Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

02 dicembre 2013

La strage dei nuovi schiavi
Tragedia a Prato: brucia il capannone, muoiono 7 operai cinesi
Dormivano in fabbrica, lavoravano in condizioni drammatiche La Cgil: un’immensa illegalità
Intervista a Rossi: «Abbiamo permesso che crescesse quest’area extranazionale controllata dal racket.
E il sindaco Cenni semina soltanto paura»
«Una zona franca senza diritti nel cuore della Toscana»
l'Unità, 02-12-2013
intervista di Federica Fantozzi
«Facciamo subito un tavolo di lavoro con il governo nazionale che affronti con tutti i poteri dello Stato quella che è ormai una realtà extranazionale ed extralegale nel cuore dell’Italia. Una zona franca dove non ci sono diritti e regna il dominio del racket. Qui siamo ormai al di fuori dello Stato».
Enrico Rossi, governatore della Toscana, è in autostrada sulla via del ritorno da Prato: «È un dramma enorme, in quella fabbrica c’era un bambino che ha rischiato la vita. Dove eravamo tutti noi?».
Governatore, è strage in una fabbrica-dormitorio gestita da cinesi nel settore tessile. Oltre il dramma, esiste un problema Prato?
«Non c’è dubbio che esista, da anni, un problema più generale. Una zona franca di diritti civili e umani, sotto la soglia di tollerabilità. È l’area più ampia di lavoro nero e sommerso che esista nel Nord e Centro Italia, forse in Italia, forse in Europa. Si parla di 30mila, forse 40mila persone che lavorano a ritmi fuori controllo, giorno e notte, dormendo nei capannoni». Dove erano, dove sono, le istituzioni, compresa la Regione?
«C’è stata disattenzione da parte di tutti. Anche dalla sinistra, che su questi temi ha perso il Comune. Abbiamo capito troppo tardi, accumulato troppi ritardi. Lì dentro c’era un bambino, salvo per miracolo. Una donna ha riconosciuto in ospedale la catenina del marito. È un dramma enorme nel cuore della Toscana. Dove eravamo tutti? Questo dobbiamo chiedercelo. È una disgrazia che pesa sulle nostre coscienze».
Ebbene, quali errori sono stati commessi nella gestione di questo fenomeno? Come si è arrivati alle dimensioni colossali che lei racconta?
«Le indagini della Direzione Antimafia e delle Procure mostrano il dominio del racket della criminalità cinese. Taglieggiano la loro comunità. Emerge poco perché questo “distretto cinese delle confezioni” costruisce il pret-à-porter che viene venduto in tutti i negozi europei: un settore a sé che non fa concorrenza sleale alla moda italiana. Ma impostare la questione solo sul piano repressivo non funziona. I controlli non risolvono perché il problema rinasce cento metri più in là».
D’accordo, ma è possibile che esista una simile zona franca sotto gli occhi di tutti? Il sindaco di Prato Cenni (eletto con il Pdl) è un imprenditore dell’abbigliamento, conosce queste dinamiche. Che responsabilità ha il Comune? «L’unica colpa che si può dargli è di aver rincorso la repressione come unica soluzione. Il Comune ha giocato su una certa xenofobia e sulla “paura del cinese”».
Non è una colpa leggera.
«No. Ma questo aspetto chiama in causa anche le politiche del centrodestra sull’immigrazione. E l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni che non ci invitò come Regione al tavolo su Prato, almeno nella fase iniziale. Fu una disattenzione che pesò».
Quale contributo può dare a questo punto la Regione Toscana?
«Bisogna favorire con gradualità l’emersione di migliaia di lavoratori in condizioni subumane e privi di diritti. È un compito che impegna tutti, a partire dallo Stato. O diventa una questione nazionale da affrontare sotto diversi aspetti o il problema si incancrenirà. È un allarme che abbiamo già lanciato tante volte».
E in concreto, come si incentiva l’emersione del sommerso?
«Da un lato la leva repressiva serve, dall’altro occorrono incentivi per supportare l’integrazione. Lo Stato è l’unico a poter combattere la mafia cinese, ma anche a poter trattare con Pechino per imporre regole condivise. Noi siamo intervenuti sul piano sociale scuola e sanità ma sul fronte della legalità siamo impotenti».
Se il governo vi chiama, cosa andrete a dire a Roma?
Abbiamo un “progetto Prato” molto articolato e siamo pronti a esporlo. Ma Palazzo Chigi deve sostenerci con iniziative legislative. L’ultimo aspetto è quello della riqualificazione urbanistica. La gente non deve più dormire in loculi interni alle fabbriche, ma in abitazioni quanto più vicine a luoghi a norma. Per rendere il tessuto cittadino più permeabile e trasparente».



Prato, strage annunciata nella fabbrica dormitorio
Avvenire, 02-12-2013
È di sette morti, due ustionati gravi e due feriti lievi il bilancio dell'incendio scoppiato ieri a Prato in uno stabilimento di moda del Macrolotto, la zona
industriale alle porte del capoluogo toscano a denso
insediamento di manodopera cinese, stessa nazionalità di tutte le vittime. Secondo la ricostruzione dei fatti, l'allarme è scattato poco prima delle sette di ieri in questa zona in cui i cinesi vivono e lavorano in condizioni disumane, dove la commistione tra unità lavorative e abitative, nella più totale illegalità e assenza di norme di sicurezza, è diventata una costante.
A prestare i primi soccorsi è stato un ex carabiniere di passaggio che ha notato le fiamme e il fumo alzati dal forte vento che soffiava. Gli almeno 30 vigili del fuoco impegnati sul posto hanno trovato "nella parte destra c'erano i loculi dormitorio abusivi costruiti in cartongesso, uno sopra l'altro per sfruttare l'altezza del capannone". I pompieri hanno rinvenuto anche "letti, coperte, abiti, effetti personali. Nella parte più bassa del capannone erano ammassati numerosi
rotoli di stoffa e plastica usati per confezionare gli abiti. Tutto materiale altamente infiammabile.
Al rogo è scampato un bambino, mentre i vigili del fuoco hanno lavorato tutta la notte per spegnere del tutto le fiamme. Le cause della tragedia "potrebbero essere le più disparate: da una stufa elettrica usata per scaldarsi a un corto circuito, a una bombola gpl.
Oggi la Procura aprirà un fascicolo. L'ipotesi di reato partirà dall'omicidio colposo plurimo e dall'incendio colposo, ma le risultanze investigative potrebbero portare ad altre accuse".
Dall'inizio degli anni '90 sono almeno 4mila le aziende a gestione cinese operative nella moda insediatesi a Prato, dove è difficile adeguare questa realtà alle normative italiane sulla sicurezza e sul lavoro.
"Le aziende irregolari devono essere chiuse. La comunità cinese deve imparare ad aprirsi. Il mio pensiero è per la tragedia di Prato. Grave la violazione della dignità umana dei lavoratori". Così il ministro per l'Integrazione, Cecile Kyenge.



Letti come loculi e colonie di topi nell’inferno dei lavoratori-schiavi
Viaggio nella Chinatown industriale: “Ci importa solo mandare i soldi a casa”
La Stampa, 02-12-2013
Maria Corbi
Come dopo ogni disgrazia piovono le dichiarazioni di intenti: faremo vedremo, bloccheremo. «Come se oggi scoprissero l’acqua calda. Ma bastava venire qui con occhi aperti per capire che la situazione è da anni insostenibile».
Qui è il Macrolotto di Prato, la zona industriale fino a pochi anni fa vanto dell’imprenditoria tessile nazionale, oggi occupata dalle industrie cinesi e chi parla è uno dei tanti pratesi che non si stupiscono della tragedia quanto dello stupore di chi la commenta.  
Seicentomila metri quadri di capannoni, una città per lo più illegale, cresciuta nel silenzio di chi poteva fare qualcosa, iniziando dall’impedire che la dignità umana, insieme ai diritti, venissero calpestati in nome del profitto.
Seicentomila metri quadri di capannoni e quello dell’incendio è uno come tanti. Tante volte Finanza, Polizia e Carabinieri li hanno visitati trovando sempre le tracce più o meno evidenti dell’illegalità, dello sfruttamento, dell’evasione fiscale. Stanzoni con macchine per cucire, stiratrici, pelli, colle, sostanze tossiche che fanno compagnia ai bambini a cui tocca di vivere qui in clandestinità senza mai vedere la luce del sole. Fino a quando non avranno l’età, o solo l’altezza, per usare le macchine e entrare nel vortice produttivo che sforna abiti a prezzi stracciati.
Tanti gli imprenditori rovinati da questa concorrenza sleale che vince perché non rispetta le regole, a iniziare da quelle sulla sicurezza sul lavoro. Zhao deve avere una trentina di anni, forse meno, dice di stare in Italia da 8 anni, ma il suo italiano è elementare. Pochi i contatti con la popolazione locale. Vive anche lui in uno di questi capannoni e scuote la testa. Ma è difficile farlo parlare, ha paura. E come non capirlo visto che questo sistema illegale ha attirato la criminalità organizzata (un’inchiesta della procura antimafia ha ipotizzato il riciclaggio di quasi cinque miliardi di euro) e il racket degli operai-schiavi è n mano a potenti famiglie cinesi.  
Eppure le magliette , i pantaloni, gli abiti che nascono in questa Disneyland dell’illegalità possono tutte fregiarsi dell’etichetta made in Italy. Zhao ha la faccia spenta, senza emozioni mentre gli si chiede della tragedia di oggi. Viene dalla provincia orientale dello Zhejiang come tanti qui al Macrolotto. Dorme anche lui in un capannone e ha la sua “stanza” nello zaino: un materassino di gomma e una coperta di pile. Il pericolo dei controlli è sempre alto e bisogna essere pronti a cambiare dormitorio. «L’importante è lavorare», dice. O almeno sembra. «E mandare i soldi a casa». L’immagine delle sette vittime rende le sue parole agghiaccianti come la sua disperazione. Mentre le parole delle autorità che accorrono sul luogo della tragedia sfumano nel nulla, appannate dal freddo e dalla loro debolezza.
Una passeggiata per via Pistoiese, a Prato città, la più grande Chinatown d’Europa, rende l’idea della ricchezza e del potere con gli occhi a mandorla. Auto di grossa cilindrata, ovunque negozi di money transfer che a luglio sono stati rivoltati da cima a fondo per un giro sospetto di soldi verso la Cina, di circa 10 miliardi di euro (molti dei quali frutto dell’evasione fiscale e della vendita di vestiti contraffatti o di provenienza non controllata). Sui muri scritte con ideogrammi. L’ordinanza anti sputo sembra essere rimasta lettera morta. Gli italiani che sono rimasti alzano le spalle, vinti, arrabbiati non per intolleranza verso i vicini di casa orientali ma per essere stati lasciati soli, sacrificati.
Chi è entrato nei capannoni, come i finanzieri, ha trovato situazioni al di là dell’immaginazione: loculi di cartone o al massimo di cartongesso, a volte impilati, con aree comuni dall’odore nauseabondo condivise con colonie di topi e scarafaggi. Lettini da neonato addossati a mura umide e sporche, C’è poi chi dorme sotto la macchina da lavoro, riparato da una stoffa che poi dovrà cucire. Scenari medievali in una delle città più operose d’Italia, dove fino a dieci anni fa c’erano le più belle fabbriche di tessuti e filati.  
Oggi è l’invasione cinese del pronto moda, che popola le bancarelle dei mercati e gli scaffali dei negozi. «In tempi di crisi – ci dice una ambulante arrivata in serata a comprare merce – la gente vuole spendere meno e i cinesi hanno prezzi anche di due terzi inferiori a quelli dei prontisti nazionali». Sempre la solita storia.  
«Ma il problema non è di chi viene a comprare, ma di chi permette che si produca senza regole a danno dei lavoratori e della concorrenza leale», dice Fabio, figlio di un imprenditore che per non morire di fame ha dovuto anche lui allentare qualche regola. «Niente nomi, per carità, perché a noi italiani ci massacra Equitalia, mentre i cinesi la passano liscia».
Una tragedia che addolora, indigna ma non stupisce. «Questa tragedia, posso essere un po’ cinico, non mi sorprende», dice l’assessore alla sicurezza del Comune di Prato Aldo Milone, tra i primi ad arrivare davanti alla fabbrica distrutta. «Più volte abbiamo detto quello che poteva succedere in questi capannoni alla presenza di dormitori, con impianti elettrici scadenti, non a norma e con il vizietto dei lavoratori cinesi di fumare in continuazione». Negli ultimi controlli fatti, infatti sono state trovate molte sigarette per terra, vicino a materiali acrilici altamente infiammabili.  
Perché non è stato fatto niente? Milone rimanda la risposta al governo: «Ad Alfano lo scorso novembre abbiamo consegnato l’ennesimo dossier su Prato. Noi in quattro anni abbiamo controllato 1.200 aziende su 3.500».
 


L'odissea del barcone con oltre cento migranti: ancora alla deriva nel mare della Calabria
la Repubblica, 02-12-2013
ROMA - Fiato sospeso nel mare in tempesta della Calabria. E' ancora alla deriva, al largo di Crotone, il peschereccio avvistato ieri mattina a bordo del quale vi sono un centinaio di migranti - tra loro donne e bambini.
Barcone alla deriva: le foto dei migranti che chiedono aiuto
Navigazione per la galleria fotografica
Per tutta la giornata di ieri è stato impossibile intervenire, e ancora all'alba nella zona le condizioni meteorologiche erano pessime, con mare forza 7-8 e vento molto forte. Ma in mattinata è previsto per alcune ore un miglioramento, ed è in quella 'finestra' che la Guardia Costiera valuterà se vi siano le condizioni per intervenire e trasferire i migranti su una delle unità che partecipano ai soccorsi. L'intervento, nelle condizioni attuali, non è possibile a causa dei rischi di collisione o di capovolgimento del barcone.
Condividi  
Il peschereccio - una 'carretta del mare' - è sorvegliato dagli equipaggi di quattro mercantili dirottati ieri nell'area dalla centrale operativa delle Capitanerie di Porto e, per tutta la scorsa notte, è stato illuminato dagli stessi mercantili e da mezzi aerei della Guardia Costiera e della Marina Militare che partecipano ai soccorsi.
Ieri sera aveva raggiunto l'area dei soccorsi anche una motovedetta di grandi dimensioni - la CP300 - della Guardia Costiera; la scorsa notte è arrivata la Fregata Grecale della Marina Militare.



Rosarno, la raccolta delle arance uccide ancora trentunenne liberiano muore per il freddo
Pubblichiamo un articolo tratto da Terre Libere. Dominic Man Addiah deceduto venerdì. Non aveva trovato posto nella tendopoli. Era arrivato per la raccolta della frutta. "Qui si muore di freddo, polmonite o in bici per strade non illuminate", denunciano le associazioni. Il sistema economico continua a sfruttare la manodopera straniera senza garantire condizioni dignitose
la Repubblica, 01-12-2013
ROSARNO - È sfuggito ai drammi della Liberia - si legge sul sito di Terre Libere - per venire a morire di freddo nel cosiddetto "primo mondo". Dominic Man Addiah, 31 anni, nato a Monrovia, dormiva in auto a Rosarno. Avrebbe festeggiato il suo compleanno il primo gennaio prossimo. Secondo la stampa locale, non ha trovato posto nella tendopoli. Era uno degli africani in attesa di trovare lavoro come raccoglitore di arance.
L'inchiesta della Procura di Palmi. La procura della Repubblica di Palmi ha aperto un'inchiesta e disposto l'autopsia. Le indagini riguardano il comportamento degli uomini del 118. Secondo il Quotidiano della Calabria, "il personale sarebbe intervenuto, stando a quanto hanno riferito gli amici dell'immigrato, soltanto un'ora dopo la telefonata fatta alla centrale operativa del servizio. I sanitari che hanno attuato il primo intervento e praticato un'iniezione all'immigrato sarebbero andati via inoltre assicurando [...] "che sarebbero tornati dopo un'ora per accertarsi delle condizioni di Addia. Secondo intervento che, invece, non c'è mai stato". Sarebbero stati i suoi compagni a portarlo in auto all'ospedale di Gioia Tauro, quando ormai non c'era più niente di fare.
Non è la prima tragedia del genere. Marcus era nato in Gambia e aveva girato mezzo mondo prima di arrivare nelle campagne calabresi. Viveva - come gli altri lavoratori africani - in condizioni durissime. Ed era malato. È morto alla fine del 2010 - proprio tre anni fa  - nell'ospedale di Lamezia, assistito dai volontari che hanno dovuto comunicare la triste notizia ai familiari in Africa. Lo scorso anno, un altro ragazzo africano è morto dopo essere stato investito. "Qui si muore con la bici perché le strade extraurbane che non sono illuminate", dice Giuseppe Pugliese di Africalabria, "nonostante da 20 anni su queste strade circolino, a piedi o in bici, centinaia di persone".
I "caporali" reclutano nelle strutture dello Stato. Durante la scorsa stagione di raccolta, la vicenda della tendopoli è stata una lunga e paradossale telenovela malgestita dal ministero degli Interni, all'epoca il prefetto Anna Maria Cancellieri. Una prima struttura insufficiente circondata da una baraccopoli, una seconda - nuovissima - ma entrata in funzione a raccolta finita. In mezzo, ritardi per allacci dell'elettricità e una sciatteria che ha portato i lavoratori - per la maggior parte della stagione - a vivere in mezzo al fango sotto i loghi dello Stato italiano. La struttura, da marzo in poi, è stata lasciata in stato di abbandono, "autogestita" dai pochi immigrati rimasti. L'inchiesta Men at work della Procura di Palmi dimostrava, qualche mese dopo, che i caporali andavano a rifornirsi di braccia proprio nei pressi della struttura statale.
Lo sfruttamento diventi un costo delle aziende. A settembre, in Piemonte, si sono create ancora baraccopoli di braccianti africani e dell'Est Europa. Lavoratori impegnati nella raccolta della frutta e persino nella vendemmia del moscato d'Asti. Le associazioni della zona hanno chiesto che l'accoglienza diventi un costo aziendale e che non sia scaricato sulla collettività e sul welfare. Ogni azienda che assume dovrebbe produrre una dichiarazione di ospitalità. Rosarno è diversa? Sì e no. Anche qui ci sono gli "invisibili". Grandi commercianti, da un lato, multinazionali e grande distribuzione dell'altro. Sono loro che vendono e acquistano gli agrumi, generando profitti. Sono loro, adesso, che devono farsi carico di condizioni dignitose dei lavoratori. Non certo la generosa società civile locale, che ha fatto negli anni anche troppo. Non certo i piccoli produttori, interfaccia con i media ma economicamente irrilevanti.



“Senza immigrati l’Italia  non si regge in piedi”
I migranti negli ultimi 20 anni sono quasi decuplicati, ma è grazie a loro se riusciamo  a colmare la voragine demografica dovuta al fatto che non facciamo più figli
La stampa, 02-12-2013
Daniele Marini*
Il nostro Paese ha bisogno degli immigrati. Potrà piacere o meno, ma costituiscono una realtà ineludibile, con la quale è necessario fare i conti non solo quando nei punti di approdo della nostra penisola si assiste a un ingolfamento degli arrivi o alle stragi di persone a poche miglia dalla costa, come per Lampedusa. Anche perché tali approdi proseguono periodicamente, pure al di fuori dei riflettori mediatici. È ormai il tempo per affrontare la questione in modo (possibilmente) razionale e non più emergenziale.  
Le migrazioni assumono il connotato di vero e proprio fenomeno negli Anni ’80 con l’afflusso crescente di popolazioni dai diversi sud del mondo. Nel 1991 il tasso di popolazione migrante in Italia era lo 0,9%, nell’arco di poco più di vent’anni è arrivato a toccare la soglia dell’8% (stima 2012). Come sempre, si tratta di un dato medio che nasconde situazioni molto diversificate. In alcuni comuni, soprattutto nelle realtà più produttive del Nord, tali soglie superano da tempo il 20%. Le proiezioni per i prossimi anni prefigurano una presenza prossima all’11% (nel 2020, secondo l’Istat).  
La crisi economica ha sicuramente fatto defluire quote di migranti e ha rallentato l’arrivo complessivo dei flussi, ma questi non si sono arrestati. A dispetto di quanti semplicisticamente vorrebbero bloccare gli approdi (perché non c’è lavoro neppure per noi, perché c’è la crisi, …), i migranti giungono in Italia perché spinti da condizioni estreme nei loro Paesi d’origine: carestie, povertà, persecuzioni. Disposti, dunque, a qualsiasi prezzo pur di fuggire da situazioni disumane. Qualsiasi luogo è migliore di quello da cui muovono. Ma non c’è solo un motivo di spinta a uscire dai loro contesti. Anche noi abbiamo responsabilità che sono, in primo luogo, legate ai nostri comportamenti riproduttivi, da diversi lustri largamente insufficienti a realizzare un effetto sostitutivo della popolazione. I demografi lo ripetono (inascoltati) da anni ed è ormai un problema noto, ma la crudezza di pochi dati danno bene la misura: sempre secondo l’Istat, il saldo naturale (la differenza fra i nati vivi e i deceduti) è costantemente negativo ancora dai primi Anni 90 - con la sola eccezione del 2006. Nel 2012 i nati sono stati 534.186, i deceduti 612.883. Il numero di figli per donna in età fertile è stimato essere nel 2013 di 1,46 (era 2,40 nel 1960), in costante leggero calo dall’avvio della crisi economica.  
Un dato positivo soprattutto in virtù delle coppie migranti che fanno mediamente più figli degli autoctoni, anche se le difficoltà economiche influiscono pesantemente e fanno diminuire le nascite fra gli immigrati.  
Avendo generato una voragine demografica, non è pensabile che la struttura della popolazione riesca a sostenersi autonomamente. Anche perché a un minor numero di figli, è corrisposto negli anni un miglioramento delle aspettative di vita, cosicché la popolazione italiana invecchia progressivamente. Invertire le tendenze di simili fenomeni richiede molti anni e politiche finalizzate a sostenere le famiglie e la natalità, da un lato; e, dall’altro, a gestire i flussi migratori e a favorire l’inte(g)razione. Nel frattempo, come dimostra l’ultima rilevazione di LaST (Community Media Research - Questlab per La Stampa), gli orientamenti della popolazione nei confronti dei migranti sembrerebbero mutare segno nel tempo. Il confronto con un’analoga ricerca curata da Diamanti (2007) mette in luce una maggiore apertura della popolazione nei confronti dei migranti, a dispetto di quanto le cronache generalmente pongono in evidenza. L’idea che comunque una presenza di persone portatrici di altre culture costituisca un arricchimento reciproco è patrimonio di una parte ampia fra gli italiani (72,7%).  
Così come il fatto che costituiscano una risorsa importante per la nostra economia (72,5%). D’altro canto al di là degli stereotipi, che comunque persistono, una quota significativa di migranti (anzi, le migranti) abitano nelle nostre famiglie, sono entrate a farne parte integrante accudendo gli anziani. Siamo in contatto con culture diverse, con stili di vita e Paesi finora sconosciuti, nelle nostre case, nella quotidianità. Sono scattate forme di micro-solidarietà diffuse. Come dimenticare gli aiuti offerti dagli abitanti di Lampedusa verso i profughi, quelli delle di associazioni a favore dei nuovi arrivati. Non si tratta di «buonismo», ma di osservare come nel fluire quotidiano e con la reciproca conoscenza sia possibile sperimentare forme di inte(g)razione positiva.  
Il mix culturale è nelle classi delle scuole così come nello sport, nella nostra nazionale di calcio (e non solo).
E su fino ai livelli istituzionali più elevati, come nel caso del ministro Kyenge. I matrimoni misti sono il 13%.  
Senza volere negare i problemi che una coesistenza genera, alla necessità di regolare i flussi degli arrivi e al rispetto delle regole di convivenza della nostra comunità, tuttavia dobbiamo guardare - almeno in modo razionale-egoistico, come sottolineava Giovanna Zincone su queste colonne qualche giorno fa (il 25 novembre) - ai migranti come una risorsa: senza il loro apporto non solo la nostra economia, ma anche la struttura della popolazione non si sarebbe potuta reggere in questi anni e, a maggior ragione, per i prossimi anni a venire. Siamo già, in modo inconsapevole, diventati una realtà nazionale multietnica. Per il nostro futuro, dobbiamo trasformarla in una comunità consapevole.
*Università di Padova  



Servizio Civile aperto agli stranieri? La sentenza c'è, ma tutto tace
Quindici giorni fa il giudice ha ordinato di accettare le domande dei giovani non italiani,  eppure l’Ufficio Nazionale non si è ancora adeguato e il ministero dell'Integrazione non dice quando lo farà. Più giorni passano, più tardi partiranno i volontari
stranieriiniitalia.it, 02-12-2103
Elvio Pasca
Roma -2 dicembre 2013 – Il giudice ordina, il governo non esegue.
Sono passate quasi due settimane da quando il tribunale di Milano ha aperto il Servizio Civile Nazionale ai ragazzi stranieri regolarmente residenti in Italia, dichiarando “discriminatorio” il requisito della cittadinanza italiana. Il giudice ha ordinato all’Ufficio Nazionale del Servizio Civile “di fissare un termine non inferiore a 10 giorni dalla comunicazione della presente ordinanza  per la presentazione delle ulteriori domande di ammissione”.
Finora, però, quell’ordinanza è rimasta lettera morta. I ragazzi stranieri non sanno quando potranno presentare le loro domande, gli enti che dovrebbero accoglierle non sanno come regolarsi.
Dall’Ufficio Nazionale del Servizio Civile non danno date, fanno capire solo che “ci stanno lavorando parecchio” e per maggiori informazioni rimandano alla ministra dell’Integrazione, che ha la responsabilità politica della struttura. L’ufficio stampa di Cècile Kyenge, però, prima rimanda a sua volta agli “uffici preposti”, poi ammette che non c’è ancora una risposta. Eppure la domanda è semplice: “Quando verrà riaperto il bando accettando le domande dei ragazzi stranieri?”
Intanto, ogni giorno che passa, rende più complicata la situazione. Perché se la sentenza del giudice era arrivata a tempi di record, permettendo praticamente di riaprire le domande prima ancora che iniziasse la selezione dei volontari, procrastinare questa finestra non farà bloccare tutto in attesa delle nuove domande, col risultato che tarderanno le partenze dei volontari e l’avvio dei progetti ai quali dovranno dedicarsi.
L’ Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e Avvocati Per Niente onlus, che hanno promosso il ricorso di Milano insieme a quattro figli di immigrati, parlano di “inerzia incompatibile non solo con l’obbligo della Pubblica Amministrazione (come di qualsiasi cittadino) di dare immediata esecuzione alle pronunce della magistratura, ma anche con  le esigenze di funzionalità del servizio civile e con le aspettative di molti giovani”.
“Se la partenza dovrà essere differita- sottolineano Asgi e Apn - il ritardo sarà esclusivamente imputabile all' inerzia del Ministero dell'Integrazione, che detiene la delega al Servizio Civile. Non possiamo che invitare nuovamente il Ministero e l’Ufficio Nazionale a dare immediata esecuzione all’ordinanza, permettendo cosi' ai giovani stranieri di partecipare alle selezioni in condizioni di parità con i giovani di cittadinanza italiana senza ulteriori e illegittimi ritardi”.
La stessa ministra Kyenge aveva accolto favorevolmente la sentenza di Milano (“Un bel passo, si riconosce l'importanza di un certo percorso”) e aveva aggiunto: “un tribunale si è pronunciato e questo verrà sicuramente guardato con attenzione dal mio ministero”.Bene, ma quando?



Gli immigrati: «Ora lo ius soli per legge»
Le associazioni esultano e la Lega attacca. Zaia: «Operazione raffazzonata». Bitonci: «Sarà un’invasione»
Corriere della sera, 02-12-2013
TREVISO — La «cittadinanza civica per ius soli» che sarà conferita dal Comune di Treviso ai figli degli immigrati residenti in città apre una discussione che varca i confini locali. Ora la speranza degli stranieri è che il gesto simbolico di Ca’ Sugana venga recepito anche a Roma, dove devono essere prese le decisioni in merito alla cittadinanza italiana. «Speriamo che chi sta al governo ascolti la voce del territorio - commenta Abdallah Khezraji, vicepresidente della consulta regionale per l’immigrazione -, il passo fatto da Treviso e altre amministrazioni oggi impone un ragionamento più ampio».
La delibera Il documento della giunta guidata da Giovanni Manildo, primo vero atto di rottura rispetto alla precedente amministrazione leghista, non ha valore giuridico, ma è un segnale di apertura e integrazione, oltre che un modo per sostenere la battaglia sullo ius soli, condivisa anche dagli amministratori cittadini. Una parte di Treviso però continua ad opporsi: la Lega e il centrodestra hanno votato no al provvedimento adottato dalla maggioranza del Consiglio e che è passato con 21 voti favorevoli e 6 contrari. «Vista la celerità con cui il regolamento è stato approvato prendo atto che l’emergenza di Treviso è la cittadinanza ai bambini stranieri - commenta il presidente della Regione Luca Zaia -. Premesso che io sono contrario allo ius soli, dico che questo conferimento è la volontà di caratterizzarsi politicamente di questa amministrazione, non un’azione a tutela di qualcuno. Ma ci leggo anche il fallimento delle politiche per l’immigrazione del ministro Kyenge». Poi attacca: «Quello che viene proposto da Treviso non è ius soli, la giunta è la prima a smentirlo con questa operazione raffazzonata - continua Zaia -. Se ci credessero davvero dovrebbero partire dalle pediatrie e dalle ginecologie, non dalla prima elementare». Questo perché il Comune ha deciso che il conferimento andrà ai bambini che frequentano le scuole a Treviso.
«Una triste parentesi» È stata dura anche la reazione del capogruppo della Lega in Senato Massimo Bitonci: «Dietro al volto suadente e ai modi spocchiosi di Manildo si nasconde il dramma dell’invasione. Una città che, fra le poche in Veneto, era riuscita a rimanere sicura e pulita, nonché modello positivo di integrazione, ora è vittima dell’ideologia dell’accoglienza a tutti i costi e a spese dei cittadini. Mi spiace per i trevigiani e per Treviso dove, sono certo, dopo questa triste parentesi tornerà a governare la Lega».
La soddisfazione Le associazioni che si occupano di politiche per l’immigrazione però apprendono con soddisfazione dell’approvazione. «Gli immigrati che vivono in provincia di Treviso sono oltre centomila e uno su cinque è nato in Italia, circa ventimila ragazzi - spiega Franco Marcuzzo, presidente di Anolf -. Ogni cento nati, 24 sono figli di immigrati, uno su quattro. Quella della cittadinanza è una questione che non si può continuare a rimandare, e non solo per la consistenza dei numeri. L’accelerazione di questo percorso promossa dal Comune di Treviso è molto importante». Qualcuno ha già chiamato in associazione per informarsi: «Ci chiedono se questo permetterà di ridurre i tempi per la cittadinanza - continua Marcuzzo -. Sono due questioni molto diverse, ma credo che il tema della cittadinanza mitigata o dello ius soli vada affrontato in tempi brevi. A Treviso va il merito di aver aperto una discussione che non risponde a un’ideologia, ma a una domanda che viene da chi vive nelle nostre terre e contribuisce allo sviluppo della nostra società».
«Un nuovo corso» «Per la città è un segnale molto importante - chiude Khezraji -, speriamo che anche la Lega apra una riflessione su questo tema, e che decida di partecipare alla costruzione di una nuova Treviso. Abbiamo voltato pagina, ora a Treviso l’aria è diversa».



Intervista a Roberto De Angelis
Immigrazione e Periferia
Dal Bangla tour dei neofascisti alle periferie delle metropoli
L'Indro, 02-12-2013
Marco Piccinelli
Tor Pignattara un po’ di tempo fa era considerato un quartiere della periferia romana, ora è uno dei primi quartieri a ridosso del centro della Capitale. La sua storia è di quelle con la S maiuscola: Catacombe di San Marcellino, Residenza della madre dell’Imperatore Costantino, teatro di primo piano della Resistenza romana e, ora, luogo di incontro di varie culture; secondo quartiere multietnico dopo Piazza Vittorio, luogo che dà i natali alla ormai famosissima orchestra omonima che ne rappresenta al meglio l’anima.
Il quartiere, Tor Pignattara, dunque, è noto anche per la sua inclusione: la Casa del Popolo organizza corsi di italiano per stranieri sempre affollatissimi, le organizzazioni di immigrati bengalesi sono ben integrate col territorio, così come quelle di altri gruppi etnici. Qualcosa, però, non è andato per il verso giusto: nel corso di quest’anno, tra Tuscolano e Casilino sono stati 50 i pestaggi a bengalesi del ‘Bangla Tour’, questo il nome della missione di alcuni affiliati della destra eversiva romana. Forzanovisti  e altri appartenenti al mondo neofascista ne hanno rivendicato alcuni atti e, per un pestaggio ad un bengalese, è stato fermato un sedicenne. D’altra parte anche la Capitale, attraverso nuovi agglomerati urbani sempre più esclusivi, più che inclusivi, hanno dato opportunità ad alcune organizzazioni estremistiche di usare l’immigrazione clandestina come leva per la più becera propaganda.
Il prof. Roberto de Angelis, docente di Sociologia delle Città presso l’Università ‘La Sapienza’ di Roma, ci aiuta ad analizzare questo fenomeno partendo da una distinzione. I nuovi quartieri, i nuovi agglomerati urbani, possono essere teatro di incontro multiculturale e di degrado, tutto questo può portare ad acuirsi di estremismi politici: “Non sono tanto d’accordo sul fatto che la presenza di migranti costituisca un indicatore di degrado. Le faccio un esempio: a partire da Bangla Tour, bisogna dire che i quartieri dove sono  maggiormente insediati i migranti del Bangladesh sono zone pregiate come l’Esquilino, oppure Tor Pignattara”. Quest’ultimo era “un quartiere periferico ma oggi è una delle primissime periferie il quale, grazie alla presenza di migranti asiatici, come i bangladeshi e i cinesi, in qualche modo ha ritrovato la sua vitalità commerciale. Per cui starei attento a parlare di degrado, perché il termine, normalmente, viene utilizzato in una maniera impropria. Per quanto riguarda il caso di Torpignattara, dunque, ci sono delle problematiche che sono legate alla periferia. Nel caso dell’Esquilino è diverso: quella, ripeto, è una delle zone più pregiate di Roma per cui sia i bangladeshi che i cinesi si sono inseriti perché era uno spazio disponibile sul mercato. E, dato che oggi si inneggia al mercato che deve essere assolutamente sovrano, si sono trovati un pezzo di città a prezzi ridotti, a causa della crisi di tutta una serie di realtà economiche della città, e vi si sono inseriti”. Essi, però, conferma il professore: “non sono assolutamente in concorrenza con attività economiche o portate avanti da cittadini italiani: i bengalesi sono perlopiù commercianti, soprattutto a Torpignattara, che è stata definita una città-emporio. E poi, fanno mestieri di strada che conosciamo tutti: venditori di ombrelli, venditori di palloncini a Piazza Navona o da altre parti, e non sono assolutamente in concorrenza con i nostri connazionali”.
Stando al Bangla Tour, però, forzanovisti, quindi neofascisti, hanno rivendicato pestaggi a danno delle comunità bengalesi.  Stando a Tor Pignattara com’è possibile che, nonostante il quartiere abbia una storia che dia unimprinting  ben chiaro al suo passato, ora sembra preda di facili estremismi? De Angelis: “C’è da fare una distinzione, ancora una volta: io credo che il quartiere non c’entri assolutamente nulla. Questi sono fatti gravissimi che, però, declinerei in una maniera diversa, un po’ più specifica: cioè come forme di bullismo razzista, nomade per la città. Per cui se un gruppo di adolescenti, diciamo così, frustrati, che in piccoli branchi sono alla ricerca disperata di una dignità identitaria, molto difficile in tempi di crisi, tempi nei quali quella che era l’estrema destra - se prima era diventata berlusconiana - si è persa completamente dal momento che gli ultimi riferimenti sono quelli di Forza nuova e Casa Pound. Questi piccoli gruppi che organizzano questi tour -  se li fanno -  possono colpire dovunque e in qualsiasi situazione, non necessariamente col consenso, diciamo così, popolare: tutt’altro”.
Anche perché, prosegue il professore “Non dimentichiamoci che la specificità delle nuove migrazioni, di tutte le migrazioni che riguardano il nostro Paese, sono tali da essere fortemente integrate in quelli che sono i bisogni di servizi del quotidiano. Pensi a tutte le centinaia di migliaia di colf e badanti o, comunque, di persone che sono addette alla persona. Se esse non fossero nel nostro Paese, ci ritroveremmo immediatamente di fronte ad una delle crisi più spaventose”.
“I comportamenti, questi gravissimi del Bangla Tour – prosegue il docente - che andrebbero repressi, prevenuti e stigmatizzati adeguatamente, sono, però, disperati ed episodici. Essi non sono rappresentativi di quello che è un sentore generale della popolazione nei confronti del fenomeno immigrazione. Nonostante ci siano forze politiche del nostro Paese, che hanno avuto anche rappresentanza nazionale e ministri della Repubblica, che hanno spinto e hanno centrato la loro campagna elettorale contro la presenza degli immigrati. Pensi alla Lega Nord…”. Il reato di clandestinità, infatti, è un prodotto della legge Bossi-Fini, esponenti di Lega Nord e della fu Alleanza Nazionale.
I quartieri della periferia romana, però, certo non includono situazioni che potrebbero essere di forte cooperazione sociale, più che di esclusione. De Angelis, conoscendo bene la realtà del Casilino oltre il Grande Raccordo Anulare, spiega che “in zone come Ponte di Nona e Tor Bella Monaca ci ha lavorato tutta una vita: sono un etnografo di strada, un antropologo urbano e conosco anche queste situazioni estreme. Per cui nella realtà come può essere quella di Tor bella monaca accadevano, spesso, dei fatti di violenza gratuita alle fermate dell’autobus, sono state fatte saltare delle frutterie rumene, sono stati picchiati diversi immigrati, ma sono tutti fatti – ripeto, gravissimi -  ma non di significativo disagio nei confronti dei migranti. Proprio per parlare della Nuova Ponte di Nona e Tor Bella Monaca sono dei quartieri, in questo momento, di una sofferenza sociale che è pressoché inimmaginabile: la maggior parte delle persone, in certi casi, è costretta a sopravvivere alternando le poche occasioni di lavoro legale con l’illegalità, allo spaccio. Cioè, spaccio per necessità. Per sopravvivere. Non è assolutamente in concorrenza con i migranti. Se noi consideriamo degrado e sofferenza sociale, esso non è portato da (i migranti nda). A Ponte Di Nona, per esempio, sono state realizzate degli edifici di edilizia popolare di grande pregio, anche dal punto di vista architettonico dell’architetto Portoghesi: tutte villett policrome. Lì, ad esempio, ci sono delle situazioni di persone, che vivono lì dentro, che è esplosiva: la casa, benché gradevole, non basta risolvere i problemi delle persone. Mentre, invece, i migranti che si trovano a vivere lì, nello stesso contesto, che hanno ottenuto le case popolari – a Ponte di Nona, infatti, è presente anche un piccolo spazio-Moschea - non si trovano nelle condizioni di sofferenza che hanno i nostri connazionali. Essi ci arrivano con tutta una rete forte di capitale sociale, che hanno diffuso nella metropoli: l’arrivo alla casa popolare è un ulteriore elemento di rinforzo nella loro strategia migratoria. Per cui, tra i migranti, tra i pochi migranti che si trovano lì, e tra i nostri connazionali, c’è una lontananza incredibile”.

Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links