Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

12 gennaio 2015

Sbarchi, giunti in Calabria 476 migranti
I migranti, di sedicente nazionalita' siriana, senegalese, somala e ghanese, navigavano a bordo di 5 gommoni e 1 barcone.
stranieriinitalia.it, 12-01-2015
Roma, 12 gennaio 2015 - Sono giunti a mezzanotte nel porto di Corigliano Calabro a bordo della CP 920 nave Gregoretti della Guardia Costiera, i 476 migranti, tra cui 43 donne e 15 minori, tratti in salvo dopo una serie di operazioni di soccorso al largo delle coste libiche.
I migranti, di sedicente nazionalita' siriana, senegalese, somala e ghanese, navigavano a bordo di 5 gommoni e 1 barcone. Le richieste di aiuto sono giunte nella giornata di giovedi' alla Centrale Operativa del Comando Generale delle Capitanerie di porto - Guardia Costiera a Roma, che ha coordinato i soccorsi. Dopo aver localizzato le chiamate dei migranti, sono stati dirottati 4 rimorchiatori e 1 mercantile che hanno prestato una prima assistenza alle persone in difficolta', procedendo al loro trasbordo.
Successivamente e' stato disposto l'invio di nave Gregoretti che, una volta raggiunte le acque Sar libiche, ha trasbordato tutti i migranti dalle unita' navali dirottate. Nel pomeriggio di venerdi', durante la navigazione verso le coste siciliane, al largo dell'isola di Lampedusa si e' resa necessaria l'immediata evacuazione medica di una donna in avanzato stato di gravidanza che si trovava a bordo di nave Gregoretti. Sul punto e' stato disposto l'invio della CP319 della Guardia Costiera con personale medico Cisom a bordo, per effettuare il trasbordo della donna, insieme al marito e alla figlia di 1 anno, e trasferirli velocemente a Lampedusa.



In Francia resta l'allerta. Sarkozy e Orban: "Basta immigrati"
Prosegue la caccia ai presunti complici di Coulibaly. Migliaia di agenti a protezione delle scuole ebraiche del paese. L'ex presidente francese e il primo ministro ungherese dicono che bisogna chiudere le frontiere
Il Foglio, 12-01-2015
Amedy Coulibaly l'autore del massacro di quattro ebrei nel negozio kosher di Vincennes e prima ancora di una poliziotta "aveva senza alcun dubbio un complice". Ne è convinto il premier francese Manul Valls ribadendo che "la caccia continua". Nel giorno del massacro, il 9 gennaio, si era sospettato della compagna, Hayat Boumeddiene. La donna tuttavia aveva lasciato la Francia una settimana prima, il 2 e l'8 gennaio ha fatto ingresso in Siria. Ma oltre lla caccia ai complici di Coulibaly, la Francia sta concentrando i propri sforzi per assicurare la sicurezza degli obiettivi più sensibili. Il ministro dell'Interno Bernard Cazeneuve ha spiegato che 5.000 agenti e soldati proteggeranno le 700 scuole abraiche in tutto il paese, non solo a Parigi. Restano nella memoria della Francia i 4 ebrei, tra cui 3 bambini, uccisi a Tolosa proprio davanti una scuola ebraica elementare il 19 marzo 2012, dal 23enne franco-algerino Mohammed Merah. Ora gli stessi istituti sono tornati al centro dell'attenzione dopo il video postumo diffuso da un complice di Coulibaly in  cui l'attentatore accennava alla volontà di colpire una scuola ebraica nella capitale.
Il ministro della Difesa, Jean-Yves Le Drian ha affermato che oltre a proteggere le 700 scuole ebraiche francesi con 5.000 tra agenti e gendarmi, il governo francese schiererà fino a 10.000 soldati a protezioni dei cosiddetti siti sensibili, suscettibili di attacchi.
I governi europei intanto si interrogano sulle possibili contromisure per evitare che nuove stragi possano ripetersi. L'area di libera circolazione di Schengen è sempre più nel mirino dei politici francesi e non solo. All'indomani della marcia in cui si è stretto al rivale e successore Francois Hollande, Nicolas Sarkozy, tornato leader dell'Ump, prova a smarcarsi per rubare voti al Front National di Marine Le Pen. L'ex presidente afferma che alla luce della strage di Parigi l'immigrazione "se non è legata al terrorismo quanto meno complica le cose". "La questione dell'immigrazione dovrà essere soggetta a un dibattito profondamente accurato perché non possiamo continuare così. L'immigrazione che crea problemi di integrazione porta a creare comunità (chiuse, ndr)" dove le persone, ha proseguito Sarkozy, che hanno causato la strage al settimanale Charlie Hebdo - riferimento ai fratelli due franco-algerini Kouachi - si possono nascondere.
Sulla stessa linea critica nei confronti della libera circolazione e, in senso più ampio, dell'immigrazione in sé, si sono posti anche altri governi europei. Dopo aver partecipato ieri alla marcia contro il terrorismo a Parigi, il controverso premier ungherese Viktor Orban, si è detto convinto che l'immigrazione vada fermata e ha chiesto all'Ue una dura risposta alla strage della settimana scorsa. "Non dovremmo considerare l'immigrazione solo come un dato economico perché porta solo problemi e rappresenta una minaccia per il popolo europeo. Pertanto l'immigrazione va fermata. Questa è la posizione dell'Ungheria", ha detto Orban considerando come unica eccezione i richiedenti asilo.



Il giorno dell`unità Due milioni di persone hanno sfilato a Parigi Adulti e bambini, signore dell`alta società e ragazzi delle banlieu, tutti insieme lungo gli immensi boulevard e nelle piazze per rendere omaggio alle diciassette vittime dei terroristi
Liberté
«Non ci avete cambiato, non ci cambierete mai» E la folla oceanica regala un`ovazione ai poliziotti
Corriere della sera, 12-01-2015
Marco Imarisio
PARIGI C`è posto per tutti. La piccola Sophie sbuca dalla scala del metrò di me Réaumur alzando con le mani sopra la testa un disegno semplice che i bambini delle elementari fanno almeno una volta nella vita, un girotondo intorno al mondo tenendosi per mano, e ogni ornino somiglia a una razza, e in cima al foglio, accanto al sole, una scritta fatta con tanti gessetti colorati, c`è posto per tutti.
Agli arrabbiati e agli antagonisti perenni, nemici ad ogni costo del vogliamoci bene e della sua eventuale, forse inevitabile retorica, non piacerà una giornata come questa, con gli applausi e i merci in coro alle ambulanze che soccorrono chi ha un malore nella ressa, ai gendarmi, al passaggio dei blindati della polizia, agli immigrati della banlieue che dai tetti delle edicole dettano i cori alle ricche signore parigine.
Per tutti gli altri, quelli che capiscono ancora il bisogno e la necessità di restare umani anche dopo tanta insensata ferocia, il ricordo di questa marcia repubblicana contro il terrorismo diventerà balsamo nei momenti di sconforto. Arriveranno, inevitabilmente, perché «Il mondo è quello che è» come affermava uno delle migliaia di slogan bellissimi visti e letti per le strade di una Parigi che mai come ieri, ancora una volta, ci ha ricordato di saper essere la città delle luci e soprattutto dei lumi, «ma abbiamo il dovere di continuare a crederci», così diceva la seconda riga dello striscione.
L`appuntamento era in Place de la République, sotto alla statua della Marianna che alla base porta scolpito un altro motto inventato da queste parti ancora di una certa attualità, «libertà, uguaglianza, fratellanza». Ma già alle dieci del mattino è chiaro che i piani andranno rivisti.  Il consueto mercato domenicale di boulevard Richard  Lenoir viene fatto sgomberare in fretta e furia per fare spazio. La gente scende dai mezzi pubblici e si incammina verso il punto di partenza del corteo, che dista un paio di chilometri. Donne e uomini risalgono i viali sgomberati dalle auto in silenzio, con poche parole anche tra di loro. I fidanzati si tengono per mano, i genitori fanno lo stesso con i bimbi, tutti guardano dritto davanti, con questa serena convinzione stampata in faccia, esserci perché è giusto esserci.
Certo, ci sono trovate bellissime da raccontare. Come la matita di cartone che viene issata in cima alla statua e si prende il primo dei tanti interminabili applausi della giornata, come i ragazzi delle scuole ebraiche del Marais che si presentano dietro allo striscione «coexister» con la  stella di David al posto della «x» e accanto a loro, mischiati a loro ci sono i giovani di una comunità islamica di Porte de Vincennes, quella del  massacro alla drogheria ebraica, con lo stesso striscione, in arabo e in francese.
Ci sono cartelli individuali che danno il senso, La religione è un`arma di pace», «La pace umana è possibile» e soprattutto una infinità di Charlie declinati in ogni possibile modo, i volantini con le facce di Charb, Wolinski e degli altri disegnatori e giornalisti ammazzati appena cinque giorni fa, e sembra già passato così tanto tempo, che vengono lanciati dai balconi, verso il cielo e poi sulla folla. Ma infine è il silenzio che può essere prodotto da due milioni di persone, senza contare un altro milione nelle altre principali città del Paese, questa serietà come unico rumore di fondo, la Marsigliese cantata in un sussurro con gli occhi lucidi, con partecipazione, quel che resterà della più grande manifestazione nella storia di Francia.
«Io sono Charlie», «Io sono poliziotto, arabo ed ebreo». Alle 15 Frarwois Hollande si avvicina al giornalista Patrick Pelloux e al disegnatore Renald «Lux» Lucier, tra i pochi superstiti del massacro nella redazione di Charlie Hebdo, e li abbraccia. Il presidente francese e gli altri quaranta capi di Stato arrivati da tutto il mondo si mettono in seconda fila, dietro allo striscione del settimanale satirico.
Sono arrivati dall`Eliseo ín pullman, come alle gite scolastiche, faranno solo un piccolo tratto di strada lungo il boulevard che guarda caso è intitolato a Voltaire, titolare della frase definitiva sulla tolleranza delle opinioni altrui. Ma vederli tutti insieme per la prima volta a una manifestazione pubblica, compresi il premier israeliano Benjamin Netanyahu e 11 presidente palestinese Abu Mazen a poca distanza uno dall`altro, non era scontato, e neppure facile dopo quel che è successo. Magari per poco, come dicono i parigini che li vedono sfilare accanto a loro, però è qualcosa che restituisce speranza, un segno forte.
La marcia repubblicana non è tale per molta gente, diventa ben presto una marcia da fermo. In boulevard de Temple almeno trecentomila persone vengono invitate a girare il corteo ritornando da dove sono venute, niente arrivo a Nation per mancanza di spazio, e anche questo non era mai avvenuto prima, nella città dai viali più grandi d`Europa. Ma nessuno si lamenta, nessuno pensa al rischio. I cecchini sui tetti sono visibili a tutti, e diventano bersaglio, proprio il caso di dirlo, di applausi, ovazioni e cori di ringraziamento, che loro ricambiano sporgendosi a salutare con la mano libera dai fucili. Il mondo rovesciato, ma in bello, almeno per una volta.
«Tous ensemble», era lo slogan della manifestazione. Parigi ha vinto perché ieri è stata capace di dare un senso universale a quel messaggio, senza dividersi, senza dimenticare le minoranze del mondo. La comunità curda prende posto in piazza di mattina presto innalzando un vecchio articolo di Charb, il direttore di Charlie Hebdo, favorevole alla causa del loro popolo, e Husein Hassan, portavoce del loro istituto parigino, si commuove vedendo che à piedi della Marianna insieme alle vittime delle grandi stragi terroristiche degli ultimi anni c`è anche il ricordo di tre militanti uccise proprio in questa città nell`inverno del 2013. «Non ci avete cambiato, non ci cambierete mai» cantano i ragazzi che tornano indietro da Nation mentre si accendono i lampioni sui boulevard. C`è posto per tutto e tutti, tranne che per il terrorismo.



«La seduzione del martirio dopo la delusione dei sogni»
Ammaniti: «I giovani emarginati si ritrovano nelle origini dei padri»
Il Mattino, 12-01-2015
Titti Marrone
Il doppio video postato ieri poche ore prima della gigantesca manifestazione di Parigi mostra, nella prima parte, un ragazzo intento a fare flessioni e jogging, più avanti bardato di bianco e intento a lanciare proclami contro l`Occidente. È Coulibaly, l`assassino della poliziotta Clarissa Jean-Philippe, autore dell`attacco al supermercato kosher e andato incontro alle armi da fuoco spianate dalle forze dell`ordine francesi rimanendo ucciso.
Per uno psicoanalista che come lei, Massimo Ammaniti, studia a fondo i meccanismi d`interazione relazionali e sociali al centro anche del suo ultimo libro, "Noi", ci sono elementi sufficienti a tracciarne una sorta di profilo interiore che ci orienti a sondarne il delirio?
«Sì, ma per cominciare io non userei il termine delirio, legato a una psicopatologia, perché farebbe pensare a un quadro da malattia mentale, a un  disagio di tipo individuale nato nel confronto di idee personali con la realtà. Qui invece abbiamo a che fare, purtroppo, con convinzioni non dico molto diffuse, ma presenti in un certo mondo giovanile, in Paesi occidentali dalla Francia all`Inghilterra agli Usa, più di recente oggetto, questi ultimi, dell`attentato alla maratona di Boston, analogo a quello francese. Sono convinzioni che accomunano giovani immigrati di seconda o terza generazione. Non erano presenti nelle prime generazioni, permeate da forti identità legate ai Paesi di provenienza. E non lo erano perché quelle erano troppo prese dall`incombenza di cercare e trovare lavoro, casa, accoglienza in terre straniere per sé e per la famiglia, per poter garantire ai propri figli condizioni migliori».
Fin qui, dunque, possiamo fare un paragone con i primi del secolo scorso, quando gli immigrati eravamo noi?
«Proprio così, ma ci fermiamo qui. Io ho a lungo ascoltato italiani emigrati in Usa della seconda e terza generazione ed emerge la prima differenza: quelli tentano di spingere i figli a rinunciare all`identità di provenienza per meglio integrarsi nel mondo americano. Gli immigrati dai Paesi islamici hanno tutt`altro atteggiamento. Quelli come Coulibaly, cioè le seconde e le terze generazioni, riescono ad avere possibilità maggiori rispetto alle famiglie di provenienza e anche redditi migliori, spesso studiano, si formano in Occidente, ne assumono le abitudini e frequentano giovani occidentali, ma in realtà spesso  restano profondamente lontani».
Quello che dice fa venire in mente la foto del giovane Osama bin Laden negli anni settanta a Londra: capelli lunghi, pantaloni a zampa di elefante...
«Impensabile se la si accosta alle sue immagini successive, ma quei giovani vivono contraddizioni laceranti, in primo luogo perché la società occidentale è assai diversa quanto ai valori di famiglia. In certe famiglie islamiche si preservano gelosamente da ogni influenza con l`esterno, anzi si rafforzano i dettami religiosi e i comportamenti privati. Le mogli, ad esempio, sono decise dai genitori, le regole religiose e l`identità  etnica vengono rispettate in modo esclusivo. Intanto, dall`altra parte, il mondo occidentale si fa avanti con le sue seduzioni. Direi che il film «East is east» ha  raccontato molto bene questa contraddizione. Il tema di fondo, dunque, è quello dell`identità, messa alla prova dal problema di avere una forte zavorra familiare, una sorta di chiglia che obbliga a rispettare le gerarchie, l`autorità paterna, un`intera visione del mondo che confligge con quanto invece viene prospettato nel mondo occidentale».
In un libro del 2005, lo scrittore franco-libanese Amin Maalouf indica il punto di rottura nello scarto tra le aspettative che l`Occidente fornisce e la realtà.
«Ed è giusto perché è qui che s`inserisce il richiamo della tradizione di famiglia. Il lavoro che si trova non è così facile come si sperava, le opportunità sognate non sono così facili da cogliere, il contesto generale delle città non è così pronto ad accogliere quei giovani. Del resto, la sensibilità islamofoba sorta a un certo punto in Occidente ha peggiorato le cose creando una rottura anche tra ragazzi della stessa generazione ma appartenenti a mondi troppo diversi. Ne derivano percorsi di emarginazione sociale, difficoltà ad adattarsi a nuove situazioni. Sia il multiculturalismo anglosassone sia l`esperienza di melting pot francese aiutano poco. I giovani come Coulibaly precipitano in una crisi d`identità e allora si voltano all`indietro, tentano di ritrovare le proprie radici e lo fanno in una chiave ancora più estremistica e radicale di quanto prospettato dalla loro cultura familiare. Infatti, molti intraprendono il viaggio alla Mecca, tornano nei Paesi di provenienza, cambiano modo di vestirsi, di abbigliarsi. Pian piano cambia tutto: si addestrano militarmente, si preparano a quello che chiamano il martirio. Odiano l`Occidente, dopo tante idealizzazioni, e  hanno voglia di fargliela pagare».
Aiutano a capire questo processo studi antichi come quello di Adorno e della Scuola di Francoforte sulla personalità autoritaria, dominata dal padre dominatore e severo?
«Certo. Quegli studi analizzavano la personalità fascista e nazista, individuando caratteristiche validissime per spiegare comportamenti e scelte come quelle di Coulibaly, che nel video postato su internet dice di voler punire l`Occidente: intolleranza, etnocentrismo, attitudine rozza a dividere il mondo in buoni e cattivi. Aspetti estranei alle personalità democratiche. E spicca, in questi personaggi e in queste strutture psicologiche, la totale mancanza d`ironia, l`incapacità di ridere di se stessi o - peggio della propria cultura».
Tornando al paragone con i nostri migranti d`inizio `900, mi fa pensare a certi divertentissimi e assai autoironici canti dell`emigrazione, in cui quelli ridevano di sé rappresentandosi come ubriaconi per necessità, gaglioffi per troppa miseria e cose simili.
«Dove vigono regole famigliari così rigide, assetti e obblighi così strutturati, l`ironia è impossibile, figuriamoci la comprensione della satira. L`ironia è un modo di mettersi in discussione, e nella personalità autoritaria non è possibile mettere in discussione alcunché, anche perché c`è la  tendenza a riferire tutto non in termini personali ma solo generali, astratti. E naturalmente, i sentimenti vengono messi assolutamente in secondo piano, se non del tutto soffocati».
Come spiega che tra gli occidentali che aderiscono all`Islam ci sia una maggioranza di donne, le vittime maggiori dell`intolleranza nel quadro valoriale dell`Islam estremo?
«Anche se i matrimoni misti che sono indice d`integrazione e coagulo di culture diverse non sono numerosi, avviene pur sempre che alcune donne occidentali sposino degli islamici. E a volte i mariti sono portatori di visioni fondamentaliste,  così da coinvolgere donne che vivono su disé alcune contraddizioni della cultura occidentale, percependola come debole e insufficiente. Non tutti siamo cartesiani, capaci di cogliere gli aspetti positivi e libertari del relativismo. Ci chiediamo spesso se la trasformazione dell`Islam, nel senso di isolarne le versioni fondamentaliste, non può essere legata proprio alle donne. Ma poi spunta la contraddizione che a volte ci mostra come proprio loro, in alcuni casi, siano più orientate a mantenere e rafforzare i valori di sottomissione».
Viene in mente il passaggio amaro del libro di Houellebecq, in cui si descrive la donna occidentale tutta presa dalla carriera e a sera stanca, svuotata, trasandata. E la donna islamica che, sotto il burqa, indossa la biancheria fetish di pizzo nero.
«Il che richiama anche l`immagine della donna occidentale percepita come castratrice, minacciosa, in gara con il maschio, e quell`altra voluta dall`uomo islamico, rassicurante, sottomessa, tale da rinforzarne l`identità sessuale e non solo. Ma parlando della seduzione esercitata dall`Islam fanatico su uomini e donne fin qui abbiamo trascurato l`elemento del martirio, del fascino che quest`idea può esercitare. Qui s`incrocia un altro aspetto della personalità autoritaria: la promessa è che il martire non vive la propria vita quotidiana ma vivrà nell`eternità, a prescindere da se stessi. Immaginiamo se poi credere in ciò è una coppia, un uomo e una donna insieme come Coulibaly e la sua moglie in fuga in Siria, Boumedienne. C`è qualche analogia, direi, con il codice mafioso, in cui c`è un problema di setta ed è difficile sottrarsi. Così, come diceva Falcone, c`è bisogno di capire i linguaggi se si vuole essere efficaci nella lotta. Ora, tutto questo ci spaventa ed è naturale, così come è ovvio prendere sul piano pratico certe misure di sicurezza. E per certi versi gli attacchi francesi sono peggio dell`Il settembre perché vengono da una scheggia fatta di pochi fondamentalisti, non da un grande insieme organizzato, facendoci immaginare chissà quanti altri attentati pronti a essere sferrati ovunque. Però direi che l`Occidente dovrebbe evitare sia il rischio di posizioni troppo astratte e illuministiche - «siamo noi i portatori di democrazia» - sia di cedere alla paura. Pensiamo alla storia del passato, all`arrivo dei barbari alla fine dell`Impero romano. Ormai i musulmani fanno parte del nostro mondo, ma se dilagano nei loro confronti posizioni alla Le Pen, alla Farange o alla Salvini, fatte di razzismo e intolleranza, avranno vinto il terrore e il fanatismo. E noi avremo perso».

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