Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

18 novembre 2010

La rivolta della gru
il Fatto Quotidiano, 18-11-2010
Furio Colombo

E venuto il giorno della gru e ha portato una rivelazione, ai piedi della gru c'è una comunità, misera, spaventata, egoista. Si chiama Italia e in essa non c'è alcuna ragione di essere orgogliosi. È abitata da bande di truffatori che assumono gli immigrati e li fanno lavorare in nero, sfruttando tutto il margine del reato che stanno compiendo. È composta da ladri che vendono permessi di soggiorno in cambio di soldi veri e sudati. È trafficato da piccoli burocrati che, per ordini ricevuti, traccheggiano, ritardano, negano, respingono, distribuendo moduli inutili dopo attese umilianti, che durano giorni e notti. È presidiata da poliziotti disorientati che credevano di vivere e agire nei limiti dei diritti umani e civili. E invece gli hanno detto: che si impicchino, che crepino, che si buttino, a voi non importa niente. Importa bloccarli e dimostrare che neppure un solo diritto di quei rompicazzo viene rispettato in Italia. Questa sarà una lezione da ricordare. Sei giovani disperati venuti da un mondo di fame e di morte, hanno creduto di poter protestare arrampicandosi su una gru di 40 metri e restandoci, anche col freddo e la febbre, 16 giorni, per protestare contro la truffa del lavoro in nero e dei falsi permessi pagati con tutti i risparmi? Cazzi loro. O scendono o cascano. Ma ascoltarli mai. Lo ha detto il ministro dell'Interno della Lega Nord che ha preso il controllo della Repubblica nata dalla Resistenza. E così il questore, che di grane ne ha risolte tante, è tenuto immobile dal prefetto che dice: "La legge è legge", ed è vero. Era vero anche a Salò. E il prefetto, non più istituzione dello Stato e della Costituzione, ma subordinato della Lega, ha paura del ministro e delle sue paranoie in periodo ormai elettorale. E il ministro ha paura dei leghisti feroci che si presentano con la barba verde a Pontida, ma soprattutto dell'altro tipo di leghista, finto borghese e finto moderato, che ha fatto due conti: "Qui, senza i soldi di Berlusconi, non si va da nessuna parte". Il vescovo, da parte sua, è prudente. Meglio se scendono e vanno via questi della gru che disturbano la quiete di Brescia e allarmano i cittadini. C'è un limite a tutto. Ha ragione. Nonostante la disperazione e la certezza di essere espulsi, nessuno si è buttato. Ha visto come in una premonizione che, salvo gli addetti della polizia mortuaria, tutti se ne sarebbero andati finalmente a casa. Ma una rivolta è iniziata. E solo i folli non la vedono.



Una protesta pilotata Sulla gru c'erano già coperte e telefonini

Partono le indagini su chi ha fomentato la rivolta. Nuove minacce al vicequestore e ai suoi familiari
Libero, 18-11-2010
BEATRICE RASPA
BRESCIA - I quattro immigrati che per 16 giorni hanno occupato una gru del cantiere metrobus di via San Faustino a Brescia una volta a terra ironizzando hanno detto che la cabina a 35 metri era il loro albergo a cinque stelle. Comoda non lo era di sicuro, ma la casetta in quota ne conteneva di roba. Almeno a giudicare da quanto sequestrato dalla Polizia in vista del ripristino del cantiere che riaprirà lunedì.
Coperte, di cui molte inutilizzate. Sacchi a pelo. Otto telefonini.
Ricariche telefoniche. Un megafono. Due radio per stare sempre connessi con l'emittente antagonista Radio Onda d'Urto. Batterie. Una bandiera gigante vergata da decine di firme di fan («Siete grandi, siamo con voi»). Striscioni inneggianti alla sanatoria. E ancora: una telecamera e cibo non consumato. Per il questore Vincenzo Montemagno la conclusione è inevitabile: premeditazione della protesta in quota.
«È ben difficile che queste persone durante la manifestazione di sabato (30 ottobre, ndr) avessero pensato di salire e l'abbiamo fatto così. Quanto trovato lassù dimostra la non estemporaneità del gesto».
Un'arma nelle mani degli inquirenti che ora cercano i responsabili cui imputare l'accaduto. Sul caso gru, infatti, è al lavoro la Procura.
Chiamata a indagare non solo sull'occupazione abusiva del cantiere, ma anche sulla presunta preordinazione della pro testa. Non solo. Un caso nel caso è montato nel corso della vicenda. Protagonista, il vicequestore di Brescia, Emanuele Ricifari. Il funzionario, cui è toccata la gestione dell'ordine pubblico l'8 novembre, giorno dello sgombero del presidio a terra degli attivisti dell'Associazione Diritti per tutti, è diventato l'uomo più impopolare del web, bersaglio di critiche pesanti per aver ordinato a detta dei contestatori «cariche immotivate contro la folla pacifica». Ma in rete non circola solo un filmato con uno stralcio della giornata - filmato estrapolato dal contesto e altamente strumentalizzabile - ma anche minacce. Ieri per l'ennesima volta Ricifari è finito nel mirino dei contestatori, stavolta a Piacenza, dove vive con la famiglia. Alcuni studenti nel corso di una manifestazione anti-Gelmini hanno fatto tappa davanti alla scuola dei figli per insultarli. Quindi si sono spostati in Questura per riservare all'interessato lo stesso trattamento. Ma non è tutto. Pure don Mario Toffari, ufficio Migranti della Diocesi e fattivo mediatore, cui il questore aveva affidato l'incarico di occuparsi dei pasti da inviare agli immigrati sulla gru è stato duramente contestato e, pare, minacciato («La pagherà»): «I ragazzi a terra mi dissero che volevano inserire nella borsa del cibo i telefonini (che erano stati vietati, ndr, così come erano state vietate consegne dagli attivisti) e mi opposi. Io non sono né di destra né di sinistra - dice -. Per me conta la vita. E rispettare la legge». La trattativa sul cibo fece salire la tensione alle steEe. E per Umberto Gobbi, leader di Diritti per tutti, don Toffari è diventato Taffamatore di poveri". Ieri è anche iniziata la conta dei danni al cantiere. Un sopralluogo dei tecnici di Ati metrobus ha accertato che la gru è danneggiata e per ripararla serve far arrivare da fuori provincia i pezzi di ricambio. Tornerà operativa da lunedì.
Due settimane di inattività forzata, dunque. Che, dati alla mano (un giorno di fermo si stima crei un buco di 25mila euro), costerà 400mila euro. Più i costi di restyling della gru. Chi pagherà?



Un "lager" alle porte di Roma Il Cie di Ponte Galeria

l'Unità, 17-11-2010
Luciana Cimino
Un lager alle porte di Roma. Senza diritti, senza un’adeguata assistenza sanitaria, senza poter vedere parenti o legali (com’è garantito in un carcere “normale”), in sostanza: senza dignità. E’ così che vivono gli immigrati reclusi nel più grande Cie (Centro di identificazione ed espulsione) d’Italia, quello di Ponte Galeria, a due passi dalla Capitale, secondo il rapporto annuale dei Medici per i Diritti Umani, non a caso intitolato “Una storia sbagliata”.
«Il Cie di Ponte Galeria  - dice Alberto Barbieri, coordinatore dei Medici per i diritti umani (Medu), è rappresentativo dei centri di tutta Italia, è la sintesi  delle criticità riscontrabili in tutti i Cie ed è proprio la storia sbagliata di una istituzione che noi abbiamo descritto con 4 aggettivi: inumana, ingiusta, inefficiente, inutile». Inumana perché, ad esempio, è garantita solo l’assistenza sanitaria di base e persiste la mancanza di un adeguato collegamento con le strutture pubbliche esterne che si traduce in un difficile accesso alle cure specialistiche e agli approfondimenti diagnostici.
«Il diritto alla salute per i trattenuti appare dunque ancora meno garantito che in passato», scrive il Medu nel suo rapporto e cita la preoccupazione per la gestione degli psicofarmaci: prescritti eccessivamente e senza ragione per “sedare”  quelli che sono a tutti gli effetti detenuti. Sebbene il nuovo ente gestore, la cooperativa Auxilium che ha sostituito la Croce Rossa, abbia assicurato che il clima all’interno del centro sia notevolmente migliorato nel corso degli ultimi mesi, la situazione permane esplosiva come testimoniano i frequentissimi atti di autolesionismo, le proteste e le rivolte, da ultima quella di marzo 2010. Ma il Cie è anche ingiusto perché costituisce una pena aggiuntiva per ex detenuti o ex schiave della strada. Circa l’80% delle persone internate nel centro, infatti,  provengono dal carcere o sono vittime della tratta della prostituzione.
«La permanenza nel CIE viene sovente percepita da un ex-detenuto come un’ingiusta estensione della pena già scontata – commenta Barbieri - Appare, inoltre, del tutto improprio il trattenimento di donne vittime di tratta: tale struttura non è evidentemente il luogo adeguato per avviare gli opportuni percorsi di assistenza e protezione sociale a favore di persone vulnerabili». Il rapporto mette poi l’accento su una forzatura giuridica: la detenzione di cittadini rumeni, e quindi, comunitari, che sono la prima nazionalità presente nel centro. «Un numero così alto di trattenimenti di cittadini rumeni – si legge ancora nel rapporto - suscita dubbi circa possibili abusi dello strumento normativo». Limitata è poi la possibilità di «monitoraggio da parte di organizzazioni indipendenti e di esponenti della società civile, e ciò accresce la preoccupazione riguardo alle eventuali violazioni e/o all’affievolimento dei diritti fondamentali».
Il Medu, per la sua indagine, ha raccolto anche la testimonianza di alcuni migranti che sono stati trattenuti a Ponte Galeria tra il 2009 e il 2010. Per tutti è stato «peggio del carcere». Una giovane immigrata parla di «cibo scaduto, topi nei bagni, botte da parte dei poliziotti, poco rispetto per le donne, soprusi quotidiani». Ma i Cie, insistono i Medici per i Diritti Umani, dati alla mano, a fronte di una evidente vulnus ai diritti fondamentali della persona, non sono né utili, né efficienti. «Se si considera il numero di immigrati non in regola con le norme sul soggiorno presenti in Italia (560.000 secondo alcune stime), il ruolo dei Cie e del sistema di detenzione amministrativa nel contrastare l’immigrazione irregolare appare del tutto trascurabile», sono le conclusioni del rapporto che evidenzia pure come la percentuale degli espulsi sui trattenuti nei primi 9 mesi del 2010 (43%) dimostra che meno della metà degli immigrati trattenuti/transitati nel centro di Ponte Galeria viene effettivamente rimpatriata. Tale percentuale è del tutto identica a quella rilevata nello stesso periodo del 2009, quando il termine massimo di trattenimento era ancora di 60 giorni. Perché dunque prolungare il trattenimento da due a sei mesi peggiorando le condizioni di vita dei migranti?
Sulla questione è intervenuto il consigliere regionale del Lazio di Sinistra Ecologia e Libertà, Luigi Nieri, «il Cie di Ponte Galeria continua ad essere una struttura punitiva, lesiva della dignità delle persone ivi recluse. Un carcere senza regole indice di una condizione inaccettabile che va denunciata e contrastata». «Il Prefetto di Roma si è anche reso conto del problema è ha proposto di chiudere Ponte Galeria per costruire un altro Cie in una zona periferica del nord del Lazio – conclude Barbieri – noi crediamo che questo sia solo un modo per spostare il problema, che non supera le criticità di fondo, è urgente, invece, un ripensamento globale dell’istituto della detenzione amministrativa, nell’ottica di un suo superamento e dell’adozione di strategie di gestione dell’immigrazione irregolare più razionali, efficaci e rispettose dei diritti fondamentali della persona».



Diamo sussidi a 13.000 immigrati E incassa pure chi vive all’estero

il Giornale, 18-11-2010
Enza Cusmai
Ora ci diranno che siamo cinici e senza cuore. E che ce la prendiamo con la povera gente extracomunitaria. Ma in tempi di coperta corta dare a tutti non si può, specie se non è dovuto. E il caso che stiamo per raccontare, segnalato da un lettore piemontese, è reale e la dice lunga su come, ormai, gli stranieri conoscano meglio degli italiani le pieghe delle leggi previdienzali.
Prendiamo gli assegni sociali, quelli per cui non c’è obbligo di versamento di contributi: sono esentasse e si ottengono semplicemente se hai superato i 65 anni e vivi una condizione economica disagiata. Spetta di diritto agli anziani italiani, ma non solo. Vale anche per gli immigrati indigenti che hanno un permesso di soggiorno regolare e vivono in Italia. Dove sta il problema, visto che tra poveri non si deve far distinzione di razze? Nel fatto che ci sono anche i poveri- furbi. Come nel caso del marocchino segnalatoci dal lettore. L’anziano signore ha aggirato elegantemente la legge italiana in questo modo: si è fatto chiamare in Italia dal figlio che lavora da noi ed è in regola. Ha chiesto e ottenuto il ricongiungimento familiare e poi, essendo indigente, ha chiesto l’assegno sociale. Ma non si è trattenuto a lungo nel nostro paese. Una volta intascato il primo assegno, ha fatto i bagagli e se n’è tornato nel suo paesello dove, con l’assegno mensile vive da pascià. Già, perché i 411 euro mensili saranno pure una miseria per chi vive in una metropoli italiana, ma sono soldi preziosi in un paesino del Marocco.
Del resto, il titolare della pensione sociale non è neppure obbligato a presentarsi di persona a ritirare l’assegno mensile. Basta mantenere un conto corrente con delega a un parente e l'Inps continua a versare la somma pattuita. Nessuno controlla nessuno. In teoria, infatti, è il comune di residenza che dovrebbe verificare, attraverso il servizio anagrafe, se l’anziano risiede effettivamente nel luogo dichiarato. Ma quali comuni hanno la possibilità di spedire periodicamente un vigile presso l’abitazione per effettuare l’accertamento? Probabilmente nessuno, al massimo si fa il primo sopralluogo per il rilascio della residenza. E se in casa c’è un parente a testimoniare che l’interessato è fuori per lavoro...
Dunque, il giochino per il passato ha funzionato e delle 13.050 pensioni agli extracomunitari erogate dall’Inps (in testa albanesi e marocchini) chissà quante sono state elargite in modo irregolare e chissà quanti vecchi se la ridono al loro paese con i soldi che piovono dall’Italia con tanta facilità.
Se n’è reso conto anche l’Inps che sta correndo ai ripari. Da gennaio dell’anno scorso ha stabilito che per aver diritto alla pensione sociale occorre aver soggiornato legalmente e in via continuativa in Italia per almeno dieci anni (prima non c'era un limite minimo di tempo). Un passo avanti nella via della legalità e dell’eguaglianza, è il caso di dirlo, nei confronti dei nostri anziani a cui farebbero comunque comodo quei 5 milioni e rotti di euro all’anno erogati a chi non ha lavorato neppure un giorno nel nostro paese e non ha versato un euro di tasse.
Ma probabilmente non basterà. Ci vorrà solo più tempo per arrivare a mettere le mani sugli assegni. In Svizzera, dove i servizi sociali funzionano ma con i soldi non si scherza, la soluzione l’hanno trovata. Al di là delle Alpi, per riconoscere pensioni sociali o indennità di disoccupazione si deve firmare con frequenza lo stato di disoccupazione e di residenza. Di persona. Come accadeva tanto tempo fa anche in Italia, dove ogni settimana ci si doveva presentare di persona al collocamento e certificare il proprio stato. Ma erano altri tempi.



La Libia «disumana» di Gheddafi

Torture, ingiustizie, censure: Amnesty lancia l’allarme
Europa, 18-11-2010
Daniele Castellani Perelli
Dici Libia, dici Gheddafi, e in Italia è inevitabile pensare alla tenda del rais, alle “amazzoni” e alle hostess col Corano (per non dire di altre convivialità). Il folklore e la bizzarria del leader di Tripoli sono riusciti a far passare in secondo piano la situazione drammatica dei diritti umani in Libia, ai quali Amnesty International ha ora dedicato un nuovo rapporto, da cui emerge che «le riforme sono state incredibilmente lente e non all’altezza», come ha dichiarato Diana Eltahawy, specialista del Nord Africa per l’organizzazione. È vero, rispetto agli anni Ottanta, c’è un po’ più di libertà di stampa (anche se i media sono comunque tutti in mano al regime e a Saif, il figlio di Gheddafi), alcuni detenuti sono stati rilasciati, e il paese non è più isolato come un tempo. Ma le (pochissime) buone notizie finiscono qui.
In Libia «la pena di morte viene inflitta per una vasta gamma di reati», anche per «attività ascrivibili al semplice esercizio pacifico dei diritti di espressione e associazione».
Non esistono «salvaguardie contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, disumane e degradanti», e si pratica un «sistema legale parallelo, il cui fine è quello di processare persone accusate di reati “contro lo stato”». Particolarmente colpite sono due categorie: le donne e gli immigrati. Le prime sono discriminate in relazione al matrimonio, al divorzio e ai diritti d’eredità, e, incredibilmente, non possono trasmettere la cittadinanza ai figli (si è libici solo se tale è il proprio padre). La Libia non ha inoltre ratificato la Convenzione sullo status di rifugiato, e questo rende assai dura la vita agli immigrati (il cinquanta per cento dei condannati a morte, non a caso, è formato da stranieri, che sono doppiamente discriminati in quanto le dichiarazioni nei loro processi non sono tradotte nella loro lingua). E non basta: non hanno ancora un nome né le vittime né i colpevoli del massacro di Abu Salim del 1996, e il sistema giudiziario è così inaffidabile che molti detenuti vengono fatti rimanere in carcere anche dopo aver scontato la pena (una circostanza riconosciuta con un certo imbarazzo persino dal ministro della giustizia libico, e che Gheddafi giustifica con la necessità di tenere comunque lontani dalla società i «terroristi»). «Mancano trasparenza e rule of law, e nessuna manifestazione di opposizione è tollerata», aggiunge Eltahawy, e ricorda come l’adulterio sia punito con cinque anni di detenzione o cento frustate.
«Siamo ancora più preoccupati se pensiamo al ruolo di grande rilievo che ha assunto Tripoli a livello internazionale e a quanto strette si siano fatte le relazioni tra Italia e Libia», ha osservato Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty, che ieri ha presentato il rapporto alla camera dei deputati. Un luogo di grande significato, se si ricorda il voto con cui la settimana scorsa (con l’appoggio di Fli) le opposizioni hanno approvato un emendamento alla revisione del trattato di amicizia, partneriato e cooperazione tra Italia e Libia, mettendo in scacco la maggioranza. «È stato un successo, con il quale siamo riusciti finalmente a discutere dei diritti umani in Libia», ha commentato ieri il giovane deputato radicale del Pd Matteo Mecacci, autore dell’emendamento. «Nel trattato voluto dal governo non esistono meccanismi di revisione o di monitoraggio, e la maggioranza si è rifiutata di ascoltare la voce delle organizzazioni per i diritti umani», ha ricordato Mecacci. Dal canto suo, Enrico Pianetta (Pdl), presidente della commissione esteri della camera, ha lodato il lavoro di Amnesty ma ha difeso il trattato di amicizia («Ha finalmente chiuso i conti con il passato»), invocando «pazienza e gradualità».
Intanto, però, la Libia si è di nuovo rifiutata di ratificare la Convenzione di Ginevra e non permette di operare all’ufficio dell’Unchr a Tripoli.



Stop alla tratta degli esseri umani

Integrazione degli stranieri in arrivo i fondi regionali
Il Nuovo Corriere Viterbese, 18-11-2010
VITERBO - Dall'assessorato alle Politiche sociali e famiglia della Regione Lazio sono in arrivo Tre milioni di euro ner  l'immigrazione.  Si tratta di finanziare quattro progetti per combattere la tratta degli esseri umani e un programma per l'apprendimento della lingua italiana. I progetti riceveranno un contributo complessivo di circa 500mila euro. Interventi ai quali si aggiungono i 2,5 milioni di euro, di cui 240mila euro per la provincia di Viterbo, con i quali si potenzierà nel numero e nella qualità la rete dei servizi territoriali a supporto dell'integrazione dei cittadini immigrati regolarmente presenti nel nostro tessuto sociale. La ripartizione tra le province avviene sulla base dei dati statici Istat e secondo i seguenti criteri: il numero di immigrati presenti sul territorio (60%); la percentuale degli immigrati presenti sul totale della popolazione (20%) e la condizione socio economica delle aree di riferimento (indice di disoccupazione elaborato per ambito provinciale, 20%). "Questo finanziamento, a causa dell'insufficienza delle risorse trasferite dallo Stato in ambito di politiche sociali -dichiara l'assessore Aldo Forte - correva il rischio di essere cancellato. Rischio evitato grazie a una attenta politica di ridistribuzione dei fondi regionali disponi-bili. D'altronde, come testimoniato anche dall'ultimo Dossier statistico Caritas-Migrantes, il numero degli immigrati residenti nel Lazio continua ad aumentare, sfiorando quota 500mila, e la loro incidenza sul totale della popolazione ha raggiunto ormai l'8,8%, un dato superiore alla media nazionale".


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