Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

20 aprile 2014

Sono annegati sognando l`Europa
Si gettano verso la nave dei soccorsi, sbilanciando il barcone che si rovescia. «Oltre 700 morti» Renzi: basta mercanti di schiavi. Il Papa e Mattarella, appello alla Ue. Berlusconi: ora uniti. Il caso Salvini
Corriere della sera, 20-04-2015
Gian Antonio Stella
Salvi!», hanno pensato tutti vedendo apparire, nel buio, l`immensa sagoma nera del mercantile portoghese «King Jacob» che si avvicinava. «Salvi!». E tutti si sarebbero spostati sulla stessa fiancata del vecchio peschereccio per essere i primi a tendere le braccia e farsi afferrare dai soccorritori. Fino a fare rovesciare l`imbarcazione. Anche per questo l`apocalisse della carretta del mare colata a picco davanti alle coste libiche toglie il fiato. Perché per quelle centinaia di poveretti che sognavano l`Europa la fine dell`incubo pareva lì, a portata di mano. E la morte è arrivata a tradimento. L`ultimo tradimento dopo quelli subiti in viaggi da incubo da parte di trafficanti, truffatori, guerriglieri barbuti con la cartucciera a tracolla... Sappiamo ancora poco, di come siano andati i fatti. Il primo dei superstiti è arrivato ieri sera a Catania, in elicottero, in condizioni così gravi da poter raccontare solo brandelli della sua storia. continua alle pagine 2 e 3 
C`è da scommettere però che sarà simile a quella di altri naufragi avvenuti negli ultimi anni nel Mediterraneo. Così tanti che i soli morti accertati, fino al 31 dicembre 2014, secondo l`Alto commissariato per i rifugiati, sarebbero stati 22.804. Più tutti quelli annegati nel Canale di Sicilia senza che alcuno sapesse del loro tragico destino. 
Li abbiamo sentiti troppe volte, quei racconti che verranno ripresi oggi dai sopravvissuti. Come quello di Ebbi, che quatta) anni fa era devastato dal senso di colpa per essere stato l`unico dei suoi a salvarsi: «Ho perso mia moglie negli scontri di Tripoli, vagavo per cercarla senza riuscirci, correvo con nostro figlio in braccio, un anno appena. E con lui per cinque notti ho dormito per strada, rintanato fra le macerie. Finché ho trovato il passaggio in barca...» Viaggio fatale: «Ho avvolto il mio bimbo con un giaccone. Ho provato a tenerlo con me fra le onde, ma la creatura pesava come un masso...». Quando gli tesero una cima per ag- grapparsi, per il piccolo era troppo tardi. 
C`è chi dice che "l'ecattombe" dell'altra notte, per usare le parole di Carlotta Sami, portavoce dell'agenzia Onu per i rifugiati, sia stata la più gravi che mai abbia colpitpo il mondo dell'emigrazione. Probabile, per il Mediterraneo. Anche se qualche altre strage potrebbe non essere mai stata scoperta. Magari perfino piu grave di quella con almeno 283 vittime del Natale 1996 scovata anni fa da Giovanni Maria Bellu che nel libri I fantasmi di Portopalo raccolse la testimonianza di un pescatore: "Abbiamo issato la paranza e l'abbiamo aperta sul ponte. Un mezzo al mucchio del pescato c'era il corpo ancora intatto di un uomo scuro di carnagione sui venticinque-trentanni anni. La pelle era in parte mangiata dei pesci".
"Mi faceva pena e orrore", proseguiva il pescatore, "La vista di quell'anello mi ha fatto pensare alla sua vita ai suoi familiari. Ti vengono in mente mille cose in momenti cosi.." Ricordò però che, per paura della burocrazia, decise di restituirlo al amre e di "buttarlo giù, come avevano già fatto altri, come abbiamo continuato a fare per un altro mese e mezzo noi di Portopalo, fino a che abbiamo smesso di trovare nelle reti cadaveri interi o pezzi di cadavere»... E a rileggere questi racconti di disperati ammassati su carrette del mare dalle incerte fortune tornano in mente i versi di Edmondo De Amicis sui nostri nonni: «Ammonticchiati là come giumenti / sulla gelida prua mossa dai venti / migrano a terre ignote e lontane / laceri e macilenti / varcano i mari per cercar del pane. / Traditi da un mercante menzognero / vanno, oggetto di scherno, allo straniero / bestie da soma, dispregiati iloti / carne da cimitero / vanno a campar d`angoscia in lidi ignoti». 
Non erano meno infami, i nostri scafisti. Basti ricordare l`ingordigia degli armatori che spinsero il «Principessa Mafalda», nell`ottobre del 1927, ad avventurarsi nell`oceano verso l`Argentina nonostante per otto volte (otto volte!) i motori si fossero fermati prima dello stretto di Gibilterra. Davanti alle coste brasiliane si sfilò l`asse di un`elica e il piroscafo cominciò a imbarcare acqua. Morirono, secondo il Clarin di Buenos Aires, almeno in 657. Molti attaccati dagli squali. E i sopravvissuti raccontarono le stesse scene cantate anni prima nelle strofe dolenti del «tragico naufragio del vapore Sirio»: «Padri e madri abbracciava i suoi figli / che si sparivano tra le onde, tra le onde del mar...». 
Forse per questo chi conosce un po` di storia come papa Francesco che di emigranti è figlio e che ieri ha pianto nell`Angelus i morti dell`altra notte («Uomini e donne come noi. Fratelli nostri che cercavano una vita migliore. Affamati, perseguitati, feriti, sfruttati. Vittime di guerre. Cercavano una vita migliore. Cercavano la felicità») fatica a capire la rissa da bottega scatenata su quei settecento morti. Addebitati non solo da Matteo Salvini a un presunto «buonismo» reo di non fermare gli immigrati «prima», sulla battigia della Quarta Sponda. E non solo sotto sotto serpeggia una certa nostalgia del «cattiviamo» invocato da Roberto Maroni ai tempi dell`accordo con Muammar Gheddafi. 
Vedevamo una volta meno sbarchi e meno naufragi e meno morti? Sì. E come dice il proverbio «occhio non vede, cuore non duole». Ma era quella, davvero, la soluzione? Un piccolo filmato girato con un telefonino, gelosamente custodito per due anni da un immigrato respinto e infine inserito nel film Mare chiuso di Stefano Liberti e Andrea Segre, raccontò troppo tardi la storia di un gruppo di profughi in larga parte eritrei e cristiani in fuga dalla guerra e dalle pulizie etnicoreligiose. Fermati da una motovedetta, quei poveretti che come avrebbe riconosciuto una sentenza di condanna della Corte dei diritti umani di Strasburgo avevano diritto all`asilo, supplicarono i militari italiani: «Ci state gettando nelle mani degli assassini... Dei mangiatori di uomini...» Niente da fare: vennero riconsegnati ai libici «senza essere prima identificati, ascoltati né informati preventivamente sulla loro effettiva destinazione».. 
Meglio così? Davvero «salvavamo la vita» a profughi come quelli, che il Ras di Tripoli deciso a dimostrare che faceva sul serio arrivò talvolta, come raccontò Fabrizio Gatti, a scaricare in mezzo al deserto del Sahara? «Salvavamo» quelle donne riconsegnandole alla mercé dí aguzzini dai quali, secondo la denuncia del Servizio Informazione della Chiesa, erano state nell`85% dei casi torturate e stuprate e irrise perché da cristiane avrebbero «portato in grembo un figlio dell`Islam»? «Salvavamo» tutti dagli scafisti perché, come spiegò il direttore del Sisde Mario Mori, delegavamo il contenimento ai miliziani gheddafiani? «I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi...» 
Certo, era più comodo e rassicurante «non vedere». Al massimo sospirando sulle foto di qualche mucchio di cadaveri sepolto dalla sabbia sahariana dove, secondo Fortress Europe, sarebbero morte prima del 2011 (poi nel caos libico è diventato ancora più complicato fare i conti) almeno 1.750 persone. Così come è più facile sventolare Io slogan «aiutiamoli a casa loro» versando allo stesso tempo ai Paesi poveri aiuti pari solo allo 0,13% del Pil e cioè un sesto di quanto ci chiede la comunità internazionale, la quale tra l`altro impone all`Africa, come denunciò Kofi Annan, tariffe doganali sui prodotti della carne che toccano punte dell`826%. Questo ci dicono, i morti dell`ultimo naufragio. Certo, davanti a una realtà così pesante c`è da chiedersi se potessimo davvero prenderci il lusso, come accadeva ancora pochi mesi fa, di non affondare in alto mare i pescherecci usati dagli scafisti (dopo aver portato in salvo i profughi dalle guerre, dalle carestie e dai trafficanti, ovvio) per «non creare problemi all`ambiente». Tema sacrosanto, si capisce, ma forse in certi frangenti un po` meno impellente. E c`è da rimpiangere l`insopportabile tolleranza mostrata nei confronti di scafisti come il tunisino Tarak Honeim fermato sette volte prima che il suo caso finisce su tutti i giornali: com`è possibile che non fosse stato sbattuto in galera? Diciamolo: è stato un errore sottovalutare per anni, da parte della sinistra, l`impatto d`una immigrazione così caotica levando al massimo qualche grido di dolore all`indifferenza degli amici dell`Europa. Ma possiamo davvero andare ad imporre un blocco navale o addirittura occupare le spiagge libiche? Oggi? Con quali rischi?
 
 
 
Il genocidio dell`egoismo e dell`inerzia
il mattino, 20-04-2015
Alessandro Campi
La più cupa e terribile delle previsioni si è avverata. Più partenze dalle coste africane significano più sbarchi sulle quelle italiane. Ma significano anche - per una banale evidenza statistica - più incidenti in mare e dunque più morti, soprattutto viste le condizioni precarie con cui gli immigrati sono costretti ad affrontare la traversata del Mediterraneo dai loro schiavisti: ammassati in modo disumano su imbarcazioni fatiscenti e spesso con condizioni meteorologiche proibitive.
Da quando il ministero degli Interni nei giorni scorsi ha lanciato l`allarme alle prefetture, affinché si attrezzassero per affrontare l`arrivo di migliaia di fuggiaschi e clandestini, si è capito che era solo questione di tempo. La tragedia avvenuta ieri, se sono vere le cifre che parlano di mezzo milione di persone pronte a lasciare la Libia nelle prossime settimane, è solo il preludio dell`ecatombe che da qui alla prossima estate potrebbe verificarsi dinnanzi ai nostri occhi.
La domanda a questo punto è la seguente: quanti morti saranno necessari affinché l`Europa si decida ad intervenire? Ieri il presidente francese Hollande, appresa la notizia della strage in mare, ha subito chiamato il nostro presidente del Consiglio. Gli ha detto di voler sollecitare un` azione più incisiva dell`Unione europea in materia d`immigrazione. Ma il problema ormai non è politico-strategico, bensì pratico: chi salva i naufraghi? 
Prima di decidere nuove linee d`intervento, sulla base di una discussione che richiederà certamente settimane, c`è da capire chi debba farsi carico degli immigrati che stanno arrivando. Da un lato c`è una situazione di emergenza che peggiora da un giorno al successivo, dall`altro ci sono le titubanze e le lentezze decisionali della politica europea, senza contare gli egoismi e le ipocrisie dei governi. 
La missione Triton è stata un fallimento: poche risorse a disposizione e una finalità operativa, il pattugliamento e controllo delle frontiere, che non tiene conto che il vero impegno richiesto in questo momento è rappresentato dal salvataggio in mare dei migranti e dalla repressione del traffico illegale di migranti. Si riuscirà a mettere in piedi in breve tempo una Mare nostrum europea, per evitare altre stragi, o l`Italia dovrà continuare ad arrangiarsi con le sue sole forze? Per la cronaca, la Mare nostrum italiana costava 9 milioni di euro al mese. Triton, che coinvolge quasi trenta stati, ha una dotazione finanziaria di nemmeno 3 milioni mensili. In queste crude cifre c`è tutta l`inadeguatezza dell`Europa rispetto al fenomeno che si pretende di risolvere. 
Ma l`emergenza degli sbarchi non finirà mai, anzi si aggraverà, se gli europei - dopo averlo prodotto con la loro stupida improvvida guerra contro Gheddafi -non risolveranno il caos in Libia, le cui coste, sottratte ad ogni controllo politico-militare, sono diventate la piattaforma logistica perfetta per tutte le bande e organizzazioni armate che controllano il traffico d`esseri umani. I morti in mare provocano dolore e sgomento, ma l`onda umana che da ogni angolo dell`Africa e del Medio Oriente minaccia di riversarsi verso l`Italia partendo dalla Libia genera una legittima paura e serie preoccupazioni d`ordine politico e sociale. Per il numero in sé dei clandestini e profughi che potrebbero arrivare, per il pericolo che tra di essi si infiltrino terroristi e militanti del califfato. 
Ma di intervenire in Libia con lo scopo di bloccare le partenze alla fonte i nostri partner europei e internazionali non hanno al momento alcuna voglia. Confidano in una soluzione politico-diplomatica che stabilizzando il quadro interno, grazie ad un accordo tra le parti in lotta e al riconoscimento internazionale di un solo governo legittimo, favorisca anche la soluzione del problema migratorio, o almeno la sua riduzione a livelli più fisiologici. Tale soluzione potrebbe richiedere però tempi lunghi. L`Italia deve dunque cominciare a ragionare sul da farsi, nel caso la comunità internazionale continui a mostrarsi sorda o reticente rispetto alle nostre pressioni. Per arrestare le partenze incontrollate di clandestini una possibile soluzione, come molti ormai sostengono, sarebbe l`approntamento di un blocco navale all`interno delle acque territoriali libiche, che la nostra Marina potrebbe perfettamente gestire. C`è la volontà o forza politica di ricorrere ad una simile misura nel caso non si trovi un accordo per far autorizzare il blocco dalle Nazioni Unite? 
Purtroppo il quadro politico nazionale non lascia presagire nulla di buono. Non abbiamo, a quel che sembra, una classe politica in grado di operare perseguendo una visione condivisa dell`interesse nazionale. Come prevedibile, dopo la notizia della tragedia Salvini si è scatenato: ha imputato alla coscienza sporca di Renzi la responsabilità di questi morti e ha così provocato la reazione stizzita della sinistra, che gli ha dato dello «sciacallo» e dell`irresponsabile. Nello scontro, in Italia sempre eguale a se stesso, tra estremismo ideologico e indignazione morale, tra le volgarità del populismo e le banalità sentimentali del progressismo, a fame le spese è l`idea che la politica serve solo quando si dimostra capace di affrontare i problemi alla radice e con coraggio. Il resto, la rabbia schiumante della destra come il piagnisteo umanitario della sinistra, sono soltanto chiacchiere e propaganda.
 
 
 
Strage di migranti: «Eravamo 950, donne e bambini nella stiva»
Avvenire, 20-04-2015 
Si aggrava il bilancio delle vittime del naufragio nel Canale di Sicilia, il più grave di sempre. Le parole dei primi superstiti aggiungono orrore all'orrore. ?"Eravamo in 950. C'erano anche duecento donne e 50 bambini con noi. In molti erano chiusi nella stiva". Sono andati giù, in fondo al mare, senza neanche poter provare a salvarsi, ad aggrapparsi ad un pezzo di legno, al braccio di qualcuno. Senza neanche potersi permette di sperare. Sono morti senza poter lanciare un ultimo, disperato, urlo. Rinchusi in quella enorme tomba preparata per loro dagli scafisti. I migranti, secondo le prime informazioni, sarebbero stati provenienti da diverse nazioni: Algeria, Egitto, Somalia, Nigeria, Senegal, Mali, Zambia, Bangladesh, Ghana. Paesi d'origine diversi ma uno stesso crudele destino.
Non c'è fine all'orrore nel canale di Sicilia. Non c'è fine alla cattiveria dell'uomo. La strage di Lampedusa (dove morirno 386 persone) doveva segnare il punto di non ritorno; il "mai più" che papa Francesco, proprio da quell'isola, lanciò al mondo. E invece è arrivata la strage ancora più drammatica. Il bilancio è ancora incerto, ma la tragedia è enorme. A delinerala, ieri sera, un giovane del Bangladesh che è tra i 28 sopravvissuti e che ha parlato di 950 persone a bordo: "siamo partiti da un porto a cinquanta chilometri da Tripoli, ci hanno caricati sul peschereccio e molti migranti sono stati chiusi nella stiva. I trafficanti hanno bloccato i portelloni per non farli uscire". Funziona così: sotto ci vanno i paria, i senza diritti, quelli che pagano meno perché hanno meno soldi. Ma anche i più deboli, le donne sole con i bambini. Perché anche tra i disperati c'è chi è più disperato e chi meno. Chi sta là sotto ha meno di 20 centimetri a disposizione. A Lampedusa, quando hanno tirato fuori i morti che erano rimasti nella stiva, li hanno trovati ancora accucciati. I bambini abbracciati alle mamme. Ne sono arrivati decine di pescherecci così, con i migranti infilati - letteralmente - dai trafficanti anche tra le macchine. E una barca così è una bomba ad orologeria, basta un movimento sbagliato e non c'è speranza.
Ed è quello che è accaduto. Almeno secondo il racconto del comandante del mercantile portoghese King Jacob che per primo è stato dirottato nella zona. "Stavamo navigando nella loro direzione - ha detto l'uomo ai nostri soccorritori - Appena ci hanno visto si sono agitati e il barcone si è capovolto. La nave non lo ha urtato, si è rovesciato prima che potessimo avvicinarci e calare le scialuppe". In quei momenti era già tutto compiuto. Chi ha potuto, chi era sul ponte, ha gridato, ha tentato di aggrapparsi a qualcosa. Ma in molti non hanno neanche capito quel che stava accadendo. Chi era nella stiva ha sentito solo il rumore del legno marcio che si frantuma e ha visto l'acqua entrare tutt'assieme, fredda e assassina. E poi il silenzio della morte. "C'è soltanto nafta e detriti, pezzi di legno che vanno alla deriva e qualche salvagente. Non troviamo più nulla dalle 10 di ieri mattina" racconta uno di quelli che per venti ore stanno disperatamente cercando di salvare qualcuno.
Ma nella notte anche questo disperato tentativo di salvare qualcuno è andato scemando. Il bilancio ufficiale resta lontano anni luce dalla tragedia immane raccontata dal giovane superstite. Stamattina, poco dopo le sette e mezza, è arrivata nel porto de La Valletta, la nave Bruno Gregoretti della Guardia Costiera italiana con a bordo 24 cadaveri. Nel pomeriggio sono attesti a Catania gli altri 27 superstiti. I loro racconti saranno prezioni per ricostruire i fatto. 
Sabato, l'organizzazione che gestisce la tratta ha dato il via libera alla partenza verso l'Italia con un copione anche questo già conosciuto.
Il barcone partito dall'Egitto ha caricato i migranti da un porto della Libia, vicino alla città di Zuara. Era quasi sera quando al Centro Nazionale Soccorso della Guardia Costiera è arrivata una telefonata da un satellitare Thuraya. "Siamo in navigazione, aiutateci", ha detto un uomo - forse complice degli scafisti - con tono di voce neanche concitato. Una telefonata simile a tante arrivate nelle ultime due settimana da barconi e gommoni carichi di migranti. Quasi un invito affinché le navi italiane raggiungessero il barcone per consentire ai "passeggeri" - così tanti da riempire ogni spazio del barcone - di completare la traversata verso le coste italiane.
Il dispositivo di soccorso si è subito messo in moto: grazie al sistema satellitare di chiamata, la Guardia Costiera ha potuto rapidamente individuare le coordinate del punto dal quale era partita la telefonata e ha organizzato i soccorsi. Il barcone era a circa 70 miglia a nord delle coste libiche (110 miglia a sud di Lampedusa) quando è stato raggiunto dal King Jacob, un portacontainer di 147 metri di lunghezza, con bandiera del Portogallo, che aveva già compiuto negli ultimi giorni quattro soccorsi di naufraghi e che è stato dirottato, insieme a un altro mercantile, verso i migranti. Secondo quanto ha raccontato il comandante del mercantile i migranti, visto il portacontainer, si sono spostati in massa su una stessa fiancata, quella del lato del mercantile. È stata l'ultima beffa: il naufragio in presenza della nave.
Subito dopo il naufragio è stata messa in campo un'imponente operazione di soccorso, che ha coinvolto anche navi dell'operazione Triton, dell'agenzia Frontex: unità navali della Guardia Costiera, della Marina Militare italiana e maltese, mercantili e pescherecci di Mazara del Vallo (Trapani) - 18 mezzi in tutto, coordinati da nave Gregoretti, della Guardia Costiera, che ha assunto il comando dell'intervento.
 
 
 
L'ecatombe del Mediterraneo
Renzi: questa è una tragedia europea, subito un vertice sui migranti. Lite Salvini-Pd Mattarella: no al cinismo. Intervista alla Mogherini: impediamo ai barconi di partire
La Stampa, 20-04-2015
GRAZIA LONGO INVIATA A CATANIA
«Eravamo quasi mille intrappolati nella stiva come topi». La terra promessa è rimasta un sogno e il viaggio si è trasformato in un`ecatombe. Sono 950 i migranti inghiottiti dalle acque del Canale di Sicilia dopo un naufragio da record dell`orrore: 700 uomini, 200 donne e 50 bambini. Per la maggior parte stipati nella stiva: a loro è toccata la sorte peggiore, perché gli scafisti li avevano intrappolati bloccando i portelloni.
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
Il Mediterraneo trasformato in un cimitero di anime beffate dal business dei viaggi clandestini lo racconta uno dei sopravvissuti ora ricoverato all`ospedale Cannizzaro di Catania. Un barcone tra i 20 e i 30 metri sovraccarico all`inverosimile, uno scafista spregiudicato che lancia un Sos con un telefonino satellitare, l`arrivo di un mercantile portoghese in soccorso e il desiderio di essere salvati che si rivela fatale.
La dinamica 
È per attirare l`attenzione dei marinai del King Jacob che i clandestini si sono affacciati tutti dalla stessa parte della carretta del mare, provocandone il capovolgimento. In una manciata di minuti, nella notte tra sabato e domenica, si è consumata la più grande tragedia in mare dal secondo dopoguerra. Per ora i sopravvissuti tratti in salvo sono 28 e le vittime recuperate 24, ma il bilancio è destinato a salire. 
Il viaggio della speranza è iniziato a Zuara, sulla costa libica a 50 chilometri da Tripoli, a bordo di un peschereccio partito dall`Egitto. A bordo, quasi mille disperati in fuga dall`Africa dilaniata dalla fame o dalla guerra, ma anche dal Bangladesh. 
Le prime testimonianze 
«Insieme a me c`erano uomini, donne e bambini provenienti da Algeria, Egitto, Somalia, Nigeria, Senegal, Mali, Zambia, Bangladesh, Ghana» riferisce alla squadra mobile di Catania il superstite in ospedale. Nato in Bangladesh, è in cura per patologie di natura indipendente dal naufragio. Un altro naufrago, un eritreo che parla bene l`inglese, ha raccontato di oltre 700 passeggeri e la Guardia Costiera sta raccogliendo altre testimonianze a bordo delle navi accorse per il salvataggio.
L`inchiesta della Procura 
La Procura di Catania, guidata da Giovanni Salvi, ha aperto un`inchiesta. Si procede per i delitti di naufragio colposo, omicidio colposo plurimo e favoreggiamento dell`immigrazione clandestina. All`esito delle prime indagini saranno valutate le responsabilità penali e meglio qualificate giuridicamente le condotte. Le indagini sono portate avanti dalla Guardia Costiera e dalla questura di Catania diretta dal questore Marcello Cardona.
La latitanza europea 
Se davvero dovessero essere confermati i 950 passeggeri del peschereccio naufragato l`altra notte, salireb- bero a 1850 i migranti morti inseguendo il desiderio di riscatto e le promesse di ignobili scafisti. Una- sciagura immane, sulla quale incombe la latitanza dell`Unione europea. L`Italia è stata lasciata sola a gestire l`emergenza. Non c`è mai limite al peggio. Sembravano già assurdamente troppe quelle 366 bare allineate nell`hangar di Lampedusa dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, ma oggi la strage si ripete e si supera. Tra i corpi recuperati quello di un ragazzino di una decina di anni con il volto immerso in una chizza di nafta. Colpa di ignobili e spregiudicati scafisti che lucrano, a caro prezzo, sul trasporto di clandestini su barconi stracolmi oltre ogni limite umano. Il copione sabato notte si è replicato: al Centro Nazionale Soccorso della Guardia Costiera è arrivata una telefonata da un satellitare da un uomo con un tono di voce relativamente tranquillo: «Siamo in navigazione, aiutateci». Una sorta di invito affinché le navi italiane raggiungessero il barcone per consentire ai «passeggeri» di concludere la traversata verso le coste italiane. Grazie al Gps la Guardia Costiera ha individuato le coordinate del punto dal quale era partita la telefonata e ha organizzato i soccorsi. 
Il salvataggio 
Il barcone era a circa 70 miglia a Nord delle coste libiche (110 miglia a Sud di Lampedusa) quando è stato raggiunto dal King Jacob, un portacontainer di 147 metri di lunghezza, con bandiera del Portogallo, che aveva già compiuto negli ultimi giorni quattro soccorsi di naufraghi e che è stato dirottato. «Appena ci hanno visto, si sono agitati - ha raccontato il comandante del King Jacob - e il barcone si è capovolto. La nave non ha urtato il barcone». Per ironia della sorte, il naufragio s`è consumato in presenza della nave di soccorso. Imponente la macchina dei soccorsi che ha coinvolto anche navi dell`operazione Triton, dell`agenzia Frontex: unità navali della Guardia Costiera, della Marina Militare italiana e maltese, mercantili e pescherecci di Mazara del Vallo (Trapani). Diciotto mezzi in tutto, coordinati dalla nave Gregoretti della Guardia Costiera, che ha assunto il comando dell`intervento. 
I 24 cadaveri recuperati saranno trasferiti a Malta, mentre i sopravvissuti dovrebbero arrivare oggi a Catania. Le navi e gli aerei militari continuano a sorvolare l`area nella speranza di recuperare quanti più corpi possibile. In quel tratto di mare è impossibile l`utilizzo dei sommozzatori.
 
 
 
Cimitero Mediterraneo
Corriere della sera, 20-04-2015
Giusi Fasano
CATANIA I sommozzatori che scesero sul fondo a dare un`occhiata risalirono con le lacrime agli occhi, scioccati. Giù, nei resti di quella carretta capovolta, c`erano i corpi di uomini e donne che sembravano aspettare chi li liberasse, imprigionati nella stiva e in piedi, a fluttuare. I capelli delle donne mossi dalle correnti, come alghe. Era il naufragio del 3 ottobre 2013, 368 morti. 
Chissà se il ragazzino che ieri all`alba galleggiava a faccia in giù nella nafta aveva mai sentito parlare di quella strage... Chissà se sapeva a quali rischi andava incontro salendo sul barcone... L`hanno recuperato per primo e l`hanno messo sul ponte della Gregoretti, la nave della Guardia costiera. Nel giro di poche ore accanto a lui altri 23 sacchi, ciascuno una vita perduta. Ma di sacchi, in quell`angolo di Mediterraneo, ieri ne sarebbero serviti 700. Settecento morti che quasi certamente nessuno ripescherà più dalle acque agitate al largo delle coste libiche. La strage più strage di sempre. Nelle comunicazioni interne dei soccorritori, accanto alla parola nazionalità c`è un generico «Africa subsahariana» e la sola cosa che si sa per certa è che uno dei sopravvissuti è eritreo. «Prima cerchiamo di recuperare il recuperabile, poi ci occupiamo del resto» ripetono i coordinatori delle ricerche. 
«Il recuperabile», cioè i morti. Che anche stavolta galleggiavano fra rottami, vestiti, sacchetti di plastica, scarpe, nafta... Lo spettacolo spettrale dei corpi senza vita nell`acqua non cambia mai. Cambiano il luogo, la profondità, il numero delle vittime. Il primo naufragio dai grandi numeri avvenne la notte di Natale del 1996 nel Canale di Sicilia. Una barca carica di indíaní, pachistani e cingalesi affondò ma di quella tragedia, 283 morti, nessuno seppe nulla per sei anni. Furono naufragi-fantasma anche quelli (ancora oggi presunti) del 2011 nei quali, secondo stime non ufficiali, avrebbero perso la vita fra i 500 e i 70o tunisini. Secondo le loro madri, che  nel 2013 fondarono una ssociazione per cercarli, sarebbero partiti via mare ma mai arrivati a destinazione. Le loro storie, quindi, si conoscono soltanto dalle parole e dalle fotografie delle madri che continuano invano a cercarli. E poi ci sono le fotografie che non hanno nome né storie. Come quelle recuperate in mare dopo il naufragio del 2013. Fu un anno nerissimo, o almeno così sembrava allora, quando tutti giurarono «mai più», dopo i 368 morti del 3 ottobre e i 250 della settimana successiva (quasi tutti eritrei). A Lampedusa nessuno potrà mai dimenticare la lunghissima fila di bare allineate sul molo: per riconoscerle un numero e, nei casi più fortunati, un nome. Erano sembrati tanti i 13 morti di Scicli di pochi giorni prima (30 settembre) ma quei numeri d`inizio ottobre erano spanntosi. Eppure più o meno la metà della cifra di ieri. 
Persone. Donne, uomini e bambini diventati numeri, appunto, senza nemmeno la dignità di un nome. Spesso morti a un passo dalla salvezza: per aver allungato le braccia in troppi verso una nave che li voleva salvare sbilanciando il loro barcone oppure per aver scambiato per terra ferma una secca. E successo tante volte: la carretta con cui arrivano si incastra quando non c`è luce per vedere la costa, loro scendono e finiscono nell`acqua alta morendo annegati perché quasi sempre non sanno nuotare. 
Forse è morta proprio così anche Samia Yusuf Omar, atleta somala di Pechino 2008 partita per l`Italia e mai arrivata. Di quanti modi si può morire in mezzo al Mediterraneo su una barca carica di disperati, sono pieni i verbali dei sopravvissuti. Che raccontano di gente asfissiata nella stiva, di donne incinte buttate in acqua, di motori in avaria e barche alla deriva. Di umanità varia in balia delle onde. 
L`Unhcr fa sapere che nel 2014 sono morti più di 3.00o migranti e che quest`anno, bilancio di ieri compreso, dovremmo già essere oltre i 1.500. Persone, appunto. Prima che diventino numeri.
 
 
 
L’orrore negli occhi del sopravvissuto “Donne e bimbi chiusi nella stiva eravamo 950, il mare ci ha inghiottiti”
Barcone carico di migranti si ribalta davanti alle coste libiche, si salvano solo in 28 “Gli scafisti hanno sbarrato i portelloni, chi era là sotto non ha avuto scampo”
la Repubblica, 20-04-2015
FRANCESCO VIVIANO e ALESSANDRA ZINITI
CATANIA . «Eravamo 950, quaranta o cinquanta bambini, 200 donne e gli altri tutti uomini. Io ed altri ci siamo salvati perché eravamo in coperta gli altri sono annegati ma molti altri sono rimasti prigionieri nelle stive del barcone perché i trafficanti avevano chiuso i portelloni per impedirgli di uscire e sono finiti in fondo al mare». Adesso l’unico superstite arrivato ieri a Catania con un elicottero della Guardia costiera è ricoverato all’ospedale Cannizzarro del capoluogo etneo. È sveglio ma ha un trauma toracico, avrà tra i 20 ed 25 anni, è del Bangladesh e chiede notizie di un altro suo connazionale che per fortuna è anche lui vivo a bordo della nave “Goretti” della Guardia Costiera, che oggi lo riporterà insieme agli altri superstiti nel porto di Catania. Lo sorvegliano a vista due agenti della Polizia di Stato che allontanano subito il cronista di Repubblica.
Quella di ieri è una tragedia senza precedenti, un orrore senza limiti. Per tutto il giorno si è parlato di almeno 700 morti. Ma secondo il racconto dell’unico testimone che fino a ora ha parlato sarebbero molti di più: oltre 900. Una strage che supera i due drammatici naufragi di Lampedusa e Malta dell’ottobre del 2012. E quello che si è presentato ieri ai primi soccorritori era come un girone dell’inferno dantesco.
Un ragazzino, 10 anni, o forse 15, a faccia in giù, il viso immerso in una enorme chiazza di petrolio. Lì sotto, ormai a 400 metri di profondità, il relitto di un peschereccio che si è portato in fondo al Canale di Sicilia i corpi di centinaia di persone. È l’immagine che resterà impressa di quello che si profila come il più grande naufragio di tutti i tempi della storia dell’immigrazione. La costa libica è a 70 miglia, Lampedusa a 180, Malta a 160. Un triangolo maledetto nel quale nella notte tra sabato e domenica, traditi dall’entusiasmo per i soccorsi ormai a poche centinaia di metri, hanno perso la vita uomini, donne, probabilmente anche moltissimi bambini, tutti provenienti dai paesi del centro Africa, tutti nelle mani delle organizzazioni di trafficanti senza scrupoli che controllano un business milionario.
Partiti dall’Egitto, avrebbero fatto una tappa in Libia, a 50 chilometri da Tripoli, per imbarcare altre persone su una vecchia carretta di 30 metri che si è rovesciata per l’agitazione con la quale i migranti avevano appena salutato l’arrivo del mercantile portoghese King Jacob che la Guardia costiera aveva inviato in loro soccorso. Più di 700 vittime, 28 sopravvissuti, solo 24 corpi recuperati il pesantissimo bilancio ancora tutto da definire. Il ragazzo del Bangladesh, che ha un trauma toracico ma non è in gravi condizioni, probabilmente oggi sarà interrogato dal procuratore di Catania Salvi.
L’ALLARME : SIAMO TROPPI
«Help, help, we are too many on the boat… help». La telefonata concitata da un satellitare era arrivata alla sala operativa del centro nazionale di soccorso della Guardia costiera sabato pomeriggio. Non ci avevano messo molto i mezzi aerei in ricognizione a trovare il barcone da cui era partita la richiesta di aiuto, una vecchia carretta del mare, un peschereccio di trenta metri straripante di uomini, donne, bambini, intere famiglie. Stipati come sardine sulla coperta, aggrappati in precario equilibrio sui corrimano, appollaiati sulla torretta e, quasi certamente, ammassati — come tante altre volte è successo — nella stiva, fin dentro il vano motore, con i meno fortunati a contendersi un refolo d’aria per non morire avvelenati dalle esalazioni del carburante. Ecco perché, intorno a mezzanotte, quando già dalla telefonata di soccorso erano passate vanamente diverse ore, all’avvicinarsi delle luci di bordo della grande sagoma scura di un mercantile, a bordo di quella vecchia carretta è successo il finimondo: braccia che si agitavano, grida che si levavano, uomini e donne che si muovevano scompostamente nel disperato tentativo di attirare l’attenzione di quei soccorritori che sembravano finalmente a portata di mano.
LE MANI PROTESE NELL’ACQUA
E poi improvvisamente la tragedia: centinaia di corpi che si muovono in una sola direzione, che cadono gli uni sugli altri sporgendosi verso il bordo, il peschereccio che ondeggia paurosamente, che si inclina su un fianco. Non c’è più tempo per ritrovare il baricentro: uomini, donne, ragazzi, bambini scivolano giù inesorabilmente inghiottiti dal buio di una notte calda e calma, il manto nero del Canale di Sicilia che si richiude su migliaia di mani che si tendono verso l’alto mentre i fari del mercantile portoghese King Jacob, dirottato sul posto dalla sala operativa della Guardia costiera, illuminano la scena più orribile della storia dell’immigrazione. Il vecchio motopesca ormai rovesciato, una decina di uomini riusciti con la forza della disperazione a risalire sulla chiglia ancora galleggiante, un’altra decina aggrappati a pezzi di legno, bidoni, qualche giubbino salvagente. E centinaia e centinaia di corpi che vanno giù e poi risalgono, ormai senza vita.
Ci sono tante donne, tanti bambini, intere famiglie che guardano per l’ultima volta il cielo del Cana- le di Sicilia tenendosi per mano. Quelli che sono rinchiusi dentro la stiva non hanno neanche il tempo di capire cosa sta succedendo: il loro mondo si capovolge all’improvviso prima che l’acqua invada la gabbia in cui sono rinchiusi da un giorno e una notte e li sommerga. Dice il comandante del mercantile portoghese: «Appena ci hanno visto, si sono agitati e il barcone si è capovolto. Non li abbiamo urtati noi».
IL SILENZIO DI CHI CE L’HA FATTA
Per gli uomini dell’equipaggio del King Jacob, un mercantile lungo 150 metri, non è facile prestare i soccorsi: l’imbarcazione è alta, non può accostarsi, i marinai si sbracciano, si tirano giù funi, scialuppe, chi ce la fa si aggrappa. Alla fine di una notte che sembra non passare mai, quando finalmente albeggia si contano i superstiti: sono 28, somali, eritrei, maliani, senegalesi, ivoriani, ghanesi, della Sierra Leone, persino del Bangladesh e del Suriname. Hanno gli occhi allagati di terrore e dolore, le bocche che non riescono ad aprirsi se non per sussurrare una preghiera o una silenziosa domanda sulla sorte di mogli, figli, mariti, fratelli, sorelle che erano con loro in quel peschereccio stipato così tanto all’inverosimile da annunciarsi già come una tomba a cielo aperto nel suo ultimo viaggio.
LA CATENA DI SOLIDARIETÀ
Poi arrivano altre 17 unità della Guardia costiera, della Marina, della Guardia di finanza, della Marina maltese, arrivano mercantili e pescherecci siciliani impegnati in battute di pesca. Una grande catena di solidarietà nella speranza di ripescare ancora qualcuno in vita perché il tempo è bello e il mare non è freddo: 17 gradi. Però non basta perché chi sale su quelle carrette quasi mai sa nuotare e dunque, a meno di trovare qualcosa a cui aggrapparsi, non è in grado di sopravvivere in acqua. E infatti quando è ormai giorno un solo profugo ancora in vita viene ripescato dai soccorritori ormai impegnati in una corsa contro il tempo per recuperare i corpi senza vita prima che vadano giù è che il Mediterraneo diventi la loro tomba. Perché il mare in quel tratto, a parte una secca dove i pescatori vanno a tirare le reti, è molto profondo, almeno quattrocento metri. Impossibile, dunque, così come accadde in occasione del naufragio di Lampedusa a un miglio dall’isola dei Conigli, pensare di mandare i sommozzatori giù a recuperare i cadaveri. Ci vorrebbe un sottomarino o un robot e l’impresa, estremamente difficile, costerebbe soldi che in questo momento nessuno ha.
I CADAVERI PORTATI A MALTA
Alle otto e mezza del mattino le salme dei 24 cadaveri recuperati sono già allineati, chiusi nei sacchi blu, su uno dei ponti della nave Gregoretti lontano dagli occhi dei sopravvissuti che scrutano atterriti il mare per cercare i loro cari. Loro stanno bene, tirati fuori dall’acqua in tempo e soccorsi, scaldati e rifocillati, sono soltanto sotto shock. Non hanno voglia di parlare, di raccontare. Piangono silenziosamente, ringraziano di essere vivi. Oggi arriveranno a Catania dove, protetti in una struttura, dovranno ricostruire le terribili fasi del naufragio ai magistrati della procura guidata da Giovanni Salvi che ha aperto un fascicolo con le ipotesi di reato di omicidio plurimo, disastro colposo e traffico di esseri umani. Le salme, invece, almeno per il momento andranno a Malta.
 
 
 
Dove cessa l’umanità
Queste infami tragedie sono la prova di un’altra triste realtà: l’inesistenza dell’Europa. Sarebbe opportuno il codice marziale per i mercanti di schiavi
Corriere della sera, 20-04-2015
Claudio Magris
Ogni volta la tragedia è più grande - e lo sarà sempre più - e ogni volta si dice, mentendo in buona fede a se stessi, che si è raggiunto il colmo.
E che è vicino il momento in cui si volterà pagina, proprio perché è intollerabile che continui questo crescendo di orrori.
Invece con ogni probabilità continuerà, se non accadrà qualche radicale e inimmaginabile cambiamento nella situazione e nella politica mondiali. La pietà, l’indignazione e lo sgomento del mondo - di noi tutti - si accenderanno, sinceri e inutili, a ogni nuovo episodio di barbarie.
Ma forse sempre meno, perché ci si abitua a tutto e proprio il ripetersi delle orrende e criminose tragedie renderà più assuefatte e meno reattive le coscienze.
Che fare, come dice il titolo di un famoso pamphlet politico? Il problema è tragico,
perché agli immigrati e senza nome e senza destino si oppongono non solo le livide, imbecilli e regressive paure di chi teme ogni forestiero incapace di bestemmiare nel suo dialetto e sogna un mondo endogamico e gozzuto di consanguinei.
Alla doverosa accoglienza umana di tanti fratelli perseguitati e infelici si oppone e purtroppo si opporrà una difficoltà o impossibilità oggettiva, il numero di questi fratelli infelici, che un giorno potrebbe essere materialmente impossibile accogliere. Un ospedale che ha cento posti letto può ospitare, in situazioni di emergenza, 150 malati, ma non 10 mila, e chi facesse entrare nelle sue corsie 10 mila persone creerebbe, irresponsabilmente, la premessa di nuove difficoltà e di nuovi conflitti. Queste infami tragedie sono la prova di un’altra triste realtà: l’inesistenza dell’Europa. Il problema dei dannati della Terra che arrivano sulle nostre coste è europeo, non italiano; coinvolge l’Europa, non solo l’Italia. Che l’Unione Europea se ne disinteressi è oscenamente autodistruttivo; è come se il governo italiano si sbarazzasse del problema dicendo che è affare della regione di Sicilia, visto che i naufraghi, vivi o morti, non arrivano a Roma o a Torino. Se l’Unione Europea se ne disinteressa, e non può essere un tardivo intervento a dimostrare il contrario, significa che l’Unione Europea non esiste. Che fare? Certo, si possono adottare piccole misure. Ad esempio, sarebbe opportuno che i mercanti di schiavi, colpevoli spesso volontariamente di crimini, fossero sottoposti, data l’emergenza di questa vera guerra per l’Italia, al codice marziale.
Non sarebbe male se i mercanti di schiavi e di morte sbrigassero i loro affari rischiando la morte come i loro schiavi.
Fa impressione leggere di alcuni di questi assassini arrestati e presto scarcerati e tornati al loro traffico lurido e lucroso. Che fare? Nessuno, sembra, lo sa.
 
 
 
Dobbiamo avere pietà di noi
la Repubblica, 20-04-2015
ILVO DIAMANTI
Oltre novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione. Che spinge ad affrontare il mare "nemico" per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza.
Oggi: alla guerra. Più che di "migrazione", si tratta di "fuga". Anche se noi percepiamo la "misura" della tragedia solo quando i numeri sono "smisurati". Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura. L'abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di "piegarla" e di "spiegarla" in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si "mobilitano", alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita.
È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D'altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all'estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis). Come, puntualmente, avviene. Infatti, l'Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma  -  il fenomeno è meno noto  -  è al quarto posto come Paese di "emigrazione". Gli stranieri che vivono  -  e lavorano  -  in un Paese dell'Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili. La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l'impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento.
Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l'8% della popolazione. Con un aumento rispetto all'anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato.
Anche se la recente Indagine dell'Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all'Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un "pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone" (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l'immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l'approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli "altri intorno a noi". E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come "altri noi". Così, la diffidenza ha cominciato a declinare.
Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l'Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull'immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano "migranti" e non più "clandestini". E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi. Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta. Vale la pena di aggiungere, ancora, che l'immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa.
L'immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l'Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D'altronde, da noi l'immigrazione è sempre più di "passaggio". Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l'immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli. Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l'insicurezza  -  e le vittime degli scafisti  -  in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini. Nel segno dell'Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile  -  oltre che giusto  -  fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi. Ma l'unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste  -  e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte. L'unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi. Fingere che non esistano. Rinunciare alla compassione verso gli altri. Non avere pietà di noi stessi.
 
 
 
Quell'acqua nera nei polmoni che soffoca le speranze di settecento poveri cristi
L'huffington Post, 20-04-2015
Deborah Dirani 
Io non so nuotare: sono una che se la butti in due metri d'acqua va giù a fondo in 10 secondi, con la bocca inondata e i polmoni allagati. Io non so nuotare esattamente come la maggior parte dei migranti che si imbarcano in dei gusci di noce e consegnano la loro vita alla misericordia di Poseidone: "che il mare sia calmo, per carità".
Dicono che quando muori affogato tu abbia la perfetta percezione della morte: l'acqua che ti avvolge come un vestito strettissimo di cui non ti puoi liberare. Gelida, nera, ti abbraccia e ti paralizza: annaspi cercando di muovere le braccia e le gambe. Dicono che un corpo galleggi naturalmente. Quelli che lo dicono non conoscono il panico che risale dallo stomaco e rende inabile il cervello a impartire il giusto comando al corpo: "Non ti muovere, rilassati".
È una lotta quella di chi affoga: è una lotta contro un nemico che si nutre delle urla disperate per entrargli in corpo. La bocca che si apre a urlare e respirare e inghiotte sorsate d'acqua, che finiscono dritte nei polmoni. Cerchi aria e trovi acqua e continui a scivolare giù. Ti muovi come un disperato prendi a schiaffi le onde sperando che ti tengano su, e invece a ogni schiaffo ti ritrovi più sotto. Le gambe scalciano, provano a spingerti, ma non c'è niente su cui possano appoggiarsi, non c'è salvezza. L'ultima cosa che rimane di te prima che Poseidone si prenda la tua anima sono le mani: sono le ultime a sparire inghiottite in quella tomba bagnata che t'è toccata in sorte.
Settecento poveri cristi sono morti esattamente così: con l'acqua che gli sostituiva l'aria nei polmoni, le braccia che mulinavano e le gambe che scalciavano. Sono morti di notte circondati dal nero del mare e da quello del cielo. Sono morti cercando con gli occhi ormai allagati quelli altrettanto inondati dei loro figli, dei loro fratelli, delle loro mogli e dei loro mariti. Sono morti esattamente a un passo dalla salvezza, che aveva la rassicurante forma di un mercantile portoghese. Vi si erano protesi tutti, naufraghi di qualche sabbioso deserto, a cercare la loro terra promessa, chiedendo aiuto con la fiducia di chi crede che ormai il peggio sia passato.
E invece no: il peggio deve ancora venire. Il peggio è il guscio di noce che si sbilancia e vomita in acqua settecento speranze consegnandole alle definitive braccia della morte.
Settecento poveri cristi sono morti annegati invece che bombardati e questo dovrebbe aprire tanti cervelli ottusamente chiusi dalla ruggine di un catenaccio di ignoranza. Se accetti di andare per mare non sapendo nuotare, se paghi i risparmi di tutta la tua povera vita per imbarcarti in una zattera che assomiglia a una bara devi essere talmente disperato da preferire l'ipotesi alla certezza della morte.
E' agghiacciante. È disumano. Eppure sono uomini e donne quelli che ogni giorno sono costretti ad operare questa scelta: morire di sicuro a casa loro o morire, forse, in mezzo al mare; del resto se sopravvivi al mare di là c'è la vita.
Non importa quanto misera possa essere la vita di là: basta che non sia scandita dalle sirene del coprifuoco e dal rumore dei mortai. Sarà di mani tese a chiedere un pezzo di pane, sarà di paura di sentirselo negare: ma sarà vita. Sarà libertà.
E la libertà vale ogni pazzia: noi che siamo nati di là non lo possiamo neanche immaginare che che valore abbia la libertà. Non possiamo neanche immaginare cosa significhi dissotterrare i risparmi e darli in mano a un assassino che ci assicura, proprio lui, la sopravvivenza.
Non possiamo immaginare le preghiere rivolte a un Dio, che con qualunque nome lo si chiami è sempre il protettore della vita di chi lo supplica, sordo e distratto.
Non possiamo immaginare il languore nello stomaco che si prova salendo a piedi scalzi su una barca, arrotolando l'orlo dei pantaloni, tirando su la gonna, con gli occhi indecisi tra l'ultimo saluto a casa o la curiosità di una costa che ancora non si riesce a vedere.
E non possiamo immaginare quell'acqua nera, buona solo per i pesci, che si avviluppa al corpo, che trova ospitalità nella bocca e si accomoda nei polmoni soffocando speranza e vita di settecento poveri cristi.
 
 
 
Il Mediterraneo fossa comune, così quei morti di nessuno pesano sulle nostre coscienze
Uomini, donne e bambini inghiottiti dall’acqua e ancora più in fretta dall’indifferenza Il dolore per gli affogati bollato come buonismo mentre i rimedi sono solo blocchi e respingimenti
la Repubblica, 20-04-2014
ROBERTO SAVIANO
Il mediterraneo trasformato in una fossa comune. Oltre novecento morti. Morti senza storia, morti di nessuno. Scomparsi nel nostro mare e presto cancellati dalle nostre coscienze. È successo ieri, un barcone che si rovescia, i migranti  -  cioè persone, uomini, donne, bambini  -  che vengono inghiottiti e diventano fantasmi. Ma sappiamo già che succederà anche domani. E tra una settimana. E tra un mese. Spostando la nostra emozione fino all'indifferenza.
Ripeti una notizia tutti i giorni, con le stesse parole, gli stessi toni, anche accorati e dolenti, e avrai ottenuto lo scopo di non farla ascoltare più. Quella storia non avrà attenzione, sembrerà sempre la stessa. Sarà sempre la stessa. "Morti sui barconi". Qualcosa che conta per gli addetti ai lavori, storia per le associazioni, disperazione invisibile.
Adesso, proprio adesso, ne stiamo parlando solo perché i morti sono 900 o forse più: cifra smisurata, disumana. Se ha ancora senso questa parola. Continuiamo a non sapere nulla di loro, ma siamo obbligati a fare i conti con la tragedia. Fare i conti: perché sempre e solo di numeri parliamo. Fossero mancati due zeri al bollettino di morte non l'avremmo neppure "sentita". Perché ormai è solo una questione di numeri (o dettagli drammatici come "migranti cristiani spinti in mare da musulmani") che fa la differenza. Non per i singoli individui, non per le sensibilità private, ma per la comunità che dovremmo rappresentare, che dovrebbe rappresentarci. Perché all'indifferenza personale, persino comprensibile, si affianca sul piano politico una gazzarra di dichiarazioni: litigi, accuse, toni violentissimi.
Nessuno riesce a fare ciò di cui abbiamo più bisogno: far capire. Pochi si impegnano: Medici senza frontiere con la campagna #milionidipassi cerca di raccontare, evitando di ridurre queste persone al loro problema. Cioè a "profughi, clandestini, extracomunitari": parole che lasciano diluire la specificità umana per farci sentire meno lo spreco infinito dinanzi alla tragedia.
Molti politici, anche in questo momento, gridano. Salvini parla di "invasione", quando invece la maggior parte di chi arriva non resta affatto in Italia ma va in Francia, in Germania o nei paesi dell'est. Il M5S che nelle sue proposte aveva aperto un dibattito interessante, purtroppo si è lasciato tentare dallo spostare il baricentro della questione dal "salvare vite" a "l'espulsione", assumendo quella falsa logica per cui più si rende difficile l'entrata clandestina in Italia meno tentativi di raggiungere le nostre coste ci saranno. Non è così, non si salvano vite irrigidendo le frontiere e non solo l'esperienza italiana l'ha mostrato, ma anche quella americana.
Basta leggere il libro "La Bestia" di Martinez per comprendere come i flussi clandestini dal Messico agli Usa sono raramente gestibili e non fermabili. Il punto è che il primo obiettivo dovrebbe essere quello: salvare delle vite, prendersene cura. Invece si è riusciti a far diventare questa volontà come ridicola, romantica, naif. Qualunque riflessione sul dolore degli altri, di chi arriva da un "sottomondo", deve essere contenuta. C'è un'economia nella sofferenza. Chi valuta il dolore, chi misura la tragedia umana, chi cerca di svegliare il torpore della conta degli affogati è iscritto di diritto al movimento "buonista". "Buonista" è l'accusa di chi non vuol spender tempo a capire e ha già la soluzione: respingimenti, arresti, blocchi.
Un miscuglio di frustrazione personale che cerca il responsabile del proprio disagio, una voglia di considerare realistica e vincente solo la soluzione più autoritaria. La bontà considerata come sentimento ipocrita per definizione. E, cosa assai peggiore, una qualità morale che può avere solo l'uomo perfetto, candido, puro: quindi nessuno se non i morti, la cui vita è trasfigurata e le cui azioni sono già spese. Chiunque cerchi, nella sua umana imperfezione, di agire diversamente è marchiato con un giudizio unico: falso. La bontà diviene quindi sentimento senza cittadinanza, ridicolo, proprio perché non può essere compiuto se non nella rotonda perfezione. Questo è il cinismo miope, che liquida tutto con solerte sarcasmo.
Ovvio che razionalmente non è immaginabile una smisurata accoglienza universale, senza regole, ma la strada intrapresa delle mezze concessioni e dai mezzi respingimenti non regge più. Il peso politico che avremmo dovuto avere essendo Stato-cerniera non c'è stato riconosciuto. Dovevamo pretendere di scontrarci sul tema immigrazione con il resto dell'Europa. Dovevamo pretendere di essere ascoltati, senza che "il problema" venisse scaricato su di noi, delegato a noi.
La perenne campagna elettorale di Renzi, che sul piano internazionale sembra più voler acquistare una credibilità diplomatica piuttosto che porre e imporre temi, non ci sta aiutando ma ci sembra ingeneroso dare a questo governo ogni responsabilità. L'Europa colpevolmente tace, possiamo però tentare di cambiare le cose. Possiamo impegnarci a interpretare, a raccontare, a non permettere che queste vite siano schiacciate e sprecate in questo modo. Che siano lasciate indietro, tanto indietro da sparire dalla nostra vista. Diventando un fantasma, uno stereotipo, un fastidio. Inventarci percorsi laterali, chiamare a raccolta tutta la creatività possibile. Parlarne in tv e sul web ma in modo diverso: come dicevamo "profugo" o "clandestino" sono termini che diluiscono la specificità umana costruendo una distanza irreale che abbassa il volume all'empatia. Dobbiamo chiedere ai partiti di candidare donne e uomini che vengono da quest'esperienza, aprire loro le università. Tutto questo diminuirà il consenso politico con la solfa del "prima noi e poi loro"? Probabilmente sì, accadrà questo. Ma solo nella prima fase ben presto ci si accorgerà dell'enorme beneficio che avremmo.
La storia degli sbarchi e dei flussi di migranti deve diventare un tema che il governo sentirà fondamentale per il suo consenso. Renzi e il suo governo sono solleciti a rispondere quando un tema diventa mediatico e popolare: se percepiscono che il giudizio su di loro sarà determinato dal problema migrazione inizieranno a sparigliare, a trovare nuova strategia ad avere nuovi sguardi.
Il semestre italiano in Europa è stato una profonda delusione, in termini di proposte sui flussi dei capitali criminali (era l'occasione per porre il tema del riciclaggio) e in termini di emigrazione. Ma in questo momento inutile rimpiangere il non fatto è necessario che l'Europa decida in maniera diversa. Dare spazio non episodico alle vicende dei migranti. La tv li accolga, cominciando a pronunciare bene i loro nomi e quelli delle loro nazioni, raccontando il loro quotidiano e la loro resistenza. Gli unici che in queste ore rappresentano ciò che l'Europa dovrebbe essere sono gli italiani, i molti italiani che salvano vite tutti i giorni rischiando di violare leggi. La figura che sintetizza questi italiani colmi di onore è descritta dal pescatore Ernesto nel bellissimo film "Terraferma" di Crialese che viola l'ordine della Capitaneria di tenersi con il suo peschereccio lontano da un gommone rispondendo con un semplice, umano e potente: "Io gente in mare non ne ho lassata mai".
 
 
 
Quei ragazzi divorati in mezzo al mare dalla nostra indifferenza
Internazionale, 20-04-2015
Igiaba Scego, scrittrice
Mio padre e mia madre sono venuti in Italia in aereo.
Non hanno preso un barcone, ma un comodo aeroplano di linea.
Negli anni settanta del secolo scorso c’era, per chi veniva dal sud del mondo come i miei genitori, la possibilità di viaggiare come qualunque altro essere umano. Niente carrette, scafisti, naufragi, niente squali pronti a farti a pezzi. I miei genitori avevano perso tutti i loro averi in un giorno e mezzo. Il regime di Siad Barre, nel 1969, aveva preso il controllo della Somalia e senza pensarci due volte mio padre e poi mia madre decisero di cercare rifugio in Italia per salvarsi la pelle e cominciare qui una nuova vita.
Mio padre era un uomo benestante, con una carriera politica alle spalle, ma dopo il colpo di stato non aveva nemmeno uno scellino in tasca. Gli avevano tolto tutto. Era diventato povero.
Oggi mio padre avrebbe dovuto prendere un barcone dalla Libia, perché dall’Africa se non sei dell’élite non c’è altro modo di venire in Europa. Ma gli anni settanta del secolo scorso erano diversi. Ho ricordi di genitori e parenti che andavano e venivano. Avevo alcuni cugini che lavoravano nelle piattaforme petrolifere in Libia e uno dei miei fratelli, Ibrahim, che studiava in quella che un tempo si chiamava Cecoslovacchia. Ricordo che Ibrahim a volte si caricava di jeans comprati nei mercati rionali in Italia e li vendeva sottobanco a Praga per mantenersi agli studi. Poi passava di nuovo da noi a Roma e quando era chiusa l’università tornava in Somalia, dove parte della famiglia aveva continuato a vivere nonostante la dittatura.
Se dovessi disegnare i viaggi di mio fratello Ibrahim su un foglio farei un mucchio di scarabocchi. Linee che uniscono Mogadiscio a Praga passando per Roma, alle quali dovrei aggiungere però delle deviazioni, delle curve. Mio fratello infatti aveva una moglie iraniana e viaggiavano insieme. Quindi c’era anche Teheran nel loro orizzonte e tanti luoghi in cui sono stati ma che ora non ricordo con precisione.
Mio fratello, da somalo, poteva spostarsi. Come qualsiasi ragazzo o ragazza europea. Se dovessi disegnare i viaggi di un Marco che vive a Venezia o di una Charlotte che vive a Düsseldorf dovrei fare uno scarabocchio più fitto di quello che ho fatto per mio fratello Ibrahim. Ed ecco che dovrei disegnare le gite scolastiche, quella volta che il suo gruppo musicale preferito ha suonato a Londra, le partite di calcio del Manchester United, poi le vacanze a Parigi con la ragazza o il ragazzo, le visite al fratello più grande che si è trasferito in Norvegia a lavorare. E poi non vai una volta a vedere New York e l’Empire State Building?
Per un europeo i viaggi sono una costellazione e i mezzi di trasporto cambiano secondo l’esigenza: si prende il treno, l’aereo, la macchina, la nave da crociera e c’è chi decide di girare l’Olanda in bicicletta. Le possibilità sono infinite. Lo erano anche per Ibrahim, nonostante la cortina di ferro, anche nel 1970. Certo non poteva andare ovunque. Ma c’era la possibilità di viaggiare anche per lui con un sistema di visti che non considerava il passaporto somalo come carta igienica.
Oggi invece per chi viene dal sud del mondo il viaggio è una linea retta. Una linea che ti costringe ad andare avanti e mai indietro. Si deve raggiungere la meta come nel rugby. Non ci sono visti, non ci sono corridoi umanitari, sono affari tuoi se nel tuo paese c’è la dittatura o c’è una guerra, l’Europa non ti guarda in faccia, sei solo una seccatura. Ed ecco che da Mogadiscio, da Kabul, da Damasco l’unica possibilità è di andare avanti, passo dopo passo, inesorabilmente, inevitabilmente.
Una linea retta in cui, ormai lo sappiamo, si incontra di tutto: scafisti, schiavisti, poliziotti corrotti, terroristi, stupratori. Sei alla mercé di un destino nefasto che ti condanna per la tua geografia e non per qualcosa che hai commesso.
Viaggiare è un diritto esclusivo del nord, di questo occidente sempre più isolato e sordo. Se sei nato dalla parte sbagliata del globo niente ti sarà concesso. Oggi mentre riflettevo sull’ennesima strage nel canale di Sicilia, in questo Mediterraneo che ormai è in putrefazione per i troppi cadaveri che contiene, mi chiedevo ad alta voce quando è cominciato questo incubo, e guardando la mia amica giornalista-scrittrice Katia Ippaso ci siamo chieste perché non ce ne siamo rese conto.
È dal 1988 che si muore così nel Mediterraneo. Dal 1988 donne e uomini vengono inghiottiti dalle acque. Un anno dopo a Berlino sarebbe caduto il muro, eravamo felici e quasi non ci siamo accorti di quell’altro muro che pian piano cresceva nelle acque del nostro mare.
Ho capito quello che stava succedendo solo nel 2003. Lavoravo in un negozio di dischi. Erano stati trovati nel canale di Sicilia 13 corpi. Erano 13 ragazzi somali che scappavano dalla guerra scoppiata nel 1990 e che si stava mangiando il paese. Quel numero ci sembrò subito un monito. Ricordo che la città di Roma si strinse alla comunità somala e venne celebrato a piazza del Campidoglio dal sindaco di allora, Walter Veltroni, un funerale laico. Una comunità divisa dall’odio clanico quel giorno, era un giorno nuvoloso di ottobre, si ritrovò unita intorno a quei corpi. Piangevano i somali accorsi in quella piazza, piangevano i romani che sentivano quel dolore come proprio.
Ora è tutto diverso.
Potrei dire che c’è solo indifferenza in giro.
Ma temo che ci sia qualcosa di più atroce che ci ha divorato l’anima.
L’ho sperimentato sulla mia pelle quest’estate ad Hargeisa, una città nel nord della Somalia.
Una signora molto dignitosa mi ha confessato, quasi con vergogna, che suo nipote era morto facendo il tahrib, ovvero il viaggio verso l’Europa.
“Se l’è mangiato la barca”, mi ha detto. La signora era sconsolata e mi continuava a ripetere: “Quando partono i ragazzi non ci dicono niente. Io quella sera gli avevo preparato la cena, non l’ha mai mangiata”. Da quel giorno spesso sogno barche con i denti che afferrano i ragazzi per le caviglie e li divorano come un tempo Crono faceva con i suoi figli. Sogno quella barca, quei denti enormi, grossi come zanne di elefante. Mi sento impotente. Anzi, peggio: mi sento un’assassina perché il continente, l’Europa, di cui sono cittadina non sta alzando un dito per costruire una politica comune che affronti queste tragedie del mare in modo sistematico.
Anche la parola “tragedia” forse è fuori luogo, ormai dopo venticinque anni possiamo parlare di omicidio colposo e non più di tragedie; soprattutto ora dopo il blocco da parte dell’Unione Europea dell’operazione Mare Nostrum. Una scelta precisa del nostro continente che ha deciso di controllare i confini e di ignorare le vite umane.
Nessuno di noi è sceso in piazza per chiedere che Mare Nostrum fosse ripresa. Non abbiamo chiesto una soluzione strutturale del problema. Siamo colpevoli quanto i nostri governi. Non a caso Enrico Calamai, ex viceconsole in Argentina ai tempi della dittatura, l’uomo che salvò molte persone dalle grinfie del regime di Videla, sui migranti che muoiono nel Mediterraneo ha detto: “Sono i nuovi desaparecidos. E il riferimento non è retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita in modo che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire di non sapere”.
 
 
 
La società civile: Europa svegliati!
Vita, 20-04-2015
Le reazioni delle organizzazioni della società civile alla più grande tragedia nella storia delle migrazioni: i 700 morti di questa notte nel canale di Sicilia. Sul banco degli imputati l'Unione europea e la politica
Il più grande naufragio nella storia delle migrazioni: così rischia di essere ricordata l'ennesima tragedia avvenuta stanotte nel Canale di Sicilia.  Le dimensioni della nuova tragedia nel Canale di Sicilia, 700 morti, sono inaccettabili per la coscienza. 25 mila morti nel Mediterraneo in 20 anni di naufragi, ma si tratta di un bilancio che rischia di salire ogni giorno rendono indispensabili misure straordinarie.
Una tragedia, quella di stanotte, epocale come epocale è il flusso di migranti verso l’Europa, come ha detto oggi Papa Francesco: «Sono uomini e donne come noi, fratelli nostri in cerca di una vita migliore, affamati, perseguitati, sfruttati, feriti, vittime di guerre. Cercavano la felicità».
Amref Health Africa, oggi più che mai, ribadisce che è un dovere di tutti, ma innanzitutto della politica europea, ricordare che la sofferenza di una parte del mondo è affare di tutti, non solo di chi lo vive in prima persona, perché bisogni e diritti sono interconnessi, e se una parte di umanità è costretta a fuggire da guerre e miseria e a morire in mare per questo, tutta l'umanità è chiamata in causa. E' quindi un dovere prioritario rimuovere le cause che determinano tali ingiustizie e le conseguenti tragedie. Afferma il direttore della sezione italiana di Amref, Guglielmo Micucci: "Quella di stanotte è l'ennesima tragedia, forse la più grande mai avvenuta nel Mediterraneo. Gente che fugge da guerre, persecuzioni e miseria. Non parliamo di andare a studiare in un altro Paese o di cercare un lavoro migliore. Ma di migliaia di persone che ogni mese lasciano tutto, i loro cari, i loro beni, il diritto ad avere un futuro normale dove sono nati, esclusivamente per salvarsi la vita. L'Europa, inerme, non riesce a dare una risposta adeguata. Amref Health Africa lavora nei Paesi da dove queste persone fuggono. Lavoriamo proprio per migliorare la loro condizione di salute cosi da permettere loro di rimanere nelle loro comunità. Ma sappiamo bene cosa significhi vivere in quelle situazioni. E proprio per questa ragione, con forza, specialmente oggi, ribadiamo l'importanza che l'Italia e l'Europa possano diventare un vero luogo di accoglienza. Per dare una speranza di salute a tutte quelle persone che fuggono. Non a queste 700. Queste, a causa di una politica che si è persa in parole e a volte ha girato lo sguardo dall'altra parte, non potranno essere viste e aiutate mai più".
“Occorre prendere atto che Triton è un' operazione che non serve ad affrontare l'enorme flusso migratorio che sta attraversando il Mediterraneo.- ha detto Alessandro Bechini, responsabile Programmi in Italia di Oxfam -  L'indifferenza dell' Europa, a fronte dello sforzo della Guardia Costiera italiana che ogni giorno trae in salvo centinaia di vite umane, insieme a tanti operatori del mare a cui deve andare il nostro grazie, ci lascia senza fiato. Come Oxfam chiediamo a tutti gli Stati membri dell'UE di aprire gli occhi e di trovare le risorse per mettere a punto un meccanismo di soccorso e accoglienza adeguato ad un fenomeno come quello a cui siamo di fronte. Chiediamo ai nostri parlamentari di farsi interpreti della necessità di ripristinare Mare Nostrum o di attivare azioni simili che abbiano come obiettivo quello di assicurare viaggi legali e salvare vite in mare. Migliaia di donne, bambini e uomini in fuga da guerre e fame non possono diventare solo numeri con cui aggiornare la macabra lista dei migranti che muoiono nel Mediterraneo giorno dopo giorno".
“Non possiamo più stare a guardare mentre centinaia di persone perdono la propria vita inseguendo una speranza: quella di trovare una vita migliore lontani da guerre, dittature e povertà”, ha affermato Valerio Neri Direttore Generale di Save the Children Italia, commentando le prime notizie circolate sul naufragio che sarebbe avvenuto poche ore fa e in cui, secondo quanto riportato dai media,  sarebbero morte circa 700 persone. “In base alla percentuale di minori arrivati degli ultimi sbarchi, stimiamo che ci fossero anche molti bambini e ragazzi tra di loro. Non possiamo far finta di niente: il crescente numero dei morti in mare pone, non solo all’Italia, ma a tutta l’Unione Europea e ai suoi Membri, il dovere di rispondere con un sistema di ricerca e soccorso in mare capace di far fronte a questa situazione che è destinata a peggiorare ulteriormente nei prossimi mesi. Chiediamo pertanto un vertice europeo urgente in cui si prendano decisioni concrete e immediatamente operative.”
La Comunità di Sant’Egidio esprime il suo profondo cordoglio a tutte le famiglie colpite dall’immane tragedia che si è consumata nel Canale di Sicilia, dalle prime testimonianze la più grave mai registrata, e chiede con forza un intervento immediato: se l’Europa non è all’altezza di fermare le inaccettabili stragi del mare è l’Onu che deve scendere in campo utilizzando tutti gli strumenti possibili, fino alla convocazione urgente di una riunione del consiglio di sicurezza. Siamo infatti di fronte ad un numero di vittime che assomiglia a quello di una guerra. L’operazione Triton si sta rivelando fallimentare scrive nel comunicato la Comunità di Sant’Egidio. L’Italia, che pur tra mille difficoltà ha salvato negli anni passati migliaia di vite umane con Mare Nostrum, non ce la può più fare da sola. Se l’Unione Europea non riesce ad affrontare un fenomeno che riguarda i suoi confini meridionali, è necessario che se ne occupino le Nazioni Unite, altrimenti resterà nella coscienza di tutta l’umanità la grave colpa di non avere salvato chi poteva e doveva essere salvato: famiglie che fuggono dalla guerra, come dimostrano gli ultimi arrivi registrati nei porti italiani, in gran parte eritrei e siriani che chiedono rifugio.
Occorre che tutti facciano la loro parte e che ci si agisca in tre direzioni propone la Comunità di Sant'Egidio:
1) Arrestare subito le stragi del mare con l’utilizzo di navi militari che permettano l’intercettazione dei barconi e il soccorso dei migranti anche in condizioni di mare grosso.
2) Realizzare un sistema europeo per permettere ingressi regolari e controllati, per motivi umanitari, con un costo decisamente inferiore per i profughi (che arrivano a spendere migliaia di euro) e, soprattutto,  viaggi che non comportano il rischio della vita.
3) Intensificare gli sforzi diplomatici e di mediazione per fermare le guerre che sono in gran parte all’origine del fenomeno migratorio.
Il Consiglio Italiano per i Rifugiati - CIR è sgomento di fronte all'ultima ecatombe nel Mediterraneo. Il dolore e l'indignazione sono immensi. Come è possibile che l'Europa, la terra in cui sono nati i diritti, continui ad essere indifferente di fronte a tragedie che quotidianamente inghiottono la vita di centinaia di uomini, donne e bambini? L'Europa si deve muovere al di là degli interessi nazionali, in difesa dei diritti di tutti gli uomini e di tutte le donne. Non è più possibile aspettare, questa colpevole indifferenza deve finire. "Deve essere subito convocata una riunione straordinaria del Consiglio Europeo perchè l'Unione Europea si assuma finalmente la responsabilità di dare risposte politiche e operative al dramma dei migranti e rifugiati. Deve essere immediatamente istituita un'operazione Mare Nostrum Europea per permettere una efficace opera di  ricerca e salvataggio. Secondo, deve essere rapidamente affrontato il tema della sicurezza in Libia, dove le condizioni dei migranti e rifugiati, incastrati in una guerra civile, sono drammatiche e i viaggi cui sono costretti, da trafficanti disumani, sempre più pericolosi. Infine, non ci stancheremo mai di dirlo, devono essere istituite forme alternative per entrare in modo sicuro in Europa. E' il momento che un Consiglio Europeo decida su questioni che riguardano il rispetto e l'attuazione dei valori fondamentali dell'Unione, in primis il diritto alla vita. L'immigrazione e la salvaguardia di diritti umani non sono temi che possono essere trattati solo in base alle politiche decise dai Ministri dell'Interno, che si concentrano su ordine, sicurezza e interessi nazionali. Vogliamo infine fare un appello anche al Parlamento Europeo: dove è la sua voce? Dove nella sua agenda i diritti dei rifugiati e dei migranti?" dichiara Christopher Hein direttore del CIR.
 
 
 
Al Jazeera: grazie siciliani, la vera accoglienza la fa la gente
All'indomani del più tragico naufragio del Mediterraneo, l'emittente araba fa un viaggio nell'isola porta d'Europa per i migranti. E mentre definisce lo Stato «impreparato» elogia la capacità del territorio e delle associazioni di mobilitarsi in nome della solidarietà
Vita, 20-04-2015
Gabriella Meroni 
Grazie Sicilia. E' questo il succo di un articolo che Al Jazeera dedica alla rete di solidarietà realizzata sul territorio dell'isola dall'iniziativa della gente e della società civile a favore dei migranti. Più di 170.000 persone sono arrivate sulle coste italiane lo scorso anno - si nota nel testo - e i volontari locali stanno cercando di assicurare accoglienza ai chi è in fuga da guerre, povertà e instabilità politica in Africa e Medio Oriente. L'articolo, uscito poche ore dopo la tragedia del barcone che si è rovesciato trascinando con sè 700 persone, cita in particolare AccoglieRete, un'organizzazione fondata nel 2013 a Siracusa per aiutare i minori non accompagnati che arrivano in Sicilia. «L'isola ha una lunga storia di  emigrazione a causa di problemi economici e di corruzione politica», sottolinea Al Jazeera, sottolineando come secondo i dati della Commissione europea il Pil pro capite della Sicilia sia di 16.826 euro contro una media Ue di 25.700, e il tasso di disoccupazione sia arrivato al 14 per cento, tra i più alti in Italia.
«In questi tempi difficili, tuttavia, alcuni siciliani hanno fatto un passo in avanti per senso di dovere civico e per riempire le falle di uno Stato impreparato», prosegue l'articolo, che intervista una dei fondatori di AccoglieRete, avvocato Carla Trommino, 38 anni, che ha rinunciato ai progetti di trasferirsi a Londra per occuparsi di accoglienza di minori non accompagnati (circa 4000 quelli arrivati nel 2014). AccoglieRete mette a disposizione dei giudici minorili un elenco di 120 tutori legali volontari che si affiancano ai minori non accompagnati per aiutarli ad accedere ai servii sanitari, ai documenti e in generale in tutte le procedure burocratiche necessarie. Ma non solo. I volontari di AccoglieRete promuovono un processo di inclusione sociale e integrazione anche mettendosi in gioco personalmente, ospitando i giovani migranti nelle loro case per il fine settimana e organizzando varie attività sociali. Alcuni hanno addirittura deciso di diventare genitori affidatari. "La nostra risposta a questa crisi è quella di avere un rapporto personale con i migranti", ha spiegato Trommino. I risultati, secondo quanto riportato, sono stati notevoli. Prima che iniziasse l'attività di AccoglieRete, circa il 60 per cento dei minori ospiti dei centri riusciva a far perdere le proprie tracce, oggi la percentuale è scesa al 20 per cento.
 
 
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