Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

06 giugno 2013

Immigrati kazaki, il rimpatrio dal Cie di moglie e figlia dell'oppositore al regime
Una vicenda opaca con risonabze internazionali. La donna e la bambina di 6 anni prelevate da una villa a Casal Palocco con un blitz della polizia. L'allarme del Consiglio italiano per i rifugiati: "Rischiano torture". Non è la prima volta che viene denunciato l'uso del CIE per finalità dubbie
la Repubblica, 06-06-2013
RAFFAELLA COSENTINO
ROMA - Ricorda il caso di Abu Omar la strana e inquietante storia del rimpatrio lampo in Kazakistan di una donna, Alma Shalabayeva, con la sua bambina di sei anni, passando per il Centro di identificazione e di espulsione (CIE) di Ponte Galeria. Una vicenda che sta facendo il giro del mondo, riportata da testate austriache e britanniche, e denunciata in Italia dal Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), che ha raccolto la segnalazione dell'avvocato della donna, Federico Olivo.
L'irruzione nella casa. Alma e sua figlia vivevano in una villa a Casal Palocco, alla periferia di Roma. Il 29 maggio numerosi poliziotti hanno fatto irruzione nella casa, alla ricerca del marito, il dissidente politico e magnate kazako Muktar Ablyazov. L'uomo è un oligarca al momento latitante, che ha ottenuto asilo politico in Gran Bretagna ed è al centro di una complicata vicenda giudiziaria internazionale. Secondo quanto racconta l'avvocato Olivo, gli agenti avrebbero agito sulla base di un mandato di estradizione kazako per Ablyazov. Non trovandolo in casa, i poliziotti hanno prelevato la moglie, mentre la bambina inizialmente è rimasta con la zia. Alma Shalabayeva è poi finita nel Cie di Ponte Galeria perché secondo le autorità italiane aveva un passaporto africano falso ed era irregolare in Italia. A tempo di record, il 31 maggio, è stata imbarcata su un volo per il Kazakistan assieme alla figlia, in violazione delle leggi italiane ed europee che prevedono la possibilità di fare ricorso contro l'espulsione e di chiedere asilo politico.
I primi sospetti. A destare sospetti è il modo in cui è avvenuto il rimpatrio. Solitamente le persone sono trattenute nei CIE per mesi e le espulsioni avvengono usando voli di linea, oppure voli speciali gestiti dall'agenzia europea delle Frontiere, Frontex. Invece, secondo quanto è trapelato fino a questo momento, madre e figlia, sarebbero state portate via su un aereo privato partito dall'aeroporto di Ciampino senza altri passeggeri. Non è chiaro chi abbia messo a disposizione il volo e se la scorta sull'aereo era composta da agenti kazaki. Secondo il Cir, che ha interessato il ministro degli Esteri Emma Bonino, esiste il "rischio molto concreto che la signora Shalabayeva possa subire nel suo paese trattamenti disumani". L'ente morale e Onlus ricorda con preoccupazione l'ultimo rapporto di Amnesty International, da cui risulta che in Kazakistan "pratiche di tortura sono regolarmente perpetrate nei confronti di oppositori e dissidenti da parte delle forze di polizia e di sicurezza".
In mano al presidente-dittatore. Il Paese asiatico, importante produttore di petrolio e di gas, è dal 1991 in mano al presidente-dittatore Nursultan Nazarbayev, che ha ripetutamente silenziato con la repressione oppositori e media indipendenti. Come nel caso dello sciopero dei lavoratori petroliferi di Zhanaozen, che chiedevano migliori condizioni di lavoro e sono stati massacrati dalla polizia. Almeno 15 i morti, secondo le cifre 'ufficiali'. È un regime ricco e influente. Basti pensare che il genero del presidente Nazarbayez, Kulibayev, ha comprato la residenza del principe Andrea, regalo della regina Elisabetta per le nozze con Sarah Ferguson, pagandola 15 milioni di sterline, tre milioni in più rispetto al prezzo richiesto dal principe. Ecco perché il rimpatrio ad Astana, con "una procedura che raramente si è vista così veloce ed efficiente", dice il Cir, potrebbe avere violato il Testo Unico Immigrazione e la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo cui nessuno può essere respinto o espulso verso un Paese in cui rischia di essere sottoposto a trattamenti disumani o degradanti.
L'uso del CIE per finalità dubbie. "Alma Shalabayeva è incensurata, non ha commesso alcun illecito, a meno che non si voglia considerare una colpa l'essere moglie di Ablyazov, questa cosa lascia sbalorditi - commenta l'avvocato Olivo - immagino che si sia opposta al rimpatrio, visto che avevamo messo a verbale nell'udienza di convalida del trattenimento nel Cie davanti al giudice di Pace che lei non voleva tornare in Kazakistan perché temeva di essere sottoposta a violenze. Non c'è stato tempo di fare ricorso, dopo poche ore era già sul volo". Non è la prima volta che viene denunciato l'uso del CIE per finalità dubbie. Alla fine del 2011 c'era stato il caso di Amine Chouchane, un giovane oppositore del regime di Ben Ali, finito in una cella di Ponte Galeria dopo avere organizzato le elezioni per la Costituente tunisina in Italia come segretario generale dell'Istanza regionale indipendente per le elezioni (Irie).
Coinvolta una bambina di 6 anni. Ma nella vicenda di Casal Palocco è coinvolta anche una bimba di sei anni. "Sono andati a prenderla a casa - commenta ancora l'avvocato - e l'hanno messa sull'aereo con la madre, forse senza nemmeno dirle che la bambina poteva restare in Italia con la zia, in quel momento la legittima affidataria. Io non ho visto alcun provvedimento di un giudice su questo". Dalla sua pagina Facebook, Muktar Ablyazov accusa il presidente kazako Nursultan Nazarbayev di avergli rapito la famiglia, affermando che il dittatore  "è ora passato dalla repressione politica alla tattica terrorista di prendere ostaggi". E ha aggiunto che "il rapimento della mia famiglia è la dimostrazione della natura vile e spregevole del regime di Nazarbayez, che ha fallito nel distruggere me come oppositore politico e ha invece rapito mia moglie e mia figlia di sei anni". Madiyar Ablyazov, il figlio del magnate, ha detto al quotidiano britannico "Guardian" che non è vero che sua madre aveva un passaporto africano falso, ma che aveva documenti Lettoni autentici, validi nell'Unione europea. Ha aggiunto di non sapere dove si trova il padre.
Il discusso miliardario kazako. Muktar Ablyazov, 50 anni, è un discusso miliardario, accusato di essere l'autore di una delle più grosse frodi bancarie del pianeta. Ex ministro dell'Energia e del Commercio kazako, è tra i fondatori del movimento di opposizione Democratic Choice of Kazakistan. Ha denunciato persecuzioni e torture nel suo Paese, dove è stato in carcere e poi liberato per le pressioni internazionali. Per questo ha ottenuto l'asilo politico in Gran Bretagna. Era presidente di una banca, la BTA, che con la crisi del 2009 è stata nazionalizzata dal dittatore Nazarbayez. Ablyazov è stato accusato dal suo governo di una truffa di 5 milardi di dollari. A quel punto, Ablyazov è fuggito a Londra e ci sono diversi procedimenti aperti nei tribunali inglesi, per i quali si è sempre difeso affermando che si tratta di una montatura, orchestrata dal presidente del Kazakistan come persecuzione politica. Ablyazov è irreperibile da quando un giudice inglese l'ha condannato a 22 mesi di prigione per oltraggio alla corte, per avere mentito sulla reale entità del suo patrimonio. Tra i suoi possedimenti, un palazzo da 17 milioni di sterline ad Hampstead, e Oakland Park, una proprietà da 18 milioni di sterline vicino Windsor.



Asili, Articolo 33 torna a farsi sentire: «Troppi immigrati nelle nuove sezioni»
«Centinaia di bambini in lista d'attesa per l'anno 2013-14 e la risposta del Comune è aumentare i bambini per classe»
Corriere della sera, 06-06-2013
BOLOGNA - «Centinaia» di bambini in lista d'attesa per la scuola materna, pochi posti e soprattutto troppi bambini per classe. Con le nuove sezioni «che vedono una presenza di immigrati vicina in alcuni casi al 90%»: questa la situazione degli asili bolognese secondo il comitato Articolo 33, promotore del referendum sui fondi alle materne paritarie, che torna alla carica contro il Comune.
«PROFONDA PREOCCUPAZIONE» - Oltre ad annunciare la sua presenza in piazza insieme alle maestre che si oppongono al passaggio all'Asp («è cosa ben diversa da un Ente pubblico come il Comune o lo Stato»), Articolo 33 apre il fronte dell'offerta di asili per il prossimo anno: «Anche le iscrizioni per l'anno 2013-14 confermano la presenza di centinaia di bambini in lista d'attesa. La risposta dell'amministrazione - si legge in una nota dei referendari - oltre ad essere insufficiente nel numero dei posti, si concretizza in un aumento del numero dei bambini per classe e in 108 posti affidati a cooperative che non sono in grado di assicurare il carattere scolastico dell'offerta essendo dotate di personale precario che non ha i compiti di chi è assunto con un contratto di docente». Il comitato, inoltre, «esprime profonda preoccupazione di fronte alla situazione che si è venuta a creare nelle sezioni di scuola d'infanzia costituite fra dicembre e gennaio che vedono una presenza di immigrati vicina in alcuni casi al 90%».
«RISPETTARE IL VOTO AL REFERENDUM» - Intanto, Articolo 33 compie i primi passi per vedere rispettato il responso delle urne (si trattava di un referendum solo consultivo), che il 26 maggio scorso hanno visto prevalere la risposta A (stop ai finanziamenti alle materne paritarie e passaggio del milione di euro assegnato ai privati alle materne comunali) su quella B (conferma della situazione attuale) sia pure con un'affluenza alle urne piuttosto bassa. Il comitato, si legge ancora nella nota, «chiederà già oggi un incontro con tutti i gruppi consiliari per fare in modo che il pronunciamento del Consiglio sull'oggetto del referendum previsto, ai sensi dello Statuto del Comune, entro il 26 agosto accolga l'espressione della volontà popolare esercitata il 26 maggio: la maggioranza dei cittadini ha optato in modo netto per lo spostamento delle risorse ora destinate alle scuole paritarie private a favore delle scuole Comunali e Statali».



Immigrati, Vegliò: “La risposta non sta nella chiusura delle frontiere”
Il cardinale interviene sull’Osservatore Romano alla vigilia della presentazione di un nuovo documento sui profughi
la Stampa.it, 06-06-2013
«La risposta corretta non sta nella chiusura delle frontiere. I Paesi dovrebbero garantire i diritti dei rifugiati e agire secondo lo spirito della Convenzione del 1951, andando incontro a chi è nel bisogno, accogliendolo e trattandolo come si farebbe con cittadini autoctoni». Lo scrive il cardinale Antonio Maria Vegliò in un suo intervento sull'Osservatore Romano, alla vigilia della  presentazione del nuovo documento sulla situazione di profughi e  sfollati.       
Il presidente del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, scrive: «essere vicini ai rifugiati presuppone vedere, toccare, assaporare e persino sentire l'odore della loro situazione, facendosi carico della loro causa. Guardarli negli occhi e conoscere i loro sentimenti, ascoltando le loro speranze e la loro disperazione. Un'esperienza del genere non lascia indifferenti e non è che il primo passo per intraprendere adeguate prese di posizione nel dibattito politico».
Il nuovo documento `Accogliere Cristo nei rifugiati e nelle persone forzatamente sradicate´, anticipa il card. Antonio Maria Vegliò al quotidiano d'Oltretevere, «riflette la situazione di rifugiati, sfollati, apolidi e vittime delle diverse forme di traffico di esseri umani. Questo titolo già indica che la natura della migrazione forzata è cambiata. Uomini, donne e bambini sono costretti a lasciare le loro case per molte ragioni diverse, per cui è diventata meno evidente la differenza tra migrazione forzata e migrazione volontaria per motivi di lavoro. Nello stesso tempo, l'atteggiamento di molti governi si è fatto più rigido».       
Da qui la necessità di una riflessione, «dato che apparentemente al centro delle decisioni politiche - evidenzia il card. Vegliò - le misure di deterrenza hanno preso il sopravvento sugli incentivi per il benessere delle persone. Sembra che la priorità sia data alle strategie per tenere lontani profughi e sfollati. La sola presenza di rifugiati o di persone deportate è sentita come problema, invece di tener conto delle ragioni per cui sono stati costretti a fuggire. Di pari passo, inoltre, troviamo anche un'opinione pubblica sempre più diffidente e tutto questo sta minacciando lo spazio di protezione».       
«La comunità internazionale, in verità, - riconosce il capo del dicastero - si è dimostrata attenta ad alcuni di questi problemi, in particolare verso la situazione dei rifugiati. Tuttavia, al giorno d'oggi gli impegni sottoscritti non sono sempre onorati, per cui si verificano complicate condizioni per coloro che fuggono e, talvolta, realtà di cruda miseria. I governi dovrebbero rispettare i loro diritti, mentre dovrebbero essere altresì individuati ulteriori approcci per le persone coinvolte nelle migrazioni forzate. Fatti del presente e del futuro esigono risposte che dovrebbero soddisfare i bisogni delle persone sradicate e promuovere e ripristinare la loro dignità».



Immigrati dietro le sbarre
Internazionale, 06-06-2013
Il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) che si trova alle porte di Roma non è ufficialmente una prigione, ma la differenza sembra essere solo una questione semantica.
Delle alte inferriate separano file di baracche che di notte vengono chiuse a chiave, mentre il cortile resta illuminato a giorno. Ci sono videocamere di sicurezza ovunque, le guardie sono in tenuta antisommossa, le persone recluse possono spostarsi solo in alcune zone del centro e possono indossare solo ciabatte.
Il Cie di Ponte Galeria è una delle undici strutture simili esistenti in Italia. Secondo le autorità servono a regolare l’immigrazione irregolare e rispettano le linee guida dell’Unione europea. Ma sono sempre più numerose le critiche che le accusano di essere disumane, inutili e troppo costose. Elisabetta Povoledo del New York Times ha incontrato alcune delle persone che vivono in questo limbo tutto italiano.


 

Cie, lo scandalo italiano
l'Espresso, 05-06-2013
Lara Crinò

Il quotidiano 'Herald Tribune' (versione europea del 'New York Times') dedica la sua prima pagina ai centri di detenzione per migranti nel nostro Paese. Carceri di massima sicurezza, con guardie in tenuta antisommossa e detenuti allo stremo che non hanno mai commesso alcun reato: «Strutture inumane, inefficaci e costose»(05 giugno 2013)ANSA/Tonino Di Marco"Il Cie alla periferia di Roma, dove gli immigrati illegali possono passare mesi in attesa di essere rimpatriati, non è una prigione. Ma la differenza è solo una questione di semantica". Si apre così l'articolo con cui l'International Herald Tribune apre oggi la sua edizione europea: un durissimo atto d'accusa all'Italia per il modo in cui, negli 11 centri di Identificazione ed Espulsione presenti sul nostro territorio, vengono trattati gli stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno o asilo politico in attesa di essere espulsi dal nostro paese.
Il pezzo, dal titolo 'L'Italia sotto accusa per la detenzione degli immigrati illegali' ('Italy faulted on detention of illegal immigrants') è firmato dalla della corrispondente Elisabetta Povoledo ed è corredato di immagini del centro romano di Ponte Galeria e di quello di Bari. Si tratta di una lunga requisitoria sul fallimento del sistema dei Cie. Riportando le voci critiche che da più parti, negli ultimi anni, si sono alzate contro la gestione di queste strutture, il quotidiano li descrive come "inumani, inefficaci e costosi", riflesso di una "politica che identifica l'immigrazione con la criminalità, senza tener conto né del beneficio economico dell'emigrazione né della natura multiculturale della società".
A sostegno di queste affermazioni, si descrivono nel dettaglio le condizioni di vita del Cie romano di Ponte Galeria, teatro nel corso degli ultimi anni di varie rivolte degli immigrati reclusi, le cui condizioni di vita al limite della disperazione sono state più volte denunciate dal nostro giornale.
La descrizione che la giornalista dell'Herald Tribune fa del centro di detenzione è, volutamente, a metà tra il campo di concentramento e il carcere di massima sicurezza. Parla infatti di "alte cancellate di metallo che separano le file di basse costruzioni in singole unità che vengono chiuse durante la notte, mentre i cortili in cemento restano illuminati a giorno", mentre alcune guardie indossano "tenute antisommossa". I detenuti, spiega ancora, "possono indossare solo ciabatte o scarpe senza lacci", per non far male a se stessi o agli altri e nella sezione maschile, dopo una rivolta, "gli oggetti appuntiti, tra i quali penne, matite e pettini, sono stati vietati".  
Sottolineando come le autorità italiane non smettano di precisare che il sistema di detenzione dei Cie è in linea con le linee guida dell'Unione Europea, l'articolo prosegue citando la denuncia dell' associazione LasciateCiEntrare, che fa campagna per la loro chiusura, secondo la quale "questi sono non-luoghi che non hanno alcun interazione con la società italiana, che è a malapena a conoscenza della loro esistenza", luoghi di sofferenza e "discariche politiche e sociali di cui si accorge a livello nazionale soltanto quando scoppia una rivolta".
Il quotidiano ha raccolto anche i dati di Medici per i Diritti Umani relativi alle pessime condizioni di salute dei detenuti: dagli atti di autolesionismo al massiccio consumo di anti-depressivi. Ma soprattutto sottolinea come, oltre che crudele, il meccanismo dei centri di detenzione ed esplusione sia anche inefficace. Solo la metà dei detenuti, circa 400 persone, sono effettivamente state espulse lo scorso anno, "una porzione ridottissima dei circa 440 mila irregolari che si stima vivano in Italia".
Citando infine un rapporto del ministero degli interni del 2013 che definisce "indispensabili" i centri, l'autrice del reportage dà la parola a chi vi è o vi è stato rinchiuso. Dall'egiziano Karim, la cui storia ad aprile è finita sui media nazionali, a un tunisino di 40 anni, ex muratore, che è finito in un Cie dopo aver scontato un periodo in carcere per spaccio di droga. E che di questa nuova condanna senza un termine stabilito dice: "La galera era meglio che stare qui".



Rom “censito su base etnica” nell’ambito dell’Emergenza Nomadi sarà risarcito per discriminazione.
Tre anni fa, a Roma, Elviz Salkanovic è stato oggetto del fotosegnalamento, ora una sentenza ordina al Ministero dell’interno di distruggere i documenti che contengono dati sensibili.
Immigrazioneoggi, 06-06-2013
Tre anni fa, insieme ad altri migliaia di rom insediati in accampamenti non autorizzati a Roma, era stato registrato nel “censimento” nell’ambito della cosiddetta “emergenza nomadi”. Nei giorni scorsi il Tribunale civile di Roma ha riconosciuto a un cittadino rom di essere stato vittima di una discriminazione su base etnica e ha ordinato al Ministero dell’interno di distruggere tutti i documenti che contengono i dati sensibili dell’uomo raccolti durante il fotosegnalamento.
Nel corso di una conferenza stampa che si terrà oggi a Roma, presso la sede della Federazione nazionale Stampa italiana, in corso Vittorio Emanuele II 349, a partire dalle ore 12, Associazione 21 luglio, Asgi e Open Society Justice Initiative ripercorreranno la vicenda di Elviz Salkanovic e dell’azione legale da lui intrapresa, con il sostegno delle tre organizzazioni, nei confronti di Presidenza del Consiglio dei ministri, Prefettura di Roma e Questura di Roma.
Accogliendo il ricorso di Elviz Salkanovic, cittadino italiano di etnia rom con regolare documento d’identità, l’autorità giudiziaria ha di fatto riconosciuto il carattere discriminatorio della procedura di fotosegnalamento in quanto l’uomo è stato coinvolto in un’operazione i cui destinatari erano esclusivamente persone appartenenti alla comunità rom.
La misura, secondo la sentenza del Tribunale civile di Roma, ha provocato l’effetto sia di violare la dignità del rom sia di creare un clima ostile da parte dell’opinione pubblica.
Oltre all’eliminazione di tutti i dati sensibili del cittadino rom, la Presidenza del Consiglio dei ministri e lo stesso Ministero dell’interno sono stati condannati al pagamento di 8 mila euro a titolo di risarcimento morale.



“Ingiuria aggravata da finalità di discriminazione razziale” per i tifosi del Pro Patria
CIRDI, 06-06-2013
BUSTO ARSIZIO (Varese) - Le condanne sono lievi, ma la sentenza è storica. Il Tribunale di Busto Arsizio ha giudicato colpevoli di ingiuria aggravata da finalità di discriminazione razziale i sei tifosi della Pro Patria considerati responsabili dei “buu” razzisti ai giocatori di colore del Milan. E’ questo il verdetto del processo di primo grado per direttissima, arrivato a cinque mesi e due giorni dalla sospensione dell’amichevole del 3 gennaio scorso in seguito all’ormai famosa pallonata di Boateng. Due mesi di reclusione per cinque dei sei imputati (tra questi anche l’assessore leghista al Comune di Corbetta, Riccardo Grittini). Quaranta giorni per il sesto tifoso coinvolto al quale sono state riconosciute le attenuanti generiche per la collaborativa condotta processuale: ha presenziato a tutte le udienze e anche questa mattina è stato interrogato rivelando che a maggio 2011 l’immagine del suo profilo Facebook era proprio quella di Boateng, scelta motivata dalla felicità da tifoso milanista per lo scudetto appena conquistato.
Evidente la portata simbolica delle pene, considerato che il collegio, presieduto dal giudice Toni Adet Novik, ha applicato anche l’aggravante che raddoppia la condanna per ingiuria (condanne sospese anche perché i sei erano tutti incensurati). L’entità dei risarcimenti è commisurata: appena 5.000 euro in solido tra tutti gli imputati per ognuna delle due parti civili, il Comune di Busto Arsizio e la Lega Pro (più 2.500 euro a testa per le spese processuali). “Recentemente Lilian Thuram ha dichiarato che neri non si nasce ma si diventa a causa dell’ambiente esterno. Ecco, Busto Arsizio non vuole più diventare rossa di vergogna per questi fatti che hanno arrecato un danno di immagine in tutto il mondo”, ha spiegato l’avvocato del Comune della città lombarda.
Ma resta la portata fortemente innovativa di questa pronuncia: “Era quello che volevamo sentire – commenta il Pm Mirko Monti – questa sentenza deve far capire alle tifoserie che certi comportamenti non dovranno ripetersi perché saranno colpiti”. Soddisfatto anche l’avvocato Francesco Bonanni, legale della Lega Pro: “E’ un precedente di particolare rilevanza perché per la prima volta si colpisce un episodio di discriminazione razziale nell’ambito di un impianto sportivo. E’ un messaggio che la giustizia vuole dare al mondo dello sport, dove i valori devono essere al primo posto, per evitare il ripetersi di episodi disdicevoli”.

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