Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

ITALIA

Sara Medici
Poiché il dibattito intellettuale sulla cosiddetta “identità italiana” è a tutt’oggi molto vivace e complesso cercherò di ripensare alla questione partendo da uno dei nostri gesti quotidiani più frequenti: maneggiare gli spiccioli della moneta unica europea. L’Italia,ha almeno tre identità sovrapposte e compresenti: è Occidente, è Europa ed è, appunto, Italia. Sugli spiccioli dell’euro -  più precisamente sulla loro “faccia nazionale” - è impresso quel valore rappresentativo e simbolico che da sempre, la moneta esprime sia in conio che su carta.

Essa stessa è, in qualche modo, simbolo di un paese.
Detto questo, per “mettere in questione”, letteralmente, l’identità italiana, è opportuno tenere presente che il messaggio iconico della moneta si rivolge sia al cittadino del paese che ha prodotto i propri segni nazionali – nel nostro caso agli italiani -,  sia ai cittadini degli altri paesi. Ciò significa che solo spostando il punto di vista della competenza nativa la definizione di qualsivoglia concetto di identità nazionale - cioè la comprensione del valore simbolico delle immagini con cui un paese si rappresenta - varia continuamente. Così, osservando le facce nazionali delle monete europee e comparandole tra loro, sembra che l’Italia sia l’unica nazione/patria europea ad avvertire la necessità di rappresentarsi al plurale e in un modo che risulta difforme rispetto alla tanto più sobria scelta di quasi tutti gli altri paesi. Non solo, infatti, le nostre monete hanno tutte un’immagine differente, ma raffigurano, tutte, luoghi e personaggi della cultura italiana. Su di esse non appare nessuna icona politica o istituzionale; per accertarsene basta fare l’elenco dei personaggi: oltre a Dante (due euro) il primo scenario storico è il Rinascimento e il suo Classicismo. Tale scenario è rappresentato da L’uomo vitruviano di Leonardo (un euro), dal monumento equestre di Marco Aurelio disegnato da Michelangelo Buonarroti a Roma in piazza del Campidoglio (cinquanta centesimi) e dal dettaglio della Nascita di Venere del Botticelli (dieci centesimi). Se la scala dei valori simbolici delle monete equivale a quella econoimica allora il “valore totale” del Rinascimento (1,60 Euro) equivale, o quasi, alla solitaria grandezza di Dante Alighieri (2,00 Euro). L’età classica di Roma che pare essere il fondamento dell’Italia (antichi e moderni insieme, Marco Aurelio e Michelangelo al Campidoglio nel Rinascimento) si riduce a cinque centesimi (il Colosseo). Il Medioevo rappresentato da Castel del Monte, edificato da Federico II, (un centesimo) chiude il ciclo medievale aperto da Dante. L’Italia otto-novecentesca si infila curiosamente tra Dante e Federico II con la Mole Antonelliana di Torino (due centesimi) e Forme uniche nella continuità dello spazio di Boccioni (venti centesimi). Comunque sia, è evidente che nel nostro “discorso nazionale” a dominare incontrastata è l’Italia centrale, tra Firenze e Roma e che, inoltre, la storia narrata dalle nostre monete ci dice, e dice agli altri, che gli italiani sono un popolo di artisti e di poeti, senza stati e senza santi, senza eroi militari e senza scienziati.
Se il rapporto gerarchico tra il valore economico delle monete e quanto su di esse viene rappresentato è il frutto di una selezione mirata allora ne dovremmo dedurre che tra il Rinascimento di Botticelli, Leonardo e Michelangelo, e la Mole Antonelliana non si sia voluto rappresentare quel lungo periodo che ancora chiamiamo di “decadenza”. Tre secoli di storia, da metà Cinquecento a metà Ottocento, di cui ci vergognamo, e che facciamo di tutto per cancellare  e rimuovere allo stesso modo in cui è stata rimossa dai libri scolastici la nostra politica imperialistica; sì tarda, ma esistente e cardianale per ri-conoscerci. Se da un lato, infatti, l’Italia è stata “perenne colonia europea” , dall’altro, nel Novecento, è stata anche potenza coloniale; solo noi abbiamo vissuto e ci portiamo addosso questa doppia condizione identitaria, che tuttavia non siamo ancora in grado di leggere nella relazione. Doppia condizione che si estrinseca anche nel fatto che la nostra penisola, geograficamente, ma anche culturalmente, si allunga sul Mediterraneo come un ponte di collegamento tra Europa ed Africa. Un ponte che se nell’Ottocento veniva disceso e descritto dai giovani aristocratici d’Europa, oggi viene risalito e, cosa importante, narrato dai cittadini di innumerevoli mondi del mondo. Così, nell’immaginario europeo di coloro che compivano il Grand Tour, il “ponte Italia” corrispondeva al magico Sud - al Belpaese appunto - ma nell’immaginario di un africano, uno slavo o un mediorientale, esso diventa, oggi, il primo lembo di terra appartenente al fantastico mondo di “Eurolandia”. Primo lembo, tuttavia, che una volta raggiunto rivela, a degli occhi vergini, anche la sua miseria, la sua corruzione e il suo degrado. Rivela il suo essere, appunto, “Sud” in tutto e per tutto. Il suo fascino misterioso fatto di convivialità, ospitalità, ritmo, suono e colore che le terre soleggiate hanno da sempre esercitato sulle genti del Nord, mostra al contempo tutta la sua oscurità e il suo dolore.  Così le due visioni si confrontano e nell’esercitarsi creano due verità prospettiche differenti, ma entrambe reali: Chateaubriand, da nord, quando viene a visitare l’Italia ai primi dell’Ottocento la definisce “culla dell’architettura e delle arti” mentre rovesciata e nuova è la visione di chi ci vede da sud. Ecco, ad esempio, uno stralcio da Il latte è buono, illuminante libro di Garane Garane, scrittore somalo ritenuto dalla critica autore del primo romanzo postcoloniale italiano:

Ghasan cominciava ad analizzare le cose in un paese in cui non si vuol vedere […] Ghasan non poteva impedirsi di pensare all’Oriente ogni volta che vedeva un italiano. “Perché assomigliano tanto agli arabi e ai persiani?”, si chiedeva sempre. Credeva di avere la sacra risposta. “Forse questa razza un po’strana viene dagli imperi dell’Oriente e dell’Occidente? Si saranno mescolati con i turchi che hanno tolto all’impero romano d’Oriente tutta l’Asia Minore. Questa sarebbe una buona ipotesi poiché anche i turchi e gli orientali parlano tanto e gesticolano come gli italiani…[…] Ah! Da dove viene questo popolo che brucia il cero nelle chiese, che ama i santi, ma solo nel cielo? Sono forse il risultato di un popolo dalla pelle rossa chiamato Etruschi? E il Romano di Roma che cos’è? O gli italiani di oggi assomigliano agli infedeli da cui molto tempo fa hanno voluto liberare la tomba del Cristo? C’erano colonie di italiani nei territori sulle coste dell’Asia Minore e della Palestina.”

Non c’è dubbio alcuno che Chateaubriand e Garane vedono due “identità”, diverse si, ma compresenti. A questo punto penso che, a 150 anni dall’unità, in Italia debba e possa essere finalmente possibile un rapporto nuovo e diverso con la nostra tradizione letteraria, culturale e storica senza preconcetti, senza pregiudiziali e senza rimozioni. Un rapporto che possiamo stabilire solo partendo dall’accettazione e dall’analisi del racconto di tutto ciò che “l’altro”, non solo e sempre europeo, vede e ha visto in noi.

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