Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

15 luglio 2013

“Kyenge sembra un orango” E Calderoli salva Angelino
il Fatto, 15-07-2013
Eduardo Di Blasi
Treviglio, nella bergamasca, tre giorni fa. Roberto Calderoli, vicepresidente leghista del Senato, davanti a 1500 accoliti della locale festa del Carroccio, si lancia in un pericoloso sproloquio contro il ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. “Fa bene a fare il ministro, ma forse lo dovrebbe fare nel suo Paese. È anche lei a far sognare l’America a tutti i clandestini che arrivano qui”. L’intemerata, pubblicata ieri in prima pagina sul Corriere della Sera, continua anche peggio di come è partita: “Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango”. Ce n’è abbastanza perchè ne nasca una bufera politica incontrollabile. Il premier Enrico Letta twitta “parole inaccettabili”, seguono sulla stessa linea ministri Pd, Pdl e Sc, i presidenti di Camera e Senato, infine Giorgio Napolitano, “indignato” per “l’imbarbarimento della vita civile”. La stessa Kyenge accetta le scuse arrivate in serata via telefono da Calderoli, ma ne chiede le dimissioni: “Occorre senso della misura e di responsabilità, rispettando la carica che si ricopre”.
Chiedere senso della misura a Calderoli non pare impresa che possa essere coronata da successo. Nel febbraio 2006, ospite in un dopo-Tg, mostrò una t-shirt in cui era raffigurata una vignetta su Maometto che già aveva avuto discrete ripercussioni internazionali. Dopo quelle immagini in tv l’ambasciata italiana a Bengasi fu presa d’assalto. Finì che Berlusconi lo scaricò dal governo in un paio di giorni. Seguì un processo per vilipendio alla religione che si concluse con un’assoluzione un paio d’anni dopo. Gli chiesero all’epoca se fosse pentito. Rispose: “Ma stiamo scherzando? ”. L’anno seguente, infatti, vice presidente del Senato, protestava a modo suo contro l’edificazione di moschee in Italia: “Metto personalmente a disposizione del comitato contro la moschea sia me stesso che il mio maiale”. Oggi come allora, dopo le affermazioni contro la Kyenge, associazioni (Art. 21 in testa) e partiti (Sel e Pd per primi) chiedono le sue dimissioni dalla vicepresidenza di Palazzo Madama. In una settimana che si annunciava rovente per il ministro dell’Interno Angelino Alfano, in Parlamento arriva così il ciclone Calderoli.
Le offese al ministro dell’Integrazione sono già costate del resto la presenza nel gruppo all’europarlamentare leghista Mario Borghezio e quello di consigliera di quartiere a Padova, a Dolores Valandro (oggi a processo) che su Twitter le augurò: “Ma mai nessuno che se la stupri, così tanto per capire cosa può provare la vittima di questo efferato reato? Vergogna! ”. Erminio Boso ha preso una denuncia (di Sel) per odio razziale per aver invitato la ministro “a stare a casa sua in Congo”. Un circolo della Lega di Legnago era della medesima idea. Scrisse su Facebook: “Va a fare il ministro in Congo! Ebete! ”. Mario Pavan, segretario di sezione, provò poi a spiegare: “In dialetto veneto ebete è un aggettivo che diventa perfino affettuoso e vuol dire ingenuo”. Una difesa disperata. Come quella di Matteo Salvini che attacca i giornalisti. Bobo Maroni solo in serata chiosa: “Ha fatto bene a scusarsi”.



Non si può alimentare il razzismo. L'Italia è offesa da quelle parole
Corriere della sera, 15-07-2013
Gian Antonio Stella
«Cosa volete, la madre dei cretini è sempre incinta», ridacchiò un giorno Roberto Calderoli smarcandosi dalle sparate razziste di tanti leghisti. Un istante prima aveva chiesto scusa per le sue.
Spara e si scusa spesso, il senatore. L'ha fatto anche ieri, con Cécile Kyenge che aveva associato a un orango. Ma può rimanere, chi dice simili mostruosità, alla vicepresidenza del Senato?
È fatto così, l'ex ministro: Doctor Jekyll e Mister «Pota». E se il primo è riconosciuto come un vicepresidente del Senato attento a stare al di sopra delle parti, il secondo (deve il nomignolo «pota» all'intercalare bergamasco simile al veneto «ciò» o al romanesco «ahò») è incapace di trattenersi. Quando gli scappa, gli scappa.
E gliene sono scappate tante. Ha accusato la sinistra di tentare «un vero e proprio golpe proponendo di dare la cittadinanza ai bingo-bongo». Lanciato l'idea di una nuova moneta battezzata il «Calderolo». Fatto infuriare il mondo musulmano dicendo: «Sul terreno dove dovrebbe nascere la moschea farò pascolare i maiali». Gonfiato il petto vantandosi di non essere «mai andato a cena con un romano». Minacciato «molti personaggi ai vertici delle istituzioni» di un processo del «tribunale del popolo padano» con «l'imputazione di genocidio».
E poi ancora ha scandalizzato i disabili con un paragone indecente: «C'è ancora qualche mongoloide che vota Ulivo». Proposto «una taglia di un milione di lire per chi denunci un albanese irregolare». Insultato il cardinale Tettamanzi reo d'essere ecumenico con gli immigrati: «Col territorio non c'entra niente, sarebbe come mettere un prete mafioso in Sicilia». Irritato i nemici del razzismo e gli amici dell'America tracciando un paragone con la presidenza Obama: «Non vorrei tra cinque anni trovarmi un presidente abbronzato...». Esultato per il trionfo dell'Italia sulla Francia ai Mondiali visto come «la vittoria della nostra identità» contro una squadra che aveva «schierato negri, islamici e comunisti». Sostenuto che «la civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni». Indignato la Ue promuovendo una marcia su Bruxelles con la promessa di portare in Belgio «un po' di saggezza della croce a quel popolo di pedofili». Quando mostrò in tv la maglietta con una vignetta su Maometto, dando lo spunto ai fanatici islamici per attaccare il consolato italiano di Bengasi, sollevò un vespaio tale da essere costretto a dimettersi da ministro. Due mesi dopo, grazie a Bossi al quale era fedelissimo («se mi dice "buttati da questo ponte" io mi butto. Magari mi dispiace, ma mi butto») veniva già ripescato come vicepresidente di Palazzo Madama.
Anche ieri, dopo le offese al ministro Kyenge, si è levato un coro: dimissioni! Da sinistra, ma non solo. Basti dire che il ministro Giampiero D'Alia, che sinistrorso non è, si è spinto a paragonare il leghista agli squadristi dell'Alabama: «usa un linguaggio da Ku Klux Klan». Lui fa spallucce: «Ho invitato il ministro Kyenge ad un confronto a Bergamo per scusarmi con lei. Ma non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio». Dice d'aver fatto quella battuta solo «in riferimento ai lineamenti». Peggio il rattoppo che il buco.
E ha spiegato alla nostra Anna Gandolfi che lui ama questi paragoni con gli animali e che vede Enrico Letta come un airone («zampetta nella palude») e Angelino Alfano come una rana e Anna Maria Cancellieri come un San Bernardo e via così... La tesi di Francesco Speroni, che da Bruxelles si è precipitato a difendere il camerata padano: «Noi dicevamo che Leopoldo Elia assomigliava a un tapiro, non è mica offensivo. Il figlio di Bossi è stato battezzato il Trota, ma siccome è bianco nessuno si arrabbia...». Del resto, aggiunge, «anche Celentano dicevano che si muovesse come uno scimpanzé!». Ora, a parte il fatto che il soprannome a Renzo fu dato da Umberto Bossi («Mio figlio il mio delfino? Per ora è semmai una trota») l'uno e l'altro fingono di ignorare il nodo: ogni parola è figlia della storia e va collocata nel suo contesto. I soprannomi dati a Bettino Craxi («il cinghialone»), Vittorio Sbardella («lo squalo»), Romano Prodi («il mortadella»), Silvio Berlusconi («il caimano») o Daniela Santanchè («la pitonessa») possono essere di buon gusto o no, bene accetti o no, ironici o no. Ma non sono «razzisti». Dare del «pony di razza» per la bassa statura ad Amintore Fanfani o dell'ippopotamo per la stazza a Giuliano Ferrara, invece, anche se entrambi si sono sempre sforzati di sorriderne, è un'altra faccenda.
E dare del «banana», «bingo bongo» od «orango» a una persona di colore è un'insolenza infame. Sulla quale non si può scherzare perché getta sale sulle ferite di ogni nero che si trascina dietro i dolori dell'apartheid e della schiavitù di decine di milioni di schiavi, ridotti in catene proprio perché catalogati come «razza inferiore». Non c'è nero che non porti addosso come un marchio a fuoco quei paragoni teorizzati da «scienziati» quali Georges Cuvier («I movimenti della Venere Ottentotta avevano qualcosa di brusco e capriccioso che ricordava quelli delle scimmie...») o Cesare Lombroso: «Nel negro la faccia predomina sulla fronte, come le passioni affogano l'intelligenza (...) Le suture del capo (...) gli si ossificano prestamente come nell'idiota e nelle scimmie». Per non dire de La difesa della razza fascista. Non ricordarsene o peggio ancora riderne è buttar brace su quelle piaghe.
Quanto al fatto che «scegliere dei ministri stranieri è una scelta sbagliata» e che lui non conosce casi di «italiani ministri all'estero», l'ancora (incredibilmente) vicepresidente del Senato scorda che Henry Kissinger era nato in Baviera ma diventò il potente segretario di Stato americano. Che il premier belga Elio di Rupo per «ius sanguinis» è italiano. O che a salvare l'onore della Francia dopo la disfatta di Sedan, dopo che «il più francese dei francesi» Napoleone III si era arreso ai prussiani, fu il figlio d'un immigrato, Leon Gambetta. Che era diventato francese solo undici anni prima.



Fuori i razzisti dalle istituzioni
la Repubblica, 15-07-2013
Gad Lerner
Con il suo ignobile giro di parole al comizio di Treviglio cercava la provocazione, in un momento di massima difficoltà della Lega Nord afflitta da una vera e propria emorragia di militanti; e sua personale, visto che dall’interno lo accusavano di eccessi di moderatismo.
Provocazione studiata, dunque, con il primo stadio di quell’odioso riferimento allo stereotipo coloniale più classico, l’uomo-scimmia, riferito agli africani. Ma l’intento razzista, se ancora ce ne fosse bisogno, è stato confermato da Calderoli nelle dichiarazioni successive, rilasciate ieri a Radio Capital, quelle in cui fingeva stupore per le reazioni alla sua battuta “innocente”. Ebbene, più volte al microfono, e con inequivocabile spudorata tenacia, egli ha insistito a negare che la cittadina italiana Kyenge, peraltro eletta nel Parlamento della nostra Repubblica, abbia il diritto di ricoprire un incarico di governo. «Può fare il ministro, ma in Congo – ha sostenuto Calderoli – non può fare il ministro in Italia». Con ciò lasciando intendere che a suo parere la Kyenge non solo non avrebbe il diritto di fare la ministra in Italia, ma non avrebbe neppure il diritto di considerarsi cittadina italiana.
Simili affermazioni non soltanto contraddicono la verità dei fatti: Kyenge è naturalizzata per legge cittadina italiana né più né meno di Calderoli, e ha quindi i tutti requisiti necessari per assumere incarichi di governo. Di più, queste falsità recitate con leggerezza da Calderoli determinano un vero e proprio vulnus istituzionale: può infatti un’istituzione parlamentare come il Senato della Repubblica avere fra i suoi vicepresidenti un esponente politico che nega l’altrui cittadinanza con argomenti relativi al luogo di nascita? Può permettersi, la nostra Repubblica, di concedere un tale ruolo pubblico a chi semina veleno razzista e alimenta il pregiudizio verso unaparte dei suoi concittadini?
C’è da augurarsi che oggi stesso il Senato provveda a sollevare Calderoli dalla carica che indegnamente ricopre, dopo che per troppi anni s’è finto di ignorare il cumulo di volgarità razziste che di volta in volta ha profuso contro singoli interlocutori o contro popoli e fedi religiose nel loro insieme.
La nomina di Cécile Kyenge come ministra dell’Integrazione è stato forse l’atto più innovativo (l’unico?) del governo Letta. Ma ha letteralmente scatenato una piccola minoranza di esagitati che l’hanno percepita come offesa intollerabile al loro ego xenofobo e hanno scatenato contro di lei una vera e propria guerra dei nervi. Cécile Kyenge ha mostrato una pazienza degna di miglior causa ogni qual volta l’hanno chiamata in causa a sproposito perché si giustificasse di fronte a episodi di violenza sessuale; hanno messo in dubbio la sua competenza in quanto è laureata in oculistica; hanno ironizzato sulla sua numerosa famiglia; l’hanno accusata di godere di protezioni eccessive, nel mentre che aizzavano con toni minacciosi la gente a manifestare contro di lei. L’esito di questa sollevazione contro la Kyenge è stato fallimentare, ma la ricerca della provocazione non si arresta nella speranza che possa derivarne il recupero di uno spazio politico perduto. Per questo è importante seguire cosa succederà nelle prossime ore.
Così come Borghezio è già stato espulso dal gruppo parlamentare cui era iscritto a Strasburgo, in seguito alle offese profferite contro la Kyenge, ci attendiamo che altrettanto faccia il gruppo dei senatori della Lega nei confronti di Calderoli. Non sarà una gran perdita. E servirà a ristabilire anche in Italia quella prassi europea per cui i razzisti vengono tenuti ai margini delle istituzioni, anche perché la destra liberale e moderata per prima si impegna a non dare loro spazio.
BISOGNA vincere la tentazione di rispondere per le rime a Roberto Calderoli. Lui non chiederebbe di meglio che un confronto sui tratti somatici e i quozienti intellettuali. Ma stavolta non potrà cavarsela rifugiandosi nella buffoneria un personaggio come lui, che la politica italiana ha tollerato rimanesse ai suoi vertici per quasi un ventennio.
L’aggressione verbale alla ministra Cécile Kyenge, mascherata come al solito da battuta di spirito, è stata un atto premeditato di violenza razzista. Calderoli sapeva bene quel che stava facendo.



La ministra Kyenge e Calderoli: Adesso basta, lasci il posto a chi è capace «Ogni giorno ricevo minacce online o al telefono»
Corriere della sera, 15-06-2013
Alessandra Coppola
MILANO - «Bongo bongo, tornatene in Africa, ma da che ramo è scesa?». Tre mesi di insulti e Cécile Kyenge fino a oggi ha glissato, «non raccolgo, continuo per la mia strada, ognuno risponde delle proprie opinioni». Poi a paragonarla a un «orango» è arrivato, l'altro ieri, il vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, e pur mantenendo il consueto aplomb, la ministra dell'Integrazione (preferisce il femminile), ha deciso di replicare. «Non mi rivolgo alla persona, ma alla carica istituzionale che ricopre, per invitarlo a fare una riflessione profonda. Da queste sedie rappresentiamo l'Italia, parliamo a nome dei cittadini. E le parole hanno un peso».
Si sente ferita?
«Non voglio andare sul personale. Certo, mi sono svegliata con l'idea di passare una bella domenica, e invece... Il punto è che dobbiamo correggere il linguaggio politico. Sono disponibile al confronto, ma che si basi sui contenuti e non sulle offese. È arrivato il momento di dire basta».
Il senatore Calderoli dovrebbe dimettersi?
«Preferisco non esprimermi. Dico, però, che, se non è in grado di tradurre un disagio in un linguaggio anche duro, ma corretto, bisogna forse dare il suo incarico a chi è capace di farlo».
Calderoli le ha chiesto scusa, ma è tornato a dire che la vedrebbe meglio come ministro in Congo...
«Accetto le scuse. Per il resto sono disponibile a rispondere a tutte le domande che si vogliano rivolgere alla ministra italiana dell'Integrazione. Se ci sono questioni che riguardano il Congo, Calderoli può porle agli esponenti di quel governo, e se non dovessero essere raggiungibili, ci sono l'ambasciata, i consolati...».
L'insulto dell'«orango» ha già varcato i confini. La preoccupa questa immagine dell'Italia razzista?
«È uno dei motivi per cui insisto che bisogna correggere il linguaggio: offese come questa risultano raddoppiate, triplicate. Diventano articoli sulla stampa estera, e sono tutti messaggi negativi per l'immagine dell'Italia».
Le frasi leghiste o gli attacchi di Forza nuova sono gli episodi visibili, eclatanti. Lei, però, è il ministro più scortato del governo: riceve molte minacce che non vediamo, che non sono pubbliche?
«Quotidianamente, con ogni mezzo. Lettere, email, telefonate. Le più terribili sono online, anche minacce di morte. Non c'è ancora una legge, e invece servirebbe. L'istigazione al razzismo sta diventando man mano istigazione alla violenza. Vale per tutti, penso agli attacchi che riceve la comunità ebraica. Dobbiamo lavorarci».
Minacce anche fisiche?
«Sì, è successo. L'ultimo episodio l'altro giorno, ero a Cattolica e partecipavo a una cerimonia privata. All'ingresso principale c'era qualcuno che mi minacciava e mi aspettava, sono stata costretta dalle forze dell'ordine a uscire da un'altra parte...».
Ed è accaduto spesso?
«Abbastanza, devo stare sempre in allerta. Anche perché ovunque vado trovo mobilitazioni contro di me. Per fortuna sono sempre di più le persone che mi sono vicine, che mi manifestano la loro solidarietà».
Che idea si è fatta delle ragioni di questa ostilità?
«Mi sono accorta innanzitutto che il primo obiettivo sono le donne. Al di là della provenienza politica. È un problema su cui andrebbe fatto un percorso. Ci tengo molto a cogliere questa occasione per esprimere la mia solidarietà all'onorevole Mara Carfagna, per le offese e le minacce ricevute sul web».
Il secondo obiettivo?
«La diversità. La pelle nera come la mia attira maggiormente l'attenzione. Penso a Mario Balotelli. Ma vale per tutte le diversità. Ho visto una reazione fortissima contro i cinesi nella zona di Prato, per esempio. Qualcuno fa fatica ad accettare che il Paese è cambiato. E penso che, proprio per questo, avrebbe bisogno di altri messaggi, di un altro tipo di comunicazione».
Quando ha assunto l'incarico, ha usato la parola «termometro»: la prima ministra nera nella storia del Paese serve anche a misurarne la febbre. Il malato è grave?
«Diciamo che la temperatura è un po' calda... Gli ultimi episodi sono stati un po' troppo spinti. Bisogna stare attenti a non farla salire, ma lavorare per raffreddarla».
È il motivo per cui continua a ripetere che «l'Italia non è razzista»?
«Lo ripeto perché è vero. Da tre mesi giro il Paese, non per valorizzare i migranti, ma per tirar fuori l'accoglienza che già c'è. In tutti i territori che visito, non ci sono solo stranieri a ricevermi, ma comunità intere, anziani, tantissimi bambini, che vogliono toccarmi, farsi fotografare con me. "Ministra lei è mia sorella", mi ha detto l'altro giorno una bambina di sei anni di origine sudamericana. Assisto a tante belle iniziative. Partite di basket in cui disabili e non giocano alla pari, cerimonie per la cittadinanza onoraria... Quella che stiamo facendo è una campagna di sensibilizzazione e di educazione: chi ricopre una carica istituzionale dovrebbe usare la propria visibilità in questo modo».
Che cosa può dire di aver conseguito concretamente in questi primi tre mesi di governo?
«Il primo obiettivo raggiunto è che si parla di nuova cittadinanza in ogni angolo del Paese. Voglio attirare l'attenzione anche sugli italiani all'estero, lavorare insieme a loro per valorizzare la nostra immagine. Non è una questione che riguarda solo i migranti: è un'esigenza concreta di tutta la società. È il momento di fermarsi e riflettere insieme sull'Italia di domani».



Gli insulti di Calderoli al ministro Kyenge Il Colle: imbarbarimento
Avvenire, 15-07-2013
Roberto Calderoli, vice presidente del Senato ed esponente di primo piano della Lega Nord finisce nella bufera per gli insulti lanciati da un comizio nel bargamasco contro il ministro dell'Integrazione Cecyle Kyenge: "Quando vedo le sue immagini non posso non pensare alle sembianze di un orango", è l'insulto dell'ex ministro riportato dal Corriere della Sera. Un paragone pesante che ha scatenato lo sdegno bipartisan delle forze politiche e quello dei vertici delle Istituzioni. Una polemica che ha tenuto banco tutta la domenica e che il senatore ha provato a chiudere nella serata di ieri con una una telefonata alla Kyenge per scusarsi. Telefonata che è servita almeno per placare gli strali di Roberto Maroni che in serata ha spiegato che Calderoli "ha sbagliato ma si è scusato". Poi in serata la Kyenge conferma la telefonata e le scuse accettate, ma precisa: "il nodo istituzionale resta: ciascuno deve tener presente sempre la carica che riveste".
La prima a replicare domenica mattina era stata proprio il ministro vittima delle invettive di Calderoli: "Le parole di Calderoli non le prendo come un'offesa personale, ma mi rattristano per l'immagine che diamo dell'Italia".
Contro le offese alla Kyenge si è scagliato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che fa trasparire tutta la sua "indignazione" per gli insulti al ministro dell'Integrazione. Il Capo dello Stato cita oltre agli insulti alla Kyenge anche le minacce arrivate via facebook a Mara Carfagna e l'incendio che ha devastato il liceo Socrate per evidenziare tutta la sua preoccupazione per il clima di odio e l'imbarbarimento civile che ha dominato in questi ultimi due giorni.
A difendere il suo ministro ci pensa anche il premier Enrico Letta che bolla come "inaccettabili e oltre ogni limite" le parole del senatore leghista. Uguale sdegno arriva dai vertici di Camera e Senato. Pietro Grasso invita Calderoli a "scusarsi" per "offese che non hanno giustificazioni", mentre il presidente della Camera Laura Boldrini fa sapere di aver telefonato al ministro per esprimerle la sua solidarietà di fronte a "parole indegne". Solidarietà "a nome del governo e del Pdl" arriva anche dal ministro dell'Interno Angelino Alfano mentre il segretario del Pd Guglielmo Epifani invita il vicepresidente del Senato a dimettersi dall'incarico.
Le parole di Calderoli generano imbarazzo nella Lega Nord. Il segretario e governatore lombardo Roberto Maroni sceglie il silenzio lasciando che a commentare siano Roberto Cota e Matteo Salvini, entrambi convinti che quella di Calderoli sia solo "una battuta". Ed è lo stesso ex ministro a tentare di difendersi dalle accuse: "Ho fatto una battuta magari infelice -  è la spiegazione - se la Kyenge si è offesa chiedo scusa, ma la mie parole erano inserite in un discorso più articolato di critica alla politica del ministro". Calderoli fa sapere di aver invitato il ministro alla Berghem fest e fornisce una personale spiegazione del polverone sollevato per le sue dichiarazioni: "Non vorrei - dice - che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda Ablyazov".
Nonostante il senatore lumbard cerchi di correggere il tiro, le accuse non si placano. Oltre a tutti i ministri che fanno quadrato intorno alla Kyenge, il Partito Democratico va alla carica chiedendo come Scelta Civica, le dimissioni dalla vice presidenza di palazzo Madama: "Quanto detto da Calderoli lascia senza parole e non dovrebbe nemmeno essere pensato - accusa Epifani - detto dal vice presidente del Senato, apre un problema che andrà opportunamente affrontato". Dello stesso avviso anche il capogruppo democrat al Senato Luigi Zanda "Gli insulti di Calderoni sono incompatibili con il suo ruolo".
Solidarietà arriva anche dal Pdl. Il capogruppo alla Camera Renato Brunetta ci tiene a ricordare come "lo scontro anche acceso e la normale dialettica politica, fondamentali in un Paese democratico non dovrebbero mai sfociare in offese gratuite e in insulti a sfondo razziale". Un ragionamento simile lo fa Giorgia Meloni, capogruppo di Fratelli d'Italia: "non condivido neanche una delle sue proposte e in Parlamento Fratelli d'Italia darà battaglia Ma non con gli insulti".
Voce fuori dal coro quella del Movimento Cinque Stelle. Il capogruppo al Senato Nicola Morra teme che "le polemiche su Calderoli offrano la sponda per far passare in secondo piano la discussione di questioni importanti come quella che punta a sospendere l'acquisto dei cacciabombardieri nell'interesse del Paese offendendo il suino!".



Parole inconciliabili con il ruolo al Senato
La Stampa, 15-07-2013
Michele Brambilla
Quello che stupisce non è tanto il fatto che Calderoli abbia dato dell’orango al ministro Kyenge: per quanto l’insulto questa volta sia particolarmente ripugnante, a certe sparate siamo abituati.
Lo stupore è piuttosto per chi conosce Calderoli: una persona diversa dal volgare tribuno che si è esibito a Treviglio e, ahimè, anche in molte altre occasioni. Stesso discorso per Borghezio. Quando li incontri, trovi persone colte, educate, ragionevoli. Ma quando questi stessi dottor Jekyll diventano mister Hyde, capisci il tragico copione che la Lega ha recitato in questi anni per solleticare la pancia più becera del Nord.
Non è un caso, infatti, che persone come Calderoli – che a tanti di noi giornalisti ha parlato con coraggio e sensibilità del travaglio che ha vissuto per la sua malattia – non si sognerebbero mai di dare dell’«orango» al ministro Kyenge in una conversazione privata o in un’intervista; ma non hanno alcuna remora nel farlo se di fronte hanno una platea con la bava alla bocca. Questa è sempre stata la strategia della Lega: due linguaggi, a seconda di chi ascolta.  
Ma ormai Calderoli e i suoi colleghi leghisti dovrebbero avere gli elementi sufficienti per capire che questa tattica ha portato il loro movimento al suicidio. La Lega aveva tanti argomenti seri da portare in politica; difendeva tanti interessi più che legittimi del Nord. Se ha fallito, è anche perché ha scelto di non crescere, ed è rimasta prigioniera del suo primo elettorato, quello che nei primi Anni Ottanta non voleva gli insegnanti meridionali. Quello che vuol sentirsi dire che il ministro Kyenge assomiglia a un orango.
Calderoli non può non rendersi conto che il suo dell’altra sera è l’ultimo di una lunghissima serie di autogol che l’hanno già, e da un pezzo, portato alla sconfitta. E non può non capire che, se ha scelto di continuare a parlare in quel modo, non può restare alla vicepresidenza del Senato.  



Imprenditori e immigrati eccellenti che creano occupazione nel Paese
La Stampa, 15-07-2013  
Si chiama Marcin Saracen, è imprenditore polacco ed è il vincitore assoluto del MoneyGram award 2013, il primo premio all'imprenditoria immigrata in Italia.
Premiati nelle diverse categorie Tito Anisuzzaman (Bangladesh), Tsi Hsi Sun (Cina), Liliam Altuntas (Brasile), Tamas-Laszlo Simon (Ungheria) e Maria Cecilia Caceres Siguas (Perù). Alla premiazione è intervenuta anche la ministra per l'lntegrazione, Cécile Kyenge: «Questa iniziativa - ha sottolineato - è il segno del contributo innovativo al nostro paese che arriva da questi imprenditori che costituiscono una grande risorsa e creano occupazione».
Il premio è stato ideato da MoneyGram per promuovere l'eccellenza delle aziende gestite da imprenditori stranieri in Italia, che ormai sono circa 500mila. Marcin Saracen è nato nel 1979 a Breslavia e a 24 anni decide di emigrare in Italia dove oggi risiede ad Arese (Milano).
Nel 2006 fonda e diventa amministratore unico della Fm Group Italia, che si occupa di commercio di cosmetici e profumi polacchi.
In pochi mesi riesce a trasformare una piccola filiale in un impero. Nel 2012 l'azienda ha fatturato 26 milioni di euro. Oggi conta 90 dipendenti con 170 mila distributori in Italia e ha sempre puntato sui profumi di alta qualità.
Tito Anisuzzaman ha vinto il premio per la crescita. E' un orafo che viene dal Bangladesh. Ha trentadue anni, è in Italia dal 1999, dove risiede ad Arezzo. Inizia a lavorare come apprendista in una azienda italiana e nel 2007, pur continuando a fare l'operaio, fonda la sua azienda di artigianato orafo, Amici International, che realizza attività di galvanica di prodotti in oro e altri metalli preziosi e non. Nel 2011 compie il grande salto e lascia il lavoro da dipendente. Nel 2012 l'azienda ha fatturato 336mila euro, erano 43mila nel 2011. Al momento conta 8 dipendenti, tutti asiatici, per aiutare la sua comunità in Italia.
E' invece cinese l'ideatore di Eatasia, Tsi Hsi (o Luigi) Sun, che ha vinto il MoneyGram award per l'occupazione. Nato a Chekiang nel 1957 è in Italia dal 1962, dove è oggi uno degli imprenditori di maggior successo della comunità della Chinatown milanese.
A Liliam Altuntas è andato il premio per l'imprenditoria giovanile. Liliam è una cake designer brasiliana, nata nel 1978 a Jaboatão dos Guararapes e arrivata a Torino nel 2004 dopo un'esperienza in Germania. Ha fondato nel 2009 la Liliam Buffet, società specializzata nella produzione di torte artigianali all'avanguardia nell'organizzazione di eventi. E oggi una delle principali cake designer del Piemonte.
Il premio per l'innovazione è stato vinto da Tamas-Laszlo Simon, nato in Ungheria nel 1968 e residente a Roma. Per dare il suo contributo per migliorare il mondo dove vivranno le sue due figlie, nel 2008 fonda Eadessopedala, una società di consegne veloci: il corriere in bici ecologico e sostenibile.
Infine il premio per la responsabilità sociale è andato a Maria Cecilia Caceres Siguas, che viene dal Perü. Ha fondato la Ludoteca Baby Parking Figli del mondo, nel quartiere Primavalle, che offre servizi all'infanzia e sostegno alle donne in difficoltà anche tramite un centro alloggio.    



Nadea e Sveta che hanno lasciato i figli in Moldavia
Corriere della sera, 15-07-2013
Stefano Pasta
Ritrovarsi con le tue connazionali nel parco cittadino o nelle balere di periferie frequentate da maschi attempati. Pregare tra canti e segni della croce, candele e baci di icone nella chiesa ortodossa della città. Parlarsi via webcam con la madre che, indicando tua figlia, dice: “Guarda com’è cresciuta”. Questa è spesso la vita delle donne dell’Est Europa che hanno lasciato casa, patria e affetti per un futuro insicuro e colmo di incognite qui da noi. Come le protagoniste di “Nadea e Sveta”, un film di Maura Delpero girato tra Bologna e la capitale della Moldavia. Le loro famiglie sono rimaste a Chi?in?u: Nadea ha lasciato figli ormai grandi, mentre Sveta ha dovuto affidare alla madre la sua bimba di tre anni. Con un conseguente ribaltamento dei ruoli di genere nelle loro famiglie, dove gli uomini ora non hanno lavoro, ricevono i soldi dalle mogli e talvolta cadono vittime dell’alcolismo.
Nel 2010, Sveta riceve il permesso di soggiorno, dopo aver vissuto “due anni e mezzo come una galera”: ora è “libera” di tornare in patria e rivedere finalmente la figlia. Alla partenza dell’amica, Nadea rimane sola a Bologna e cerca di reagire alla solitudine. Le due amiche continueranno a confidarsi e ad aiutarsi a distanza, anche quando i loro destini si incroceranno fino a invertirsi, in una storia di donne sempre pronte a ripartire.
    Storie della porta accanto, o del giardino sottocasa, fieramente raccontate al femminile.
Ne spiega la genesi la regista: “Alcuni anni fa, ho fondato un’associazione per l’insegnamento dell’italiano alle donne dell’Est Europa. Mi hanno subito colpito la forza morale, la determinazione e l’assenza di qualsiasi altisonanza nel raccontare vere e proprie avventure. Più di tutto non riuscivo a capire come queste donne potessero convivere con la nostalgia e la frustrazione di non vedere crescere i propri figli. Ho sempre terminato questi corsi con grandi punti di domanda e una fascinazione per l’eroicità di queste storie sommerse. Una domenica di primavera sono entrata in un parco a Bologna: non c’era un solo italiano, solo tantissime donne straniere, sedute in piccoli gruppi, che mangiavano, chiacchieravano, telefonavano. Mi ha emozionata il loro modo di stare insieme perché sembravano stringersi l’una all’altra in un ideale abbraccio”.
    Nel film, la regista scavalca il punto di vista del Paese “ospitante” e spinge a mettersi nei panni delle due protagoniste.
La telecamera coglie l’indecisione emozionata di Sveta quando deve scegliere le calze da ballo da regalare alla figlia che non vede da anni (“Le saranno troppo grandi…?”), o il risveglio assonnato dopo le prima notte insieme. Una quotidianità agognata, un’abitudine che si è trasformata in lusso: poter abbracciare la propria bambina e darle il buongiorno tra il fruscio delle lenzuola, la dolcezza delle parole sussurrate, l’odore degli sbadigli e la corporeità del solletico. E i problemi: anni di lontananza rendono difficile la comunicazione tra madre e figlia e Sveta vorrebbe educare la bambina in modo diverso da come ha fatto la nonna. Ma grazie al nuovo permesso di soggiorno, dopo alcuni mesi Sveta riesce a portare in Italia la bambina. Parte allora la nuova ricerca di “casa propria” e la costruzione della relazione tra mamma e figlia, che la regista ci racconta con un’immagine: pista di ghiaccio, Sveta pattina cercando di mostrarsi sicura, la bambina si aggrappa alle sue ginocchia per non cadere, mentre Nadea osserva rassicurante.

 

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