Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Fare la guerra oggi per fermare la guerra

 

Luigi Manconi
l'Unità 25 marzo 2011
Si può rinunciare alla guerra una volta per sempre?
I dubbi intorno all’intervento militare in Libia ruotano tutti, a ben vedere, intorno a quella domanda. Ed è una domanda da prendere sul serio, senza attribuirla necessariamente a una testimonianza profetica o a una proiezione utopistica. 
E’ certo che bandire la guerra è un obiettivo da perseguire, ma con tutta la povertà e la fragilità dei mezzi  di cui gli esseri umani possono disporre. Bandire la guerra, pertanto, nella nostra concreta esperienza storica, significa  limitare il più possibile il ricorso a essa, ridurre il più possibile i suoi effetti letali, contenere il più possibile la sua micidiale potenza. In altre parole, bandire la guerra comporta, al presente, operare affinchè altri strumenti e altre strategie possano prendere progressivamente il suo posto. Si tratta, in tutta evidenza, di una prospettiva di lunga lena e di un orizzonte lontano, che implicano una serie di drammatici passaggi intermedi, dove la guerra continua a esigere di essere combattuta con la guerra. Non c’è scampo. Dunque, l’interrogativo riguarda il che fare oggi . Proprio oggi, una volta che la situazione è precipitata e  l’intervento militare ha avuto inizio. E, infatti, su che cosa si sarebbe dovuto fare ieri ( e anche solo un mese fa), è possibile trovarsi d’accordo: sostenere le forze di opposizione e, poi, gli insorti, riconoscere il Consiglio nazionale provvisorio, ricorrere a tutti gli strumenti di pressione nei confronti del regime di Gheddafi, attuare una  politica di sanzioni e  un’opera di pressione internazionale tramite il coinvolgimento di paesi arabi e africani e offrire una via d’uscita attraverso la concessione di un salvacondotto e la possibilità dell’esilio. Ma questo era valido fino a ieri. Oggi, per riproporre quella strategia, l’unica davvero saggia, è necessario il ricorso alla forza. Da questo crudele paradosso discendono i dilemmi tragici  che dobbiamo affrontare. Innanzi tutto: prima  dell’intervento militare, in Libia c’era una condizione di pace o uno stato di guerra?  La mia risposta è netta. In quel paese c’era un’ acuta  situazione bellica, sotto due diversi profili: a.  per oltre quarant’ anni ha dominato un regime familistico-dispotico; b. la rivolta contro quel regime è stata affrontata con bombe e cannoni. Dunque, lì, in Libia, non è stato l’intervento militare della coalizione a portare la guerra, la guerra c’era, e negli ultimi giorni, si era fatta sempre più cruenta. Quindi la vera domanda è: l’intervento militare è efficace rispetto al fine che intende perseguire (la cessazione della guerra mossa dal regime contro il popolo libico)? Dunque, il ragionamento non deve librarsi nel cielo della teoria e dei principi assoluti, ma deve calare nella concretezza del rapporto tra mezzi e fini. Ovvero: possiamo interrompere la guerra –quella guerra-  facendo la guerra? E gli effetti positivi di quella possibile interruzione sono maggiori degli effetti negativi della sua eventuale continuazione? Chi sostiene l’intervento militare, ritiene, molto semplicemente, proprio questo: bloccare la strage degli insorti significa operare a favore della pace più di quanto si operi per la pace attraverso il mantenimento dello status quo.  Insomma,  il rischio di un pacifismo che finisca col rafforzare i regimi dispotici, in nome di un non intervento presentato come assenza di guerra, esiste davvero. Pertanto, chi è contrario all’operazione militare deve essere in grado di proporre altri strumenti non militari: ma utilizzabili oggi ed efficaci oggi.  In caso contrario il rifiuto della guerra equivale a contribuire  alla capacità del regime di massacrare gli oppositori. In altre, e brutali, parole: i morti “risparmiati”, grazie al mancato intervento militare, verrebbero “compensati” dai morti prodotti  dalle milizie di Gheddafi. Questa macabra contabilità non può essere ignorata, al solo fine  di salvarsi l’anima. Nessuno, infatti, può chiamarsi innocente e  la corresponsabilità  per i morti dovuti alla guerra non è più onerosa della corresponsabilità  nel mancato soccorso, alle vittime, con qualunque mezzo. In sostanza, quando è troppo tardi per ricorrere a un repertorio di azione esclusivamente politico-diplomatica, si presentano   due opzioni, entrambe fonti di lutti. E l’una, quella del non intervento, non è “utopistica” e “nobile” e “ radicale”, mentre  l’altra sarebbe tutta pragmatica e realistica. Anche la prima può risultare solo l’esito di un interesse piccino: quello di mantenere le mani pulite e  coltivare l’infantile superbia di potersi sottrarre a qualunque vincolo e a qualunque condizionamento. E poter scegliere  in assoluta libertà: ma rischia di essere  la libertà di chi guarda da lontano e può permettersi il lusso di non cedere al ricatto. Si dice: né con Gheddafi né con la guerra. Ma si dimentica che  c’è qualcun altro, e non ha voce. Gli insorti, appunto.
 
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