maggiori problematicità e quindi i maggiori rischi sociali.
Alcuni indicatori di contesto sono utili a far comprendere l’importanza e la centralità del settore agroalimentare. Quella di Foggia, per incidenza del settore primario sulla formazione del Pil, è tra le prime province italiane, con un 6% che è tre volte il valore nazionale (1,8%) e molto più alto di quello pugliese (3,8%). Prodotto da un sistema di 27mila imprese agricole censite, 1.200 che operano nella trasformazione dei prodotti. Da noi si producono circa 20 milioni di quintali di pomodoro, il 28% del pomodoro da industria italiano. Ma anche l’11% della produzione nazionale di finocchio e il 18% di quella del carciofo. In provincia di Foggia sono circa 42mila i lavoratori agricoli censiti dall’Inps: in alcuni territori, come quello di Stornara – dove più forte è la presenza di immigrati nei mesi estivi – lavora come bracciante circa il 30% di tutta la popolazione (non solo quella attiva), 1.169 iscritti su un totale di 5mila residenti. E’ il 23% a Stornarella, è il 16% ad Ortanova, tutti comuni limitrofi. Nella piana dell’Alto Tavoliere, spicca il 21% di braccianti sul totale della popolazione nel comune di Rignano, anch’esso meta di migliaia di lavoratori migranti stagionali.
A sottolineare invece il fondamentale contributo dei lavoratori migranti al settore agroalimentare foggiano, il numero dei braccianti stranieri iscritti negli elenchi Inps provinciali: sono circa 15mila e rappresentano il 37% della forza lavoro totale. A questi vanno sommati quanti lavorano totalmente in nero, anche se negli ultimi anni abbiamo registrato un modus operandi differente da parte degli imprenditori agricoli: data la grande disponibilità di lavoratori stranieri, chi conduce le aziende preferisce evitare le possibili conseguenze civili e penali dell’assunzione di lavoratori in nero e per la legge clandestini, ricorrendo a forme minime di contrattualizzazione, per poche giornate. Zone di cosiddetto grigio, nella nostra provincia, testimoniate sempre dai dati dell’Inps: dei 15mila braccianti stranieri, circa il 75% è al di sotto delle 51 giornate lavorative. Ma così facendo si continua ad eludere l’erario con ripercussioni per le casse previdenziali, e si è comunque lontani dalla realtà delle prestazioni effettivamente fornite, perpetrando la pratica del pagamento a cottimo, non si rispettano le ore di lavoro contrattuali. Lasciando l’intermediazione al caporale di turno – quasi sempre un connazionale dei lavoratori impiegati nei campi – e alla più totale improvvisazione e precarietà le soluzioni di accoglienza, quasi sempre casali abbandonati, senza acqua potabile e dalle condizioni igieniche queste sì emergenziali. O con la costruzione di improvvisate tendopoli, come accade ogni anno nelle campagne di Rignano, veri e propri ghetti lontane dai centri abitati e per questo “tollerati” dalla maggioranza dei cittadini.
E’ toccato, in questo scenario, soprattutto al sindacato e alle associazioni di volontariato sopperire ai bisogni essenziali di questi lavoratori o farsi promotori presso le istituzioni di interventi minimi di assistenza sanitaria e per la disponibilità di acqua potabile. Da qualche anno la Cgil e la Flai ha messo in campo un percorso di tutela sindacale itinerante nel periodo estivo, un vero e proprio presidio del territorio per fornire assistenza e rappresentanza ai braccianti stranieri. A seguito delle azioni di denuncia del sindacato, la Regione Puglia – che con la giunta Vendola ha destinato forte attenzione al tema dell’accoglienza ai lavoratori migranti e della regolazione del mercato del lavoro – ha varato una legge, la numero 28 del 2006, di contrasto al lavoro nero, che prevede misure utili ad arginare fortemente il fenomeno dello sfruttamento e delle elusioni contrattuali. In primis, l’applicazione di indici di congruità, prevedendo un numero minimo di lavoratori e giornate denunciate per tipo di coltura. Una legge che non trova la piena attuazione per il forte contrasto delle associazioni produttive agricole.
Un precipitato del grave ritardo culturale degli imprenditori del nostro territorio, della difficoltà nel competere su mercati sempre più globali secondo dinamiche di qualità e ricorrendo così all’abbattimento di diritti e salari, della forte parcellizzazione del tessuto produttivo. Elementi per i quali è possibile sovrapporre l’analisi di contesto della provincia di Foggia al modello proposto per descrivere il “paradigma Rosarno” e agli elementi precursori individuati. Così come per l’alto tasso di inattività e per la presenza diffusa di lavoro irregolare. Dalla descrizione delle dinamiche in atto nella nostra provincia è altresì possibile una traslazione perfetta tra i due territori anche per gli elementi precipitanti: lavoro nero, caporalato, illegalità diffusa (la provincia di Foggia è al primo posto della classifica nazionale per l’aumento complessivo dei reati dal 2005 e per le estorsioni).
Crediamo che se fino ad oggi nella nostra provincia il gravissimo disagio sociale vissuto dai lavoratori migranti non è esploso con i connotati della rivolta così come a Rosarno, lo si deve allo straordinario lavoro di mediazione e assistenza svolto dal tessuto associativo e cooperativistico, anche grazie all’attenzione dedicata dalla Regione Puglia al tema del riconoscimento dei diritti di cittadinanza, oggetto di una legge, la n. 32 del 2009, costruita sul condivisibile assioma che il fenomeno migratorio è un dato di fatto, non più considerabile come emergenziale o peggio derubricabile a questione di ordine pubblico, e pertanto da affrontare con interventi quotidiani, strutturali (una delle tante leggi redatte dalla Regione Puglia e impugnate dal Governo, perché ritenuta in contrasto con la normativa nazionale). Va inoltre ricordato l’impegno quasi decennale nella nostra provincia di Medici Senza Frontiere, al quale da quest’anno si affianca anche quello di Emergency, che ha sottoscritto un protocollo con la Asl di Foggia per l’assistenza sanitaria itinerante tramite un bus-ambulatorio che girerà per il vastissimo agro della Daunia.
A differenza inoltre degli elementi detonatori individuati per Rosarno, non registriamo casi di razzismo diffusi tra la popolazione, né è possibile sostenere che l’intera filiera produttiva (in primis quella del pomodoro, la più importante per dimensioni e fatturati che sviluppa) sia controllata dalla mafia o dalla criminalità organizzata, che sfrutta invece le debolezze dei controlli dello Stato per lucrare attraverso il sistema delle imprese fantasma e delle false giornate lavorative registrate, che consentono di accedere ai soldi delle indennità di disoccupazione.
Approfondimento a parte merita, tra gli elementi detonatori segnalati, quello delle condizioni di schiavitù cui sono costretti i lavoratori. Di sicuro alcune vicende venute alla luce negli scorsi anni richiamavano un sistema di lavoro che pensavamo cancellato dalla storia e che era al centro delle prime battaglie fatte da Giuseppe Di Vittorio all’inizio del secolo scorso. Ma anche grazie alle denunce pubbliche e alla magistratura fatte dalla Cgil, a febbraio del 2008 c’è stata la prima condanna in Italia per “riduzione in schiavitù” da parte del Tribunale di Bari, un processo contro alcuni caporali che vessavano braccianti polacchi e nel quale la nostra Confederazione regionale si è costituita parte civile.
Segnali culturali e azioni di contrasto da parte di organi dello Stato che proviamo a valorizzare nella nostra azione sindacale quotidianamente, certi che solo così e unificando le lotte – senza differenze tra lavoratori stranieri e italiani, che reclamano eguali diritti – sarà possibile superare le condizioni di disagio sociale cui sono costretti migliaia di lavoratori stranieri. Un’attenzione vigile per tutto l’anno, anche quando le telecamere dei grandi media – oramai ospiti fissi in estate nella nostra provincia alla ricerca di qualche scoop – sono spente. Lo scorso anno due giovani lavoratori migranti hanno perso la vita d’inverno, quando i ricoveri di fortuna per la notte, senza riscaldamento o con bracieri improvvisati, non li hanno protetto dal freddo o dalle emissioni di monossido.
Ridurre i potenziali rischi di conflitto sociale e rendere più dignitosa la presenza, per tantissimi stabile, dei lavoratori migranti nelle nostre città deve essere un impegno che non può prescindere dall’azione delle istituzioni, assieme denunciando le lacune e il fallimento della legge nazionale sull’immigrazione. Tutto più difficile in un periodo di forte crisi che non risparmia, nella nostra provincia, anche il settore primario. E che spingono imprenditori senza scrupoli e dalla scarsissima propensione associativa ancor più ad innalzare i livelli dello sfruttamento, alla disperata ricerca della sopravvivenza in mercati competitivi e globali.
 
 
 
Nardò, allerta per il campo immigrati
Limite di 200 ospiti, sono quattro volte di più. "Entro una settimana attesi in 1500. Resta alta l´attenzione sul caporalato. "Solo 70 ora hanno un contratto regolare"
la Repubblica.it, 04-07-2011
CHIARA SPAGNOLO
NARDÒ - L'effetto Manduria si propaga come un'onda fino a Nardò. Nei campi delle angurie gli immigrati arrivano a frotte dalla vicina tendopoli, ma anche da altre regioni, e la masseria Boncuri, allestita per accoglierli, già non basta più. Duecento sono i posti ufficialmente disponibili nelle tende blu schierate davanti all'antica struttura a cui si aggiungono una cinquantina di giacigli improvvisati ma le persone in cerca di lavoro nell'area compresa tra Nardò, Copertino, Leverano e Porto Cesareo, sono molte di più. Almeno 800, nei giorni scorsi, destinate ad arrivare fino a 1.500 intorno alla fine della prossima settimana, quando nel Palermitano terminerà la raccolta delle patate e i contadini a giornata punteranno dritti verso il sud della Puglia. Sono in prevalenza tunisini ma anche algerini, ghanesi e sudanesi. Molti orbitano nel circuito degli stagionali e girano il Meridione seguendo il ritmo delle colture, alcuni sono ex lavoratori di Tecnova, che nei campi salentini hanno ritrovato i caporali che li sfruttavano nei parchi fotovoltaici in costruzione.
Il caporalato, tra i filari di cocomeri, è legge. Sistema che piace alle aziende, perché consente un controllo capillare delle squadre di immigrati, che vengono retribuiti a cassone quando raccolgono pomodori e a ettaro se si tratta di angurie. In entrambi i casi il lavoro è duro e malpagato. Le giornate, piegati sulla terra dall'alba al tramonto, fruttano circa 25 euro ma le prestazioni avvengono per lo più in nero. Certo, la situazione oggi è cambiata rispetto a pochi anni fa ma lo sfruttamento è ancora un'evidenza innegabile. I passi avanti fatti nei campi di Nardò li raccontano i numeri che snocciola Gianluca Nigro, della onlus brindisina Finis Terrae, che, tramite un progetto finanziato per 18.000 euro, gestisce la masseria trasformata in campo insieme alle Brigate di solidarietà attiva.
"Nel 2008 il lavoro era solo irregolare  -  spiega Nigro  -  nel 2009 furono fatti 10 ingaggi, 200 l'estate scorsa, quest'anno siamo già arrivati a 70". Settanta "fortunati", che lavorano in modo regolare. La maggior parte di loro orbita intorno alla masseria Boncuri, presidio di civiltà e legalità alle porte di Nardò. Gli altri, rimasti fuori, si arrangiano come possono nei casolari abbandonati, dove la notte si affollano spacciatori e prostitute, e dove nei prossimi giorni arriveranno altre centinaia di persone. Troppe per campi ormai poco redditizi, nei quali il costo del lavoro si abbasserà ancora di più. 
 
 
 
Immigrazione, separata a Lampedusa famiglia nigeriana si ritrova a Cagliari L'abbraccio al porto di Cagliari della famiglia riunita 
L'Unione sarda.it, 03-07-2011
Una storia con una trama da film e lacrime di gioia che hanno coinvolto mezzo porto per l'immancabile lieto fine. Monsour, nigeriano approdato nelle settimane scorse in Sardegna, ha potuto riabbracciare ieri la moglie Helen e il figlioletto di un anno sbarcati al Porto Canale di Cagliari insieme ad altri cinquanta extracomunitari.
Si erano separati più di un mese fa nella rocambolesca fuga dal Paese di Gheddafi: tutti e tre dovevano imbarcarsi per scappare dalla Libia, ma una sparatoria aveva costretto i tre a separarsi. Monsour era stato spinto a bordo dell'imbarcazione perché indossava il giubbino salvagente e attendeva sulla nave moglie e figlia. Gli spari avevano fatto precipitare la situazione: la barca, nonostante il disperato tentativo di Monsour di tornare a terra, era partita in tutta fretta dal porto di Tripoli, lasciando sulla banchina molti passeggeri tra i quali proprio la moglie e la figlioletta del lavoratore nigeriano. Una famiglia divisa dalla guerra e dalla fuga verso un futuro migliore. Da un'isola all'altra: Monsour, approdato a Lampedusa, è sbarcato il 17 giugno a Cagliari. Lo stesso percorso dei suoi familiari: approdati anche loro in un momento successivo, il 29 giugno, nell'isola siciliana. Madre e figlio sono stati individuati dalla Protezione Civile dopo la disperata segnalazione fatta da Monsour, e sono stati subito sistemati nel primo viaggio con destinazione Sardegna. Ieri l'atteso ricongiungimento e l'abbraccio tra le lacrime dopo la corsa di Helen, con il figlioletto legato sulla schiena all'uso africano, tra le braccia del marito. Ora vivranno tutti insieme a Sorgono, a un centinaio di chilometri da Cagliari, in un'ala della comunità protetta del paese, dove Monsour vorrebbe continuare a vivere e magari giocare da centrocampista nella squadra di calcio.
 
 
 
 
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