Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Tutta colpa di Abiola?

 

 Mauro Valeri
Ci sono episodi di razzismo, soprattutto quelli che ottengono una certa attenzione da parte dei media, che hanno il potere di far emergere insospettabili posizioni razzistiche avanzate in genere da coloro che cercano, spesso con motivazioni risibili ma emblematiche, di negare la componente razzista dell’episodio.
 E’ quanto sta accadendo in merito al grave episodio che ha visto coinvolta Abiola Wabara, classe 1981, nata a Parma nel 1981 da genitori nigeriani, giocatrice professionista di pallacanestro, cresciuta sportivamente a Parma e poi maturata negli Stati Uniti, in Israele e in Spagna. A conferma della sua italianità, ha anche indossato la maglia della Nazionale. Durante una importante partita della serie A1 femminile, una quindicina dei tifosi della squadra avversaria, la Comense, l’hanno insultata ogni volta che giocava il pallone. La situazione era talmente pesante che il presidente della squadra in cui gioca Abiola, la Geas Sesto San Giovanni, aveva chiesto più volte di fermare la partita, così come prevede il regolamento. Ma l’arbitro sembra non aver sentito nulla, tanto da far terminare la partita e non riportare nulla a referto. I tifosi razzisti della Comense, ancor più arrabbiati dal fatto che la loro squadra avesse perso, hanno aggredito nuovamente la Abiola con sputi e insulti razzisti mentre usciva dal campo. Questi i fatti, sui quali sta indagando addirittura la Digos. Tutti si aspettavano le parole di condanna di quanto accaduto e di solidarietà per Abiola. Invece, quasi a sorpresa, è arrivata la dichiarazione del presidente della Comense di basket femminile, Antonio Pennestri (tra l’altro anche presidente nazionale della Lega basket femminile), il quale, anziché prendersela con il gruppo dei tifosi razzisti - caso mai aiutando ad identificarli - ha affermato: “Se la Wabara è stata insultata e sputacchiata è stato certamente un grave episodio di inciviltà non ascrivibile alla Comense, ma altrettanto grave è stato il comportamento della giocatrice, che evidentemente non ha ancora capito come deve comportarsi un'atleta in tale occasione, e con ciò scadendo al livello di chi l'ha offesa. Non permetto che nessuno osi gettare pessima reputazione sui tifosi della Comense che hanno sempre sostenuto civilmente, con calore e profondo rispetto degli avversari, la propria squadra". Pennestri “salva” i tifosi della Comense perché non hanno precedenti in razzismo, ma soprattutto non considerando tali quelli che avevano insultato Abiola! Forse Pennestri non sa che per la giustizia sportiva, il presidente di una società sportiva deve farsi carico di tutti i tifosi della propria squadra (responsabilità oggettiva); se tra questi ci sono violenti e razzisti, deve essere anche lui a denunciarli (cosa che Pennestri non sembra aver fatto). Tutta la colpa ricade così su Abiola, colpevole di aver reagito a quegli insulti. Ma se lei ha reagito, vuol dire che è stata insultata, possibilità che Pennestri stranamente ignora, facendo quasi credere che Abiola (forse perché nera?) abbia agito senza alcun motivo. D’altra parte, se Abiola non avesse reagito, nessuno avrebbe considerato quegli insulti razzisti. Mettere sullo stesso piano chi aggredisce e chi reagisce è una sciocchezza assoluta, a meno che non si voglia mettere in secondo piano l’aggravante razzista. Se la Abiola avesse chiamato altri quindici energumeni black italians, e tutti insieme avessero sputato e insultato con epiteti razzisti quei tifosi, forse si sarebbe potuto avanzare qualche paragone. Altrimenti è solo un modo per negare il razzismo. Anche Pietro Vierchowod, ex calciatore, tra l’altro, della Sampdoria e della Nazionale, si è sentito in diritto di dire la sua: “Questo fatto non ha niente a che vedere con il razzismo. Si tratta di ignoranza di alcuni a scapito di tutti. Conosco bene questa città nella quale vivo ormai da 34 anni. I razzisti poi non siamo certo noi italiani. Basta vedere come si sta comportando la Francia in questi giorni”. E’ preoccupante che siano dichiarazioni di una persona che oggi di mestiere fa l’allenatore e l’opinionista sportivo Rai (come commenterebbe episodi del genere? Cosa insegna ai suoi allievi?). Eppure era lo stesso Vierchwod che, nel novembre 1992, aveva sottoscritto con convinzione l’appello contro il razzismo nel calcio lanciato da la Repubblica. Questo cambiamento di vedute è legato al tempo che passa, oppure alla sua volontà di candidarsi a sindaco di Como per l’anno prossimo (annuncio che, curiosamente, è avvenuto in coincidenza con la sua presa di posizione sull’episodio che ha visto coinvolta Abiola). Chiamare il razzismo con un altro nome (bullismo, ignoranza, ecc.), così come “assolvere i pochi razzisti” invocando l’intera popolazione di una città (ben sapendo che molto probabilmente non esiste alcuna città al mondo con una popolazione razzista), sono furberie che hanno il respiro corto e a cui non ci crede più nessuno, neanche al bar sport. Bisogna avere il coraggio invece di capire cosa sia accaduto e perché. Un po’ ingenuamente Gianni Petrucci, presidnete del Coni ha dichiarato: “Mi auguro che per la prima volta (?) chi ha detto e fatto quelle cose si faccia conoscere e dica il perché lo ha fatto”. Per sapere chi sono e perché lo fanno non ci vuole molto (ma lo sanno al Coni che esiste il razzismo nello sport italiano?). Siamo stati tra i primi ad ipotizzare che i razzisti del palazzetto fossero (ex) tifosi di calcio, presumibilmente del Como (negli ultimi dieci anni, sono stati puniti 6 volte dal giudice sportivo, e una volta con cori contro un loro calciatore black italian, proprio come Abiola). Ma è un dato che sanno in molti: le leggi repressive adottate agli stadi calcistici hanno avuto l’effetto di portare in altre tribune i tifosi razzisti, affatto preoccupati se si trattasse di calcio, hockey su ghiaccio, rugby o pallacanestro (e non è la prima volta che quest’anno anche il basket sia stato coinvolto in violenze con matrice razzista), a dimostrazione che c’è ancora molto da far per far crescere la vera cultura sportiva. A rendere meno amara questa vicenda ci sono le parole di solidarietà del presidente della Geas, Marco Mazzoleni (il più deciso), del presidente della Federazione Italiana Pallacanestro, Dino Meneghin, il presidente del Coni regionale, Pierluigi Marzorati, di Carlton Myers, dal ministro per la Pari Opportunità, Mara Carfagna, e dal responsabile nazionale sport del Pd, Paola Concia. Ieri, nella partita di ritorno, giovanissime tifose hanno esposto lo striscione “Un solo cuore, nessun colore”. In attesa delle scuse di chi ha continuato a sostenere che invece il razzismo non c’entrava, restiamo anche in attesa che dalle parole si passi ai fatti, perché, come ha ribadito Abiola, l’Italia è anche il suo paese, ed è giusto che le istituzioni sportive (e non solo) facciano di tutto affinché episodi del genere non capitino più. 
 
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