Le vie dell'integrazione sono infinite

Il dono del sangue e la cittadinanza
Le vie dell’integrazione – anche in una società come quella italiana, notevolmente chiusa e come rattrappita – possono essere davvero infinite. Una notizia recente indica un percorso, tra i più appartati, eppure, per certi versi, tra i più significativi.

 

Il presidente dell’AVIS di Forlì Fabrizio Francia, al fine di raggiungere l’autosufficienza di sangue in quella città, invita gli immigrati a partecipare alla donazione. Non si tratta di una novità. Già avviene in moltissime zone d’Italia: e ciò, al di là del segnale di generosità che comunica, trasmette un’importante indicazione sul piano sociale. Tanto più interessante perché, diversamente dalla retorica dominante, tutta concentrata sulla dimensione dei “doveri” (sacrosanta, sia chiaro), qui siamo in presenza di un atto di totale gratuità. Siamo, cioè, nell’ambito del dono. Ma, proprio attraverso l’oblazione, passa la più sottile e forse robusta prassi di integrazione. Lo straniero che dona il sangue, anonimamente e a un destinatario che sarà anonimo, sta già, nella sfera della cittadinanza. Ci sta, e per sua scelta, sotto il profilo dello scambio simbolico (sangue versus riconoscenza, seppure indistinta e impersonale) e su quello della propria soggettività. Si tratta di processi sotterranei, quasi sempre invisibili e silenziosi, e tuttavia tenaci e fertili. Quell’immigrato sta già, a prescindere dalla formalità giuridica e dalla burocrazia amministrativa, all’interno di un patto sociale con i residenti. Un patto sociale tanto più forte perché di natura interamente volontaria, non dichiarata, non trascritta. Una ragione in più per apprezzarlo e valorizzarlo. È anche per queste vie, così discrete e decentrate, che passa l’integrazione possibile.

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