Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

15 settembre 2010

La Cei: «Governo inerte» Maroni: «Un incidente»
L'armatore dell'Ariete: «I libici sapevano a chi sparavano»
Il Mesaggero, 15-09-2010
Carlo Mercuri
ROMA - «E' stato un incidente. La Libia si è scusata», dice il ministro Maroni. «Macché incidente, se i colpi di mitragliatrice avessero perforato la bombola del gas e fossero saltati tutti in aria, che sarebbe accaduto? Si sarebbe sempre parlato di incidente? - ribatte furioso Vincenzo Asaro, l'armatore del peschereccio "Ariete" bersagliato dai colpi della motovedetta italo-libica.
Il caso. La vicenda del peschereccio italiano è diventata ormai un caso internazionale. Molte le domande che ancora non trovano risposta, per esempio: quali sono le regole d'ingaggio che governano la pesca in acque intemazionali? E' lecito sparare se un peschereccio non si ferma all'alt? Perché le motovedette che l'Italia ha donato alla Libia per l'anti-immigrazione  (con tanto di militari della Guardia di Finanza a bordo) si sono invece trovate a difendere la linea di pesca del Paese africano? E ancora: le acque dove c'è stata la "sparatoria" sono internazionali, come sostengono gli italiani, o libiche, come sostengono i militari di Tripoli? Il ministro Frattini oggi riferirà alla Camera e probabilmente chiarirà alcune di queste questioni. Intanto qualcosina già l'ha detta, come quando ha affermato che «il comandante sapeva di pescare illegalmente». Il che non vuol dire che il nostro ministro degli Esteri intenda avallare la reazione libica ma che comunque intende mettere i puntini sulle i, dividendo torti e ragioni.
La Chiesa. Chi ha invece levato alta la propria voce, a proposito dell'episodio del peschereccio, è stata la Cei, per bocca di monsignor Domenico Mogavero, presidente del Consiglio per gli Affari giuridici nonché vescovo di Mazara del Vallo. Monsignor Mogavero ha bacchettato il Governo («Assistiamo a una vera e propria inerzia del Governo italiano») e ha affermato: «Si spara senza che ci sia una ragione valida su un peschereccio che era lì perla sua attività. La cosa che preoccupa ancora di più -ha continuato il vescovo - è che una delle motivazioni addotte per giustificare i fuochi libici è che si immaginava che fosse una nave con degli immigrati. Se i respingimenti - ha concluso - diventano attacco armato, siamo veramente alla dichiarazione di guerra contro gli immigrati. Questa volta non c'è scappato il morto, ci sono state le scuse del Governo libico, ma tutto questo non ridimensiona la gravità dell'episodio».
In Parlamento. Anche le opposizioni parlano, con Casini (Udc), di «episodio gravissimo e inquietante», chiedendo che il Governo riferisca «immediatamente» sui fatti libici. Piero Fassino, presidente del Forum Esteri del Pd, ha affermato: «L'incidente sollecita un urgente chiarimento su quali siano le implicazioni concrete degli accordi sottoscritti». L'inchiesta. La Procura di Agrigento ha intanto aperto un fascicolo sull'episodio, ipotizzando i reati di tentativo di omicidio plurimo aggravato e danneggiamento. L'inchiesta al momento è a carico di ignoti. I magistrati hanno disposto il sequestro cautelativo del peschereccio "Ariete" che attraccherà a Porto Empedocle alle prime luci dell'alba. Sentiranno sicuramente anche i militari della Guardia di Finanza che erano a bordo della motovedetta che ha sparato.



Sparare si può? «Pensavano fossero migranti». E la Lega insorge

l'Unità, 15-09-2010
U. De Giovannangeli
«Io immagino che abbiano scambiato il peschereccio per una nave di clandestini». Parola di Roberto Maroni, ministro dell’Interno della Repubblica italiana. Parole incredibili. Parole agghiaccianti. L’«immaginazione» del titolare del Viminale rimanda a scenari inquietanti. A non detti terrificanti: hanno scambiato il peschereccio (italiano) per una nave con clandestini. Domanda: signor ministro, ma su una nave di clandestini è lecito, giustificabile, sparare mitragliate ad altezza d’uomo? E farlo usando motovedette regalate dall’Italia al «Gendarme del Mediterraneo», al secolo Muammar Gheddafi? Domande che restano senza risposta. Per il Governo italiano gli spari contro il peschereccio «Ariete» sono da considerare un «incidente».
SOLO UN INCIDENTE
«Penso che si sia trattato di un incidente grave, ma pur sempre un incidente: studieremo le misure perché non accada più, quello che è successo l’altro ieri sera (domenica, ndr) è un fatto che non doveva accadere e la Libia si è scusata», ripete Maroni a Mattino5. Un incidente... Ben diversa è la valutazione della Procura di Agrigento. Danneggiamento di navi e tentativo di omicidio plurimo aggravato: sono i reati ipotizzati, contro ignoti, dalla Procura della Repubblica di Agrigento che coordina l’inchiesta sul motopesca «Ariete» mitragliato da una motovedetta libica sulla quale erano presenti anche alcuni militari italiani come osservatori. Titolari dell’inchiesta sono il procuratore capo Renato Di Natale, l’aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Luca Sciarretta.
IL CAPITANO CONTRATTACCA
«Era evidente chi fossimo: dei pescatori italiani. Glielo avevo detto prima dell’attacco». Gaspare Marrone, il capitano dell’«Ariete», conferma la sua versione di fatti. E rifiuta l’ipotesi dell’«equivoco» avanzata da Maroni. «Non so perché il ministro dica queste cose - spiega - ma tutto si può affermare tranne che sia stato un incidente. Nè è possibile sostenere che ci abbiano scambiati per clandestini. Hanno sparato per colpirci e potevano ucciderci». Il comandante Marrone torna su quei momenti drammatici: «Ho parlato col comandante che mi ha chiesto di fermarmi . L’italiano mi ha detto che se non mi fossi fermato, mi avrebbero sparato addosso. Parlava italiano meglio di me», racconta Marrone, riferendo che l’uomo «si era presentato come guardia costiera o di finanza libica, non ricordo bene. C'era agitazione». «Potevano controllarmi, ma dopo 5 minuti invece hanno cominciato a sparare e io sono sceso giù. C’era il pilota automatico, sparavano ad altezza d'uomo».
«Un peschereccio italiano che viene mitragliato da una motovedetta donata alla Libia dal governo italiano e che a bordo aveva militari italiani della Guardia di Finanza è certamente un caso anomalo», sottolinea Vincenzo Asaro, armatore del peschereccio mazarese. «Il mio rammarico - dice Asaro - è che si è sparato ugualmente nonostante la presenza sulla motovedetta libica dei militari italiani». L’armatore non nasconde stupore e amarezza per le dichiarazioni del ministro Maroni che ha definito un «incidente» la vicenda: «Se i colpi di mitragliatrice avessero perforato la bombola del gas e fossero saltati tutti in aria - si chiede - che sarebbe accaduto? Si sarebbe sempre parlato di incidente? Non posso entrare nel merito di quello che ha dichiarato il ministro perché non mi compete, ma sa perché i comandanti dei nostri pescherecci non si fermano all’alt dei libici? Una volta in Libia confiscano la barca e mettono in carcere l’equipaggio».
A dar man forte al suo collega di governo, scende in campo Franco Frattini. Il comandante del peschereccio “Ariete” «sapeva di pescare illegalmente», sentenzia il titolare della Farnesina. «Le regole di ingaggio - puntualizza però il ministro degli Esteri - devono essere chiare. La regola di non sparare è assoluta ed evidente per le forze italiane». E per quelle libiche, signor ministro?



I finanzieri italiani erano "sottocoperta"

La Stampa, 15-09-2010
Guido Ruotolo
Dalle prime ricostruzioni i libici hanno eseguito le regole d'ingaggio
ROMA -Adesso la commissione d’inchiesta del Viminale dovrà assolvere al compito di far sbollire gli animi, di far calare la tensione. Di chiudere quello che il ministro degli Esteri Frattini ha definito un «grave incidente». Certo, poteva scapparci il morto ma visto che il morto non c’è stato, la parola d’ordine è quella di archiviare l’accaduto.
Addirittura, al Viminale ricordano che «i nostri pescherecci spesso sono bersagli di tiro a segno delle forze di polizia in Croazia come in Senegal». Questo per dire che non c’è solo un «caso» Libia, ma che di fronte a «contestate» presenze di pescatori «abusivi» (si dovrebbe dire di frode) in acque internazionali, può succedere quello che nessuno si augura. Lungi dal rimuovere il «grave incidente», il Viminale sta ricostruendo l’accaduto. Un primo rapporto dei sei militari della Finanza presenti sulla motovedetta ceduta ai libici, è arrivato sul tavolo del ministro dell’Interno, Roberto Maroni. E in giornata si è tenuta una prima riunione, dopo aver convocato il responsabile del contingente della Finanza in Libia e il vicecomandante (il comandante è libico) del Centro operativo interforze. La commissione d’inchiesta non ha concluso i lavori ma ha già le idee chiare su ciò che è successo domenica sera a trenta miglia da Zwarah.
In sostanza, i sei finanzieri hanno raccontato che dopo aver pianificato la «missione» di contrasto alla immigrazione clandestina, «sono usciti regolarmente». Quando hanno avvistato il peschereccio, i militari libici avrebbero seguito le regole di ingaggio stabilite dai trattati: «Hanno prima attivato i segnali acustici, poi quelli visivi, passando così agli spari di intimazione in aria». Attenzione, i nostri sei finanzieri ammettono che nella fase critica dell’«incidente» si trovavano «sottocoperta». Anche se un finanziere via radio ha comunicato al comandante del peschereccio “Ariete” che i libici avrebbero sparato se non si fossero fermati.
Con i finanzieri in un ruolo passivo, di meri osservatori di quanto stava accadendo, lo scontro tra i libici e i pescatori italiani ha vissuto momenti drammatici. Perché le raffiche di mitra hanno colpito il peschereccio mettendo a rischio la vita degli italiani. Va precisato che per quanto riguarda le nostre sei Fiamme gialle, si tratta di personale tecnico: motoristi, elettrauti, meccanici. L’accordo italo-libico stabilisce che il personale italiano deve indossare «abiti da lavoro scevri da distintivi», trattandosi di personale di osservazione che presta attività di assistenza e consulenza tecnica a bordo.
Dunque, mentre i nostri dieci marinai rischiavano la vita, i finanzieri erano sottocoperta. La procura di Agrigento procede per tentato omicidio e per la violazione del codice della navigazione, ravvisando una ipotesi di tentativo di speronamento. Secondo l’accordo italo-libico, i sei militari italiani non possono essere chiamati a rispondere per gli eventuali reati commessi dai libici. Ambienti diplomatici libici continuano a sottolineare che «incidenti come quelli di domenica non devono ripetersi mai più». E intanto Tripoli ha comunicato a Roma che dall’Egitto è salpata una nave carica di clandestini. E che da Malta due imbarcazioni sono salpate per il trasbordo dei clandestini da sbarcare in Italia. Tripoli ha fornito le coordinate per intervenire. La lotta all’immigrazione clandestina continua, nonostante tutto.



Agrigento Sequestrata la nave. «Non doveva riprendere il mare»
I pm ora indagano per tentato omicidio
Corriere della sera, 15-09-2010
Alfio Sciacca
«Da valutare la posizione dei militari italiani»
AGRIGENTO — Tra le ipotesi di reato c'è anche il tentato omicidio plurimo. Un reato grave per il quale al momento si procede contro ignoti anche se presto ci potrebbero essere i primi indagati. E tra questi anche i sei tra ufficiali e sottufficiali della Guardia di Finanza che erano a bordo della motovedetta libica con compiti di osservatori. «Procediamo contro ignoti per la semplice ragione che non sappiano ancora nulla sull'identità delle persone che erano a bordo della motovedetta libica - spiega il procuratore di Agrigento Renato Di Natale - la stessa ricostruzione dei fatti al momento è prevalentemente di natura giornalistica». Il che lascia intendere che una volta identificate le persone a bordo della motovedetta potrebbero scattare le iscrizioni nel registro degli indagati. Prima di andare oltre
comunque i pm raccoglieranno la versione dei sei finanzieri. In procura ieri mattina c'era un po' di nervosismo.
L'inchiesta per la sparatoria al largo delle coste libiche è stata infatti avviata sull'onda delle notizie che rimbalzavano dai telegiornali. Perché da Lampedusa nessuno si sarebbe preoccupato di informare i magistrati e addirittura è stato consentito al peschereccio «Ariete» di riprendere il mare. Come se la vicenda potesse essere derubricata a piccolo incidente di routine. Non a caso come primo provvedimento i magistrati hanno disposto il sequestro dell'Ariete. «Ne abbiamo chiesto il rientro immediato a Porto Empedocle dove domani (oggi ndr) faremo un primo sopralluogo assieme ai carabinieri del Ris ai quali abbiamo delegato gli accertamenti balistici» dice il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo che coordina le indagini assieme al procuratore capo Di Natale e al sostituto Luca Sciarretta. Toccherà al Ris accertare se è fondata l'accusa formulata dell'equipaggio dell'Ariete che «la motovedetta libica ha sparato ad altezza d'uomo e dunque potevano ucciderci». Da qui l'ipotesi del tentato omicidio plurimo in aggiunta al reato di danneggiamento di natante previsto dal codice della navigazione. Ma cosa rischiano libici ed italiani? «Difficile dirlo - spiega Fonzo - come in tutti i casi di reati commessi all'estero nei confronti di cittadini italiani. Dal punto di vista giuridico la questione è molto complessa anche perché tutto sarebbe avvenuto in acque internazionali e inoltre l'interlocutore di turno è un Paese difficile come la Libia. Quanto ai finanzieri italiani dobbiamo valutare se hanno fatto il possibile per evitare il concorso nell'eventuale reato commesso da chi ha materialmente sparato». La procura di Agrigento si è sempre distinta per la particolare sensibilità in tema di immigrazione. Non a caso è stata la prima in Italia a sollevare la questione di costituzionalità per il reato di immigrazione  clandestina E ai magistrati non sarebbero piaciute le dichiarazioni di Maroni secondo il quale «forse i libici hanno sparato pensando che a bordo del peschereccio ci fossero clandestini». Forse sparare agli immigrati è meno grave? Sorride e va via alzando le spalle l'aggiunto Fonzo «noi dobbiamo limitarci a fare i magistrati».



Il ministro degli Esteri, Frattini: «La motonave pescava illegalmente». L'opposizione: il governo riferisca in Aula
Gli esperti: illegittime le richieste dei libici
Il Messaggero, 15-09-2010
ROMA - E' ancora l'armatore del peschereccio "Ariete" a parlare con la più grande chiarezza: «Sa perché i comandanti dei nostri pescherecci non si fermano all'alt dei libici? Una volta in Libia confiscano la barca e mettono in carcere l'equipaggio». Anche se il Trattato italo-libico del 30 agosto 2008 afferma invece il contrario, stabilendo tra i due Paesi «un nuovo partenarìato bilaterale» esteso anche alla pesca. Quindi, con tutte ma proprio tutte le garanzie, anche in flagranza dì reato. Qui invece i libici hanno sparato addosso ai pescatori italiani, ed è un 'enormità. E' un'enormità intanto perché nessuno ha informato i militari lìbici dell'esistenza di un accordo «speciale e privilegiato» di partnership con l'Italia; e poi perché nessuna regola d'ingaggio al mondo giustifica l'apertura del fuoco contro chi sta pescando, anche ammettendo che lo stia facendo illegalmente. Inoltre: chi stabilisce quando la pesca è legale o illegale? Stavolta lo hanno fatto i libici, unilateralmente.
Il Golfo della Sirte. La pretesa di Tripoli di considerare il Golfo della Sirte come propria "baia storica" è antica. Ma è infondata. Almeno secondo il diritto marittimo internazionale, che stabilisce che le acque territoriali dì un Paese finiscono a un massimo di 12 miglia dalle coste dello Stato. Quando è stato colpito dalla sventagliata di mitra, il peschereccio "Ariete"sì trovava a 18 miglia fuori delle acque territoriali libiche, secondo il diritto intemazionale.
La "baia storica". "Baia storica " significa che un certo Paese, nel nostro caso la Libia, chieda alla comunità internazionale una deroga per considerare proprie anche le acque al dì là delle 12 miglia, «provando dì avere esercitato continuativa sovranità su di esse e ottenendo acquiescenza da parte della comunità internazionale», come spiega Stefano Zunarelli, docente di Diritto della navigazione all'Università di Bologna. Ma la Libia non ha mai fatto la prima cosa né ha mai ottenuto la seconda. Ad essere illegìttime sono dunque le sue pretese. Sono gli italiani, al contrario, che dovrebbero rivendicare i propri «diritti storici», visto che i suoi cittadini pescano «da tempo immemorabile» nelle acque davanti alla Libia, come sostiene     Natalino Ronzìttì, professore di Diritto internazionale alla Luiss.
Gli accordi. La disciplina che regola la pesca e fìssa i limiti delle acque nazionali è più complessa delle norme antiimmigrazione  Tra Italia e Libia, dice Trattini, «è in corso un negoziato da tempo, da almeno un anno». Ma il vero problema è che né l'Italia né la Libia possono fare, in questa materia, accordi diretti. La competenza è infatti passata all'Unione europea. E ' Bruxelles che dovrebbe pronunciarsi, non Roma né Tripoli.



La lotta ai traffici clandestini non si può bloccare per l'incidente a Mazara del Vallo
I militari sul peschereccio mitragliato sono previsti dal trattato con i libici
ItaliaOggi, 15-09-2010
Piero Laporta
Il peschereccio "Ariete" di Mazara del Vallo è stato mitragliato da una motovedetta libica, a bordo della quale vi erano sei militari della Guardia di Finanza. Questo offre il destro a quanti erano già contrariati dall'accordo fra Italia e Libia sul controllo dei clandestini.
La Procura della Repubblica di Agrigento ha aperto un'inchiesta ipotizzando il reato di tentato omicidio plurimo aggravato a carico di ignoti. Non è dato sapere se stia indagando anche sulla condotta del peschereccio mazarese. Conviene comunque aspettare la conclusione delle tre inchieste in corso - della procura di Agrigento, della Guardia di Finanza e della marina libica - per tirare le conclusioni sulle responsabilità. Per ora si può affermare che la presenza dei militari italiani non era illecita, bensì prevista dal trattato, nel quale l'Italia, cedendo le motovedette, concedeva pure la collaborazione dei propri militari nella doppia veste di consigliere e di osservatore. Il consigliere necessita agli equipaggi libici per padroneggiare le sofisticate tecnologie italiane. Il ruolo di osservatore è opportuno per tenere d'occhio le procedure libiche; una necessità dimostrata proprio da questo increscioso episodio.
La responsabilità dell'uso delle armi è integralmente del comandante libico, che ne risponderà alle sue autorità. I consiglieri/ osservatori italiani non hanno alcun titolo di interferire sulla linea di comando libico. Se, come appare dalle cronache, essi hanno cercato di indurre il peschereccio mazarese a invertire la rotta, non per questo sono corresponsabili con chi ha sparato.
Il traffici clandestini nel Mediterraneo non si contrastano stracciandosi le vesti per un incidente, finito per fortuna senza danni alle persone. Quando i mercanti di carne umana, veri e propri schiavisti, ammucchiano le merci lungo i 2mila chilometri di confine sahariano con la Libia, da questa parte del Mediterraneo si accendono interessi nefandi, investiti su droga, contrabbando, prostituzione, organi umani, oltre che sullo stato di schiavitù dei malcapitati. Al malaffare palese è contigua un'area grigia nella quale allignano affari solo apparentemente meno sporchi. Sul versante libico erano le mazzette per la loro guardia costiera (che oggi potrebbe essere delusa e nervosa) e sulle nostre sponde vanno dallo sfruttamento sul lavoro alle ruberie sull'accoglienza.
Il giro del malaffare è ben superiore ai miliardi tanto criticati dell'accordo Italia-Libia. Sin quando i disperati furono in balia degli schiavisti, pochi obiettarono. Venuta a galla una grave smagliatura nella sorveglianza, chi vuole approfittarne per gettare nuovamente in mare le barche di disperati, ha un'opportunità. Non di meno ricordiamo che almeno dal 2004 i Reparti operativi aeronavali della Guardia di finanza segnalano la cosiddetta «immigrazione da infiltrazione», nell'ambito della quale il ruolo di taluni pescherecci non è secondario. Occhio dunque alle conclusioni affrettate.



Parigi Sì definitivo del Senato al divieto di indossare il velo nei luoghi pubblici
Bando totale al burqa, la Francia tira dritto
il Sole, 15-09-2010
Leonardo Martinelli
È il primo caso in Europa Un voto contrario e socialisti astenuti
PARIGI-«Vivere la repubblica a viso scoperto è una questione di dignità e di eguaglianza». Con queste parole una donna, Michèle Alliot-Marie, ministro della Giustizia, ha difeso ieri dinanzi al senato la nuova legge che proibisce il velo islamico integrale sul territorio francese. Il testo è stato approvato in serata, per una volta senza troppe polemiche. La Francia è il primo paese in Europa ad agire in questo senso con un provvedimento assai «drastico».
Il primo a chiedere un intervento del genere, l'anno scorso, era stato in realtà un parlamentare comunista, André Ge-rin, allora sindaco di Vénis-sieux, periferia popolare di Lione. Sempre più preoccupato nel vedere donne indossare il burqa o il niqab (altra versione del velo integrale, che lascia solo gli occhi scoperti) nei mercati del suo comune, aveva proposto il divieto assoluto. Vari esponenti dell'Ump, il partito di centrodestra, quello di Nicolas Sarkozy, lo avevano appoggiato. Lo stesso presidente lo aveva detto chiaramente: «Il burqa non è il benvenuto sul territorio della repubblica». In pochi mesi si era arrivati al progetto di legge. Che, ieri, è stato approvato definitivamente al senato con 246 voti a favore e uno solo contrario. Perfino 46 socialisti sui 116 presenti in quell'assemblea (il Ps è il primo partito di opposizione) hanno detto di sì. Gli altri hanno seguito le indicazioni fornite dai dirigenti della loro formazione, astenersi. Il partito socialista, in effetti, aveva presentato un emendamento, rigettato, con il quale chiedeva di limitare la proibizione ai soli uffici dell'amministrazione pubblica.
La nuova legge, invece, va molto al di là. Il divieto riguarda lo «spazio pubblico», che significa strade, mezzi di trasporto, parchi, bar, negozi. E pure scuole, ospedali, uffici pubblici. Il testo, in realtà, non cita mai il burqa ma «la dissimulazione del volto». Le forze dell'ordine procederanno a una multa di 150 euro a carico delle donne che continueranno a indossare il velo integrale. In alternativa o in aggiunta, secondo i casi, dovranno anche seguire corsi di educazione civica «dove imparare i valori fondamentali della repubblica francese». Quanto agli uomini che imporranno alla donna il burqa, rischieranno un anno di carcere e il pagamento di un'ammenda di 30mila euro. 
La legge, comunque, non entrerà in vigore immediatamente, ma solo nella primavera del 2011, dopo sei mesi di «preparazione pedagogica». E, anche successivamente, i poliziotti non potranno mai imporre per strada alle donne multate di mostrare il volto. Non solo: un ricorso in merito è già stato presentato al Consiglio costituzionale, che lo esaminerà da qui a un mese. Potrebbe bloccare il provvedimento e chiedere ai parlamentari di ritornare al lavoro per effettuare variazioni rispetto al testo attuale. Intanto si temono pure ricorsi contro la Francia presso la Corte europea dei diritti umani. Potrebbe essere chiamata a pronunciarsi su una possibile discriminazione di tipo religioso. Si temono, inoltre, ripercussioni sui rapporti fra i paesi arabi e la Francia. Negli ultimi mesi gli ambasciatori francesi presenti nell'area hanno cercato di spiegare (e forse giustificare) la volontà di Parigi.
Secondo le stime attuali, comunque contestate da più parti, sarebbero 1.900 le donne che indossano il burqa o il niqab in Francia. Molte fanno riferimento al movimento salafista, che ha già fatto sapere di non voler rispettare la nuova legge e di sfidare apertamente le autorità. Questo potrebbe provocare non pochi problemi alle forze dell'ordine, tanto più che il grosso di queste donne si concentra in quartieri già a rischio, nelle periferie di Parigi e delle grandi città.
Ci si chiede poi che fare con le principesse saudite e del golfo, che di frequente occupano con il loro seguito più stanze degli hotel di superlusso della capitale. Per poi procedere alla passeggiata di rito sugli Champs-Elysées, con tanto di velo integrale. Al di là del generale consenso che esiste nel mondo politico e nella società francese, in un paese dalla forte tradizione laica, riguardo alle nuove regole, la legge, appena approvata, lascia dietro di s'è strascichi di incertezze.



Lo scontro La vicepresidente della Commissione, Viviane Reding, accusa i ministri Besson e Lellouche di aver «bluffato» con Bruxelles
Espulsioni Rom, l'Ue vuole punire la Francia
Corriere della sera, 15-09-2010
Luigi Offeddu Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.
Annunciata l'apertura di procedure di infrazione. Parigi replica: «Siamo sbalorditi»
BRUXELLES — La Francia è uno dei Paesi fondatori dell'Unione Europea. La Francia è il Paese custode del motto «libertà, fraternità, uguaglianza». Ed è quello che ora l'Unione Europea mette ufficialmente sotto accusa, per le espulsioni collettive dei Rom: fino ad annunciare l'apertura di una o più procedure di infrazione, contro Parigi, per violazione delle norme comunitarie sui diritti umani. Perché «la discriminazione basata sulla razza o sull'origine etnica non ha alcun posto nella Ue».
Nelle circolari interne del governo francese, dice Bruxelles, la comunità intera dei Rom è stata indicata esplicitamente, nero su bianco, come bersaglio prioritario delle espulsioni: ed è «vergognoso» che due ministri francesi abbiano negato questo fatto, asserendo davanti alla Commissione Europea che nessuna particolare etnia veniva o viene presa di mira. I testi delle circolari, finiti poi su Internet, hanno svelato tutto. Parole del vicepresidente della Commissione Europea e commissario Ue alla giustizia e ai diritti umani, Viviane Reding: «Questa non è una trasgressione minore, ma una disgrazia. La mia pazienza si sta esaurendo, quel che è troppo è troppo». E se poi, lunedì, il ministro dell'Interno francese ha firmato una nuova circolare che non cita più i Rom, «stiamo esaminando le implicazioni legali di tutto ciò, è importante però che cambino non solo le parole ma anche i comportamenti delle autorità francesi».
Di fronte a questi moniti, Parigi si dice «sbalordita»; il portavoce del suo ministero degli Esteri aggiunge che «questo non è il momento della polemica». Profilo basso, dunque, e però niente marce indietro: anche ieri, 220 rimpatri di Rom. Ma tant'è: polemica o no (Parigi contesta alla Commissione Europea il suo ruolo di «guardiana dei trattati comunitari», che appartiene a una prassi di oltre mezzo secolo), non cambiano le decisioni della Ue, che sono anche di tipo giu-ridico.
Le procedure di infrazione preannunciate contro il governo francese non sono basate sul mancato rispetto di norme finanziarie o economiche, come di solito avviene per molti Stati, ma su qualcosa di assai più grave: la violazione dei principi comunitari sulla giustizia, la libertà, la libera circolazione delle persone, dei beni e dei capitali all'interno dei 27 Pa-esi. Infatti, le stesse procedure di infrazione — che si apriranno in tempi brevissimi, e potranno portare fino a un processo davanti alla Corte europea di giustizia — si imperniano su due accuse ben precise: l'applicazione su base discriminatoria, appunto, della direttiva Ue sulla libera circolazione delle persone; e la mancata trasposizione nelle norme francesi delle garanzie assicurate a tutti i cittadini Ue (quali sono i Rom) da quella stessa direttiva.
Quanto invece alla polemica sui ministri francesi accusati più o meno di aver «bluffato», Viviane Reding ha fatto ieri i loro nomi: Eric Besson e Pierre Lellouche. Loro, dunque, avrebbero negato tutto. Ben sapendo, però, quello che stava già scritto nella circolare numero «lok101788MJ» del ministero dell'Interno, datata da Parigi il 5 agosto 2010 e diretta a prefetti e capi della polizia e della gendarmeria: «Trecento accampamenti illeciti dovranno essere sgomberati nei prossimi 3 mesi, in primo luogo quelli dei Rom».



Ma la Ue critica Sarkozy
Addio burqa e fuori i rom Parigi torna ville lumière

Libero, 15-09-2010
Carlo Panella
Polemiche al calor bianco tra il governo francese e la Commissaria europea Viviane Reding sulle espulsioni dei rom, nello stesso giorno in cui il Senato di Parigi ha approvato - quasi all'unanimità - la legge che proibisce il velo integrale  (hijab) e il burqa. (...)
(...) La Reding, infatti, non solo ha avviato una procedura di infrazione contro il governo di Sarkozy, accusandolo di avere infranto le leggi dell'Ue avendo attuato espulsioni di un gruppo etnico, ma è andata ben oltre, accusando pubblicamente il ministro degli interni francese Eric Besson di avere mentito alla Commissione stessa.
Accusa di una gravità eccezionale, offensiva, basata per di più su un palese strafalcione della Reding stessa. Eric Besson infatti, nelle settimane scorse, ha più volte dichiarato e assicurato che il governo francese espelleva i rom individualmente, allontanando dal paese, caso per caso, con giudizio individuale disposto da un tribunale, coloro che non sono in grado di mantenersi o che turbano l'ordine pubblico, non i rom in quanto rom.
LA CIRCOLARE
La Reding però, è venuta a conoscenza di una circolare dello stesso Besson che invitava i prefetti a sgomberare i campi rom abusivi, ha incrociato arbitrariamente i due momenti (sgombero dei campi rom abusivi, perfettamente legittimo) ed espulsioni, ha fatto finta che si trattasse dello stesso atto e ha attaccato con ferocia Besson davanti ai giornalisti: «Mi ha lasciato inorridita l'impressione che ho avuto che delle persone  sono state cacciate da un paese dell'Ue solo per  l'appartenenza ad un gruppo , nello stesso etnico. Questa è una situazione che pensavo l'Europa non avrebbe mai più conosciuto dopo la seconda guerra mondiale» (chiaro, gravissimo e inammissibile riferimento alle persecuzione hitleriane dei rom).
Atteggiamento e frasi irresponsabili, comprensibile in una giornalista o polemista -quale è stata la Reding prima di darsi alla politica - ma inammissibile in un Commissario europeo. Ennesimo esempio di intervento arbitrario di un Comissario Ue nella politica interna di un paese membro con basse motivazioni di bottega. La Reding è infatti una lussemburghese ed è membro dei Cristiano Sociali (partito di centro destra), affratellati in Francia con l'opposizione interna a Nicolas Sarkozy e alleati invece con il suo grande rivale a destra, Nicolas de Villepin, che si prepara a contrastarne con ogni mezzo la rielezione.
NUOVE ESPULSIONI
È stato un attacco così dissennato che Eric Besson ha deciso di tenere un low profile, ha fatto dire dal suo portavoce Bernard Valero di essere «esterrefatto» dell'avvio della procedura di infrazione e soprattutto dalle motivazioni pretestuose date dalla Reding e ha dato alla Reding una sonora lezione: «Non è tempo di discutere di questa questione, è tempo invece di lavorare a favore della popolazione rom in raccordo con le autorità di Bucarest».
Contemporaneamente, Besson, per dare il segno di una posizione forte e chiara del governo sul punto, ha dato ordine di espellere dalla Francia altri 220 rom irregolari.
IL NO AL VELO
In serata, la Camera Alta di Parigi ha poi approvato in via definitiva la legge, che entrerà in vigore tra sei mesi, per offrire un periodo "di riflessione", che proibisce l'uso dell'hijab e del burqa in pubblico; voto che ha visto una minore opposizione nel merito da parte della gauche, anche se buona parte ha preferito non parteciparvi. Alcuni esponenti dei socialisti, invece, hanno addirittura votato a favore, soprattutto quelli eletti negli arondissement più popolari e a più densa presenza di immigrati| sia al nord che - soprattutto - nel sud della Francia.
SENZA VELI
Il Senato francese ha approvato in via definitiva il divieto di indossare il burqa nei luoghi pubblici nello stesso giorno in cui Bruxelles ha avviato una procedura di infrazione contro la Francia per il rimpatrio dei rom.



L'Europa condanna Parigi: «Una vergogna l'espulsione dei rom»

Il Messaggero, 15-09-2010
Cristina Marconi
BRUXELLES - Una «vergogna», una situazione «profondamente disturbante», a cui «non pensavo l'Europa dovesse assistere ancora dopo la Seconda Guerra mondiale». Erano anni che nella sala stampa della Commissione europea non risuonavano toni duri come quelli usati da Viviane Reding, responsabile per la Giustizia, per attaccare la Francia dopo la scoperta - avvenuta via internet - di una circolare del 5 agosto scorso con cui Parigi ha ordinato ai prefetti di procedere ad «uno smantellamento sistematico dei campi illegali, dando la priorità a quelli rom». Ben due membri del governi francese - il ministro per l'immigrazione Eric Besson e il segretario di Stato agli Affari europei Pierre Lellouche -si sono recati a Bruxelles il 31 agosto scoreo per rassicurare sul carattere non discriminatorio. sotto il profilo etnico, delle politiche attuate. Parole su cui la Commissione ha mantenuto finora un certo scetticismo, ma che si sono rivelate totalmente menzognere una volta emersa l'esistenza della circolare ai prefetti, durissima, in cui la parola "rom" ricorre ben nove volte e che è slata frettolosamente modificata solo lunedì scorso. «Trovo scioccante che una. parte del governo venga a spiegarmi una cosa a Bruxelles e che l'altra parte faccia il contrario a Parigi», ha osservato la commissaria, esponente del Partito Popolare Cristiano Sociale lussemburghese, dicendosi «personalmente convinta che la Commissione non avrà altra scelta che iniziare una procedura d'infrazione nei confronti della Francia».
Dopo circa tre settimane di toni relativamente pacati da parte della Commissione europea-ma non del Parlamento Ue, dove proprio la settimana scorsa è stata votata una risoluzione contro la politica di Parigi ed è stata
criticata apertamente la linea morbida dell'esecutivo Ue - Reding ha dichiarato che "la pazienza si sta esaurendo" e che nelle prossime due settimane verrà decisa l'apertura di alcune procedure d'infrazione contro la Francia per l'applicazione discriminatoria della direttiva sulla libera circolazione e per la mancata trasposizione delle garanzie procedurali e sostanziali in base alla stessa direttiva. Il testo del 2004 prevede infatti che un europeo possa essere espulso solo se rappresenta un problema per l'ordine pubblico, un peso "irragionevole" per l'assistenza sociale o se non dispone di risorse sufficienti in caso di un soggiorno superiore ai tre mesi. Inoltre la Carta europea dei diritti fondamentali vieta le espulsioni collettive e difende il diritto delle minoranze.
«Nessuno Stato membro può aspettarsi un trattamento speciale, in particolare quando sono in ballo i valori fondamentali e le leggi europee», ha spiegato Reding, avvertendo: «Questo vale oggi per la Francia. Ma vale anche per gli altri Stati membri, grandi o piccoli, che si ritrovassero in situazioni simili. Potete contarci».
La Francia, attraverso il portavoce del ministero degli Esteri Bernard Valero, ha espresso "stupore" per la presa di posizione della Reding, ma ha precisato di non voler aprire una "polemica". E nel giorno in cui la Francia ha organizzato due voli charter da Parigi e da Marsiglia diretti verso la Romania, con a bordo circa 220 persone, di cui almeno 12 bambini, il portavoce ha aggiunto: «Non crediamo che con queste dichiarazioni si possa migliorare e risolvere la sorte e la situazione dei rom che sono al centro delle nostre preoccupazioni e della nostra azione». Secondo il ministro dell'Interno, Brice Hortefeux, dal 28 luglio scorso sono stati smantellati 441 "campi illeciti", grazie anche ad una procedura di "ritorno volontario" che prevede un incentivo di 300 euro per ogni adulto e di 100 euro per i bambini. «Adesso basta!», ha dichiarato la Reding, sottolineando che «è importante che non siano solo le parole a cambiare, ma anche il comportamento delle autorità francesi». A cui la commissaria ha chiesto «immediate e pronte spiegazioni» sulla vicenda.



L'Europa mette sotto accusa Parigi per i Rom

il Riformista, 15-09-2010
Lorenzo Robustelli
Bruxelles. «Abbiamo obiettivi precisi: 300 accampamenti o stabilimenti illegali dovranno essere evacuati entro tre mesi, e prioritariamente quelli dei Rom». Dopo aver letto questa frase che suona come un Ordine del giorno militare, scritta in una circolare inviata ai Prefetti di Francia il 5 agosto scorso su indicazione del presidente Nicolas Sarkozy, anche la Commissione europea ha dovuto prendere le armi con le quali temporeggiava di fronte alle accuse di discriminazione contro Parigi e mostrare il massimo sdegno: «Il troppo è troppo. Credevo che l'Europa non avrebbe dovuto assistere ad una situazione del genere di nuovo dopo la Seconda Guerra Mondiale», ha detto ieri la vicepresidente Viviane Reding, usando una frase pesantissima, che richiama esplicitamente le deportazioni dei Rom verso i campi di sterminio attuate dal nazismo.
Non c'è scelta», ha sottolineato la commissaria, annunciando una doppia procedura urgente di infrazione nei confronti del governo francese per i rimpatri forzati che violano in più forme la direttiva sul libero movimento.
Fino a ieri Bruxelles si era barcamenata, aveva cercato in tutti i modi di non dire o fare qualcosa che avesse potuto mettere in difficoltà Parigi su questa questione, che tocca direttamente i diritti umani, tema delicato per un Paese che della "libertà, fraternità e uguaglianza" ha fatto il suo motto. La scorsa settimana la difesa aveva cominciato a scricchiolare, quando il Parlamento europeo a larga maggioranza aveva condannato le azioni di Parigi ed anche l'inconsistente risposta, il tergiversare, della Commissione. Ma era un atto "politico" e per la Commissione la "politica" è spesso solo la misurazione dei rapporti di forza, e il Parlamento non ne ha, in questo campo.
Poi però la politica ha ceduto ai fatti tangibili, visibili a tutti. L'altro ieri su internet, proveniente dalla Francia, è apparsa la circolare del 5 agosto scorso, che, come ha dichiarato Reding, il governo francese in questi mesi nei quali Bruxelles «indagava» su quanto andava avvenendo, ha sempre tenuto nascosta. Anzi, ha stigmatizzato la commissaria, Parigi ha fatto anche peggio: «Ben due ministri, Eric Besson e Pierre Lellouche in un incontro formale con la commissaria Cecilia Malmstrom, quindici funzionari e me avevano dato alla Commissione la garanzia politica che non era in corso una persecuzione contro uno specifico gruppo etnico». Secondo la commissaria «questo non è un reato di poco conto in una situazione di questa importanza, è una vergogna!».
Reding è scesa ieri personalmente in sala stampa a Bruxelles per mostrare anche fisicamente il suo sdegno verso Parigi, per la violazione delle leggi europee e per l'offesa fatta direttamente alla Commissione. Non poteva far altro, e sapeva anche di aprire un contenzioso con uno degli Stati più grandi dell'Unione che non si fermerà probabilmente alle due procedure di infrazione annunciate, anche se forse Parigi più di tanto non potrà ufficialmente obiettare, vista l'enormità del fatto compiuto, ma certo nel silenzio dei corridoi qualche tentativo di vendetta ci sarà.
Alle dure parole della vicepresidente della Commissione la risposta francese è stata debole. Per prima cosa si è fatto sapere che la circolare sotto accusa è stata riscritta, il ministro degli Interni Brice Hortefeux in tutta fretta ne ha emanata una nuova con una diversa introduzione «per eliminare tutti i malintesi e una eventuale stigmatizzazione dei Rom». Poi è intervenuto il ministro per l'immigrazione Besson (quello che aveva mentito alla Reding) spiegando che «la Francia non ha operato alcun rimpatrio volontario o forzato su base etnica. Mi rallegro che il mio collega Hortefeux abbia ritirato e sostituito la circolare del 5 agosto mettendo fine ad ogni ambiguità».



Passa al Senato la legge sul divieto del burqa Prima volta in Europa

Il Messaggero, 15-09-2010
Francesca Pierantozzi
PARIGI - Il burqa è fuorilegge in Francia. Vietato dovunque entro i confini della République: niente velo ma solo volti scoperti per le strade, le piazze, sui marciapiedi, nei parchi, dentro i negozi, nelle banche, sugli autobus, le metropolitane, negli ospedali. Con il voto di ieri del Senato, la Francia diventa il primo Paese europeo ad «osare» un divieto generalizzato del velo integrale islamico. La legge dovrà ora passare al vaglio del Consiglio costituzionale, prima di entrare in vigore tra sei mesi, dopo un periodo di «mediazione» e «informazione». La tensione è comunque tangibile: in serata la Torre Eiffel è stata evacuata in seguito ad un allarme bomba,
Come previsto, i senatori francesi hanno approvato il testo senza nessuna correzione con una larga maggioranza: 246 voti contro uno. Si sono astenuti quasi tutti i socialisti, i comunisti e i verdi, d'accordo sul principio ma contrari a un divieto generalizzato che rischia di «stigmatizzare la comunità musulmana di Francia», la più importante d'Europa. «Vivere la République a viso scoperto è una questione di dignità e uguaglianza» ha dichiarato la ministra della Giustizia Michèle Alliot-Marie, che dopo il voto ha lamentato «l'assenza di unanimità dovuta a ragioni estranee al testo». Cominciato la scorsa primavera in un clima surriscaldato dalla polemica sull'identità nazionale, il dibattito sul burqa si conclude con meno clamore, anche se il verdetto della Corte costituzionale potrebbe riservare ancora sorprese e se l'applicazione della legge provocherà non pochi interrogativi. Era stato il presidente Nicolas Sarkozy a incitare i legislatori: «Il burqa - aveva detto - non è benvenuto nella République».
Molti si chiedono ora come sarà possibile ai gendarmi far scoprire il capo alle donne velate nei quartieri più difficili delle banlieue o sugli Champs Elysées, dove amano fare shopping le principesse saudite. Senza contare che la Francia potrebbe esporsi a una condanna della Corte europea dei diritti umani per discriminazione, dopo un parere sfavorevole già emesso dal Consiglio di Stato, che aveva prudentemente consigliato di limitare il divieto ai «luoghi pubblici». Il testo evita accuratamente di citare il burqa, vieta invece «la dissimulazione del volto nello spazio pubblico», anche se sono espressamente esclusi caschi per le moto e maschere di carnevale. Restano dunque nel mirino il burqa, velo integrale, e il niqab, che lascia scoperti soltanto gli occhi. Il gendarmeo il poliziotto che coglierà in flagranza di «dissimulazione del volto» una donna per la strada o altro luogo pubblico, non potrà «costringere» la signora a scoprirsi, ma potrà infliggere una multa da 150 euro. Prima di arrivare alla sanzione pecuniaria, la pena prevede uno «stage di educazione civica» in cui verranno ribaditi i principi dello stato laico e i diritti delle donne. Pene ben più severe minacciano invece mariti, padri e fratelli. Qualsiasi persona che costringe una donna a coprire il volto rischia infatti 30mila euro di multa e fino a un anno di carcere. Se i comunisti, pure all'origine del progetto di divieto «parziale» del burqa, hanno denunciato il rischio di un «apartheid sociale», i diplomatici non nascondono preoccupazioni per«l'incomprensione» che la legge anti-velo potrebbe provocare nel mondo musulmano. «I nostri ambasciatori hanno già svolto un'opera di spiegazione dello spirito e dei principi che hanno portato all'adozione di questa legge - ha detto il portavoce del Quai d'Orsay - In generale, le opinioni pubbliche e le autorità hanno compreso il nostro messaggio e capito la volontà del legislatore».



Rom cacciati L'Europa vuole punire Parigi «Siete razzisti»

il Giornale, 15-09-2010
Bruxelles Duecentoventuno anni dopo aver rivoluzionato il mondo con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, la Francia è sotto accusa per una violazione dei diritti umani. E fa «vergognare» Bruxelles. Le espulsioni dei Rom volute dal presidente Nicolas Sarkozy e commissionate ai prefetti con tanto di circolare ministeriale, ma anche le versioni di comodo raccontate da due suoi ministri alla Commissione europea, hanno fatto scattare la richiesta di una procedura d'infrazione da parte della Commissione europea per «applicazione discriminatoria della direttiva sulla libertà di movimento». Provvedimento politicamente pesante, quanto le parole usate da Viviane Reding - vice di Barroso nonché titolare del dicastero dellaUe per Giustizia, Diritti Fondamentali e Cittadinanza - nell' annunciarlo: «pensavo che che l'Europa non dovesse rivivere una situazione come questa dopo la Seconda guerra mondiale». La Francia ha manifestato «stupore».



L'INCHIESTA
I divieti nei quartieri multietnici dove è straniero un abitante su tre
la Repubblica, 15-09-2010
Zita Dazzi
Via Padova, Dergano, Ponte Lambro e Bovisa. Il record a Triulzio: 62. L'Ismu: "Fenomeno da governare"
In diversi quartieri un abitante su quattro è immigrato. Ma ci sono alcuni luoghi della periferia estrema dove gli stranieri sono uno su due, e anche un po' di più. Così è a Chiaravalle, in via Novara, a Rogoredo. La mappa della città multietnica cambia in continuazione, ed è proprio qui che arrivano le ordinanze sulla sicurezza.
Luoghi come la Comasina - che fino a dieci anni o vent'anni fa era un quartiere popolare abitato quasi esclusivamente da vecchi milanesi o da meridionali venuti al Nord per lavorare - oggi stanno cambiando faccia. Ma la Comasina - dove l'incremento di residenti stranieri è del 445 per cento rispetto al 2001 - col suo 25,9 per cento di immigrati non è nemmeno una delle enclave più fortemente connotate in senso multietnico. Lo dicono i dati dell'anagrafe che servono al vicesindaco Riccardo De Corato per tenere la contabilità precisa di come evolve la demografia milanese.
Il record di presenze spetta a Triulzo Superiore, tra Rogoredo, Paullo e San Donato, uno dei "Nuclei di identità locali" tracciati dal Pgt dove gli immigrati sono il 62,5 per cento dei 1.212 abitanti. Numeri che fanno saltare sulla sedia il vicesindaco, che ricorda come a Milano la media di presenze straniere si attesti sul 16 per cento (208mila su 1,3 milioni di abitanti), un dato già molto superiore alla media nazionale del 6,5 per cento.
Il Comune segnala che ci sono quartieri dove il tetto medio è abbondantemente sfondato: oltre alla Comasina, anche Dergano che comprende via Imbonati dove entrerà in vigore l'ordinanza sulla sicurezza l'1 ottobre (29 per cento), Farini (30 per cento), Bovisa (29), piazzale Selinunte (28), Ponte Lambro (32), Loreto (29).
Il vicesindaco De Corato sottolinea che in molti di questi sotto-quartieri è in atto "un'esplosione dei flussi, con un trend impressionante, aggravato dalla presenza di 50mila clandestini, motivo per cui le ordinanze vanno estese e i controlli della polizia devono continuare".
Quel che è palese è che nella cinta esterna della città si stanno consolidando quartieri che hanno una forte attrattiva per le comunità straniere. "Gli immigrati sono raddoppiati in dieci anni e alcuni quartieri si sono connotati come più multietnici di altri per la presenza consolidata di reti comunitarie o familiari o per la maggiore accessibilità delle case, mentre le famiglie milanesi magari si sono trasferite nell'hinterland", spiega Gian Carlo Blangiardo, demografo dell'Ismu, la fondazione per lo studio della multietnicità, che per conto della Regione cura un rapporto annuale sull'immigrazione in Lombardia.
È così che il triangolo compreso fra Loreto, via Padova e viale Monza ormai da vent'anni si è consolidato come il quartiere degli immigrati, così come la zona che tra piazzale Maciachini, Dergano, Affori e la Bovisa. E ancora, segnala il Comune che in zona Corvetto-Lodi gli stranieri sono cresciuti del 93% in dieci anni.
"Il fenomeno di inclusione nell'area metropolitana di nuove fasce di popolazione non è novità di Milano, né dell'Italia. Tutte le grandi metropoli del mondo sono cresciute attorno all'immigrazione - aggiunge Blangiardo - . Non credo sia un processo pericoloso in senso assoluto, dal punto di vista degli equilibri, a condizione che questa crescita non sia dirompente, eccessiva. Milano è una grande città, ma non è New York. Bisogna che le istituzioni siano presenti sul territorio per evitare che questi sbalzi demografici possano portare problematiche, tensioni, incomprensioni con i vecchi abitanti".



Immigrazione selettiva

Europa, 15-09-2010
Massimo Livi Bacci
Strano paese, l’Italia. L’immigrazione è il fenomeno sociale più travolgente di questo secolo, ma il dibattito non decolla. Il cittadino si domanda: chi sono gli immigrati? Con quali criteri vengono ammessi? Chi è il nuovo vicino di casa, il nuovo compagno di lavoro, il nuovo abitante del quartiere? Quali le garanzie che l’immigrazione non determini il degrado della comunità, dei diritti sociali, dei servizi pubblici?
La risposta delle parti politiche e sociali più sensibili al tema appare insufficiente. Si argomenta: «Senza immigrazione l’economia soffre e con essa, alla lunga, anche la comunità, i servizi pubblici, il sistema di welfare».
Giusta risposta, ma zoppa e asimmetrica. Se c’è un degrado, questo viene immediatamente percepito e personalmente sofferto; l’economia – invece – è un’entità misteriosa e lontana, e del suo buono o cattivo andamento nessuno è certo di conoscere le ragioni.
Porre la questione “quali” immigrati significa porre esplicitamente quella della “selezione”: un principio cui molta sinistra è allergica, avendo dell’immigrazione una visione di segno umanitario.
Eppure quasi tutte le politiche migratorie attuate nel mondo hanno dosi più o meno massicce di selezione.
Sono selettive le “riserve geografiche”, per le quali alcune provenienze vengono privilegiate rispetto ad altre; lo sono le “quote” riservate a categorie particolari di immigrati – imprenditori, investitori, scienziati, religiosi, operatori sociali, “nazionali” cittadini di altro stato, magari emigrati generazioni addietro. Si ritiene che i portatori di capacità imprenditoriali, di capitali, di conoscenze scientifiche, di valori, di abilità di cura, di tradizioni condivise debbano essere preferiti ad altri possibili candidati. Esplicita o camuffata, questa è selezione, giustificata dall’interesse comune del paese ospitante. Insomma, una politica “utilitaria”: quella, cioè, che viene ritenuta più utile per il bene della collettività.
Che un paese abbia una politica migratoria “utilitaria” non è uno scandalo, anzi è la cosa giusta da fare. Ma così facendo, si devono forse abbandonare i principi umanitari di accoglienza, così radicati nello spirito riformista? Sicuramente no: a questo serve una aperta e generosa politica dell’asilo. Nel nostro paese manca una legge generale, tuttavia le procedure di esame delle domande vengono espletate con buona sollecitudine, ed i programmi di sostegno ed inserimento di chi viene accolto sono ben strutturati, anche se non adeguatamente finanziati. Va poi ricordato che, nel contesto europeo, l’Italia – che genera il 13 per cento del Pil e contiene il 12 per cento della popolazione della Ue – accoglie appena il 3 per cento dei rifugiati; in numero assoluto questi sono, in Italia, un quindicesimo di quelli accolti in Germania, un quinto e un quarto rispettivamente di quelli accolti in Gran Bretagna e in Francia. Quando Maroni invoca una politica “solidale” dell’Europa di fronte agli oneri dell’asilo e della protezione umanitaria è nel giusto: dovrebbe però aggiungere che questa implica un rafforzamento dell’impegno, anche finanziario, dell’Italia.
Nel breve termine, occorre sicuramente una riforma della politica delle ammissioni al nostro paese. Nel lungo periodo occorre rispondere ad una domanda non eludibile: questa, più che il numero, riguarda la qualità degli immigrati, la loro capacità di far parte della società e di contribuire alla sua crescita. Diventa centrale la questione di una “selezione” esplicita, trasparente e non discriminatoria, dei candidati all’immigrazione, basata su parametri condivisi.
Alcuni paesi di antica tradizione migratoria – Canada, Australia, Nuova Zelanda – e recentemente alcuni paesi europei – Gran Bretagna, Danimarca – hanno adottato regole di ammissione “a punti”. Altri paesi hanno in programma di adottarle. Il principio è semplice, e consiste nell’attribuire al candidato un punteggio per ogni caratteristica individuale di una determinata lista, e di farne la somma: chi supera una determinata soglia è ammissibile (in funzione delle “quote” o dei “tetti” numerici adottati). Normalmente si prendono in considerazione età, stato civile, grado di istruzione, conoscenza della lingua, della cultura o dell’ordinamento, capacità di guadagno o di produrre reddito, specializzazione lavorativa, talenti particolari. Ma si può immaginare di attrezzarsi per considerare altri elementi, come la composizione della famiglia e le relative caratteristiche, l’esistenza di legami con il paese, eventuali programmi (comprovabili) di inserimento. Naturalmente l’attribuzione del punteggio non deve essere distorta da elementi discriminatori: genere, razza, religione, opinioni, provenienza geografica.
Un sistema di questo tipo ha il vantaggio della trasparenza e dell’obiettività: la selezione è basata su criteri noti e (per quanto possibile) controllabili e non manipolabili, al contrario delle politiche “implicitamente” selettive attuali, opache e a volte arbitrarie.
Ho chiamato questa politica “utilitaria”, perché è funzionale alla crescita della società. Ma un grande paese deve aprirsi generosamente all’entrata di persone sulla base di considerazioni umanitarie, per definizione non selettive. Dall’equilibrio di queste componenti può scaturire una nuova politica migratoria. L’offerta politica all’opinione pubblica deve essere più chiara: lo stato ammette, selezionando, chi merita e contribuisce alla crescita della società. Lo stato accoglie, generosamente, chi ha bisogno di aiuto umanitario secondo i principi del diritto internazionale e in accordo con i principi della carta costituzionale. Insomma: vengono ammessi coloro che “sono utili alla società” ma anche i perseguitati, le vittime, le persone la cui vita ed incolumità è in pericolo.



L'Invasione Annunciata

laPadania, 15-09-2010
Alessandro Montanari
Erige moschee e rimuove i crocifissi: questa Europa sta davvero trasformandosi in Eurabia Per colpa degli ingenui e dei collaborazionisti
MILÀN - Prima di andarsene, il 15 settembre del 2006, Oriana Fallaci rivolse a ciascuno di noi un appello drammatico, dai toni quasi confidenziali ma non per questo meno severi e ultimativi. «Ascoltami bene, te ne prego - ci avvisò ne La forza della ragione - Ascoltami bene perché io non scrivo per divertimento o per soldi. Scrivo per dovere. Un dovere che ormai mi costa la vita. E mi piacerebbe morire pensando che tanto sacrificio è servito a qualcosa».
Come tutte le Cassandre, infatti, la Fallaci sapeva benissimo che le sue grida d'allarme non sarebbero state credute e che qualcuno, anzi, le avrebbe dato della pazza, della paranoica e persino della guerrafondaia. Ma sapeva al contempo che il nemico era già penetrato nel ventre dell'amata Troia e che la catastrofica profezia di Eurabia, l'Europa islamizzata da un processo di colonizzazione demografica e culturale concepito a tavolino come un vero e proprio piano di conquista, si sarebbe presto ed irrimediabilmente compiuta.
Aveva ragione lei, l'Oriana afflitta e morente ma ancora disposta a proiettarsi in un fu¬turo che in ogni caso non avrebbe potuto essere suo per ammonire i fiacchi contemporanei e salvarli da una volontà di soggiogamento già visibile allora ed ancor più oggi. Non lo diciamo tanto per la notizia del sanguinoso assalto alla scuola cristiana avvenuto l'altroieri in India e che è pratica purtroppo frequente anche in Pakistan, quanto per le strane cose che da tempo stanno accadendo anche in Europa. Anche qui, infatti, il terrorismo kamikaze è diventato un pensiero ordinario, nel senso di ordinariamente contemplato sia dalle forze dell'ordine che dai cittadini, essendone già state vittime - anche se con ' entità del danno assai diverse -metropoli come Londra, Madrid, Milano e Copenaghen. Anche qui inoltre può accadere di essere raggiunti da una fatwa (Salman Rushdie, Ayan Hirsi. l'autore delle vignette danesi) o persino di essere uccisi per avere espresso opinioni critiche sulla religione islamica (Theo Van Gogh). Anche qui il velo islamico integrale sta diventando un'usanza diffusa, tanto che proprio oggi, tra mille polemiche, la Francia di Sarkozy si appresta a varare una legge che ne vieterà l'uso nei luoghi pubblici. E anche qui sta diventando meno problematico costruire una moschea che mantenere appeso al muro un crocifisso.
Credere che tutto questo acada per caso è ingenuo. Ma se tutto questo non avviene per caso, come ci spiegava la Fallaci, allora l'idea di poter essere strumenti attivi, consapevoli o inconsapevoli, del piano di conquista e colonizzazione diventa addirittura imperdonabile. «Il trauma più violento - si legge ne La forza della Ragione - lo ebbi a seguire la faccenda del voto e a leggere le Bozze d'Intesa. Ossia il progetto dell'accordo che le comunità islamiche reclamano per imporci le loro norme: matrimonio islamico, abbigliamento islamico, cibo islamico, sepoltura islamica, festività islamiche, scuole islamiche. Nonché l'ora del Corano nelle scuole statali. Lo reclamano, quell' accordo, appellandosi all' articolo 19 della nostra Costituzione. L' articolo che afferma "Tutti hanno il diritto di professare il proprio
credo religioso". Lo reclamano fingendo di rifarsi agli accordi che negli ultimi quindici anni l'Italia ha sottoscritto con le comunità ebraiche, buddiste, valdesi, evangeliche, protestanti. Tingendo" perché dietro le altre comunità non v'è una religione che identifica sé stessa con la Legge, con lo Stato». Ai collaborazionisti dell'invasione, Oriana parlava chiaro. Anzi, chiarissimo. «Occhi negli occhi e bando agli imbrogli, signori: l'articolo 48 della Costituzione Italiana stabilisce in modo inequivocabile che il diritto di voto spetta ai cittadini e basta. "Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età" dice. Prima che 1' Europa diventasse una provincia dell'Islam non s'era mai visto, del resto, un paese dove gli stranieri andassero alle urne per scegliere i rappresentanti di chi li ospitava. Io non voto in America. Neanche per eleggere il sindaco di New York, sebbene risieda a New York. E lo
ritengo giusto. Perché mai dovrei votare in un paese del quale non sono cittadina?!? (...) Ma in uno dei suoi articoli il Trattato di Maastricht "contempla" il presunto diritto degli immigrati a votare ed essere votati nelle elezioni comunali nonché europee. E la Risoluzione approvata il 15 gennaio 2003 dal Parlamento Europeo «caldeggia» l' idea, raccomanda agli Stati membri d'estendere il diritto di voto agli extracomunitari che soggiornano da almeno cinque anni in uno dei loro paesi».
Lo schema dell'Europa che strappa il crocifisso dai muri delle nostre scuole, insomma, ricalca perfettamente la riforma della cittadinanza sostenuta in Italia dall'allegra brigata relativista formata da Fini, Pd e cattocomunisti. Per loro, oggi, Oriana non avrebbe alcun tipo di indulgenza e non abbiamo abbastanza immaginazione per indovinare cosa avrebbe combinato per impedire le scorribande romane del colonnello Gheddafi, uno peraltro che il progetto dell'Eurabia ce l'ha candidamente sbattuto in faccia. «Sono quattr'anni - lamentava esasperata, ma ancora combattiva, la scrittrice morente nel 2005 -che come una Cassandra mi sgolo a gridare Troia brucia, Troia brucia" e mi dispero sui Danai che come nell'Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr'anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna». Perché Eurabia, se qualcuno non l'ha ancora capito, dipende soprattutto da noi. E noi possiamo reagire, cominciando ad esempio col ricordarci che la Turchia non è Europa. Ma per reagire occorrono coraggio e dignità.



"Emergenze", creativi e intellettuali per un futuro di emancipazione

l'Unità, 15-09-2010
Pino Di Maula
C’è molta attesa per l’iniziativa che un gruppo di creativi e intellettuali ha intitolato “Emergenza di identità, migranti, donne e artisti”. Si tratta di un vero e proprio esperimento culturale che si terrà, a Roma, grazie all’interesse dell’XI Municipio nell’Istituto Superiore Antincendi in via del Commercio. Non poteva esserci luogo più congeniale al calore che potrebbero produrre molte delle proposizioni teoriche previste per fondere le scienze economiche e politiche con la ricerca sulla realtà umana. È l’unica via, ragionevolmente irrazionale, per cogliere la sfida sull’emancipazione di migranti e donne. La partecipazione diventa così anch’essa un’arte per dare al futuro un volto finalmente umano. La chiamano “Emergenze” evocando il tema della sicurezza, sapendo che, in verità, ciò che emerge vale più di una rivoluzione, se sa tirar via la cultura dominante dalle sabbie mobili del ’68 e dai limiti teorici del marxismo per elaborare un pensiero nuovo su immagine e identità, massa e classe, libertà e identità, uomo e donna.
E chissà cos’altro. In fondo si tratta, appunto, di un esperimento. Che vale la pena ripetere, almeno una volta l’anno. La prima edizione inizia venerdì 17 e termina sabato 25 settembre. L’approccio adottato punta all’interrelazione fra una pluralità di linguaggi e di discipline sia scientifiche che artistiche. In pratica  “Emergenze di identità” si articola in una giornata di ricerca, un incontro fra registi, una mostra d’arte e una rassegna di spettacoli. Tra i tanti ospiti attesi: Federico Masini, Giuseppe Vitaletti, Ernesto Longobardi, Luigi Manconi, Guido Melis, Francesco Dall’Olio, Ernesto Maria Ruffini, Annelore Homberg, Shukri Said e Jean Leonard Touadì. 
Italia-razzismo



Se questo è un ghetto... «È la scuola più bella»

lUnità, 15-09-2010
Luciana Cimino
Ahmed, bengalese, arriva trafelata, spingendo il passeggino. Allarmata, chiede alle altre mamme in attesa davanti alla scuola: «mio figlio grande mi ha detto che vogliono chiudere l’istituto, l’ha appena sentito al telegiornale! Dicono che siamo troppi immigrati». Potenza delle chiacchiere che scivolano di bocca in bocca o della difficoltà di comprendere appieno l’italiano, fatto sta che la notizia, qui, tra i genitori immigrati della scuola elementare Carlo Pisacane, a Roma, crea momenti di panico. «Come chiudere la scuola?». Ci pensano le maestre a spiegare che no, che è tutta una fandonia, che si è capito male. La scuola (accorpata da quest’anno alla scuola Media Pavoni e trasformata così in Istituto comprensivo Laparelli), nel popolarissimo quartiere Tor Pignattara, certo non chiude ma è al centro della cronaca di questi giorni perché le iscrizioni di bambini stranieri sfiorano il 90%. Ci sono classi composte esclusivamente da bambini stranieri. Il tetto del 30% di presenze straniere per classe fissato dal ministro Gelmini qui ha ottenuto una deroga, altrimenti l’istituto, sito in una zona multietnica come la periferia est della Capitale, avrebbe chiuso i battenti.
La stampa di proprietà dei familiari del Presidente del Consiglio da tempo ha lanciato una campagna contro questa scuola definendola “ghetto” e accusandola, in sostanza, di non fornire un adeguata preparazione ai bambini italiani a causa della zavorra cognitiva di cui sarebbero portatori i piccoli figli di migranti. «Nulla di più falso – dice Paola, mamma di una bambina che frequenta la terza elementare in una classe dove ci sono 4 italiani e il resto di origine straniera – io ho deciso di iscrivere mia figlia in questa scuola perché è ottima, le insegnanti sono eccellenti, i programmi sono all’avanguardia e fanno attività extradidattiche interessanti». Gli stranieri sono un peso nell’apprendimento? «Ma neanche per sogno, nella classe di mia figlia la più brava in italiano è Fatima, una bambina bengalese». «Per l’apprendimento è un vantaggio confrontarsi con gente di paesi diversi, il mondo oggi è globale», ricorda una nonna, Renata, 70 anni, che è venuta a prendere sua nipote Sofia, e aggiunge: «i compagni di classe di mia nipote sono tutti nati in Italia e parlano in italiano quanto lei, per quanto vogliamo ancora chiamarli stranieri?».
Ahmed annuisce e sospira, i suoi figli di 13 e 7 anni non parlano la lingua del suo paese. «Forse è meglio così – dice mentre aspetta che terminino le lezioni del primo giorno di scuola – forse saranno più integrati di noi, però un po’ mi dispiace». Seduta su una panchina circondata da madri filippine, ucraine, bengalesi, tiene banco Asma, 28 anni, badante siriana. Ha letto sui giornali che alcuni genitori italiani hanno trasferito i figli da questa scuola a causa dell’alta incidenza di stranieri, e lei che ha due figli che la frequentano, vuol dire la sua: «è un problema degli adulti non dei bambini, loro non distinguono tra stranieri e italiani, parlano la stessa lingua, giocano e studiano assieme». L’apprendimento? «guardate le pagelle a fine anno, interrogateli, non è vero che non vanno avanti con il programma, sono bravissimi».
Anche per Liliana, moldava, un ragazzino in quinta elementare, il problema sono «gli adulti italiani che non si vogliono integrare, per i bambini non c’è nessun problema, e nemmeno per noi, basta che studino e che stiano bene. Mio figlio fa calcio, ha tanti amici italiani che gli vogliono bene. Forse molti italiani non si rendono conto che chi lascia il proprio Paese lo fa con sofferenza». «Credo che debba essere garantita la libertà di scelta a tutti i genitori e ai bambini, italiani e stranieri – dice Vania, maestra della Pisacane, con un’esperienza di insegnamento ventennale alle spalle - Spero che l’anno prossimo si possano formare le classi senza limiti né tetti del 20 o del 30%. Ad insegnare l’italiano ci pensiamo noi e garantiamo la qualità dell’insegnamento. Secondo me questa è la scuola più bella del mondo».












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