Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

28 novembre 2011

Da rivoluzionario in Tunisia a clandestino dimenticato in un Cie
l'Unità, 26-11-2011    
Piove dentro, siamo tutti bagnati, senza scarpe e infreddoliti». Sono le parole di uno degli «ospiti» del Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria; parole che a stento escono da quelle mura. Qualche giorno fa, a quelle stesse parole sono seguite azioni di rivolta che, nonostante la determinazione con cui venivano compiute, non hanno prodotto l’effetto sperato: ovvero migliori condizioni di soggiorno all’interno della struttura. Uno dei 110 uomini reclusi nel Cie è un giovane di 27 anni che negli ultimi mesi in Italia ha lavorato presso i comitati elettorali, creati per sostenere la formazione dell’Assemblea Costituente del suo paese, la Tunisia. Il percorso che lo ha portato alla reclusione è ha a che vedere con l’assenza di un valido permesso di soggiorno. Nonostante la sua militanza per la ricostruzione della Tunisia non ha ricevuto alcun supporto dai cinque consolati del suo paese in Italia. E così, in un albergo romano, all’alba di un giorno di qualche settimana fa, viene prelevato da due poliziotti e portato prima in una Questura di zona e poi in quella centrale. Da qui, il passaggio a Ponte Galeria si è svolto in un attimo. Un lasso di tempo talmente breve da non permettere allo spaventato giovane di avvertire il proprio avvocato. «Non c’è tempo» gli è stato detto, perché quella telefonata poteva farsi solo all’arrivo in quel luogo dove di tempo ce n’è fin troppo. Lo stesso meccanismo frettoloso l’ha condotto davanti al giudice di Pace per la convalida del trattenimento ancora senza il suo avvocato. E infine ieri, gli è stato chiesto di prepararsi, stava per essere trasferito. Dove? Non c’era tempo di spiegare. La sua conoscenza delle leggi italiane, però, gli ha permesso di imporsi su quella decisione e ora è ancora lì, ad aspettare.



Brindisi: barca con 60 immigrati ribaltata, 3 le vittime finora
Una barca a vela con a bordo una sessantina di migranti si è ribaltata a nord di Brindisi. Tre i corpi recuperati finora, ma secondo diverse testimonianze sarebbero una decina i corpi avvistati in acqua.
AgoraVox, 28-11-2011
L'incidente, dovuto probabilmente alle condizioni del mare, è avvenuto nei pressi di Carovigno. E' stato un abitante del paese a dare l'allarme, i soccorritori al loro arrivo hanno trovato diversi immigrati in mare e altri che erano riusciti a raggiungere la costa.
Le operazioni di soccorso sono ostacolate dal mare forza 5. Per fronteggiare l'emergenza immigrati, l'Unione Europea non ha fatto abbastanza, non basta dare i soldi e nemmeno chiederli soltanto. Servono anche risorse umane e buone pratiche.
Così Cecilia Wikstrom, Presidente della delegazione del Parlamento europeo per la libertà e la giustizia, ha concluso del giro nei centri per immigrati in Sicilia.
Spiega che accanto ad esperienze difficili ma dotate di ottime strutture, ve ne sono altre molto precarie.
Poi la proposta di un progetto Ue comune basato su solidarietà e cooperazione.
Su Lampedusa linea condivisa, torni a essere l'avamposto per l'accoglienza di chi fugge da guerra e povertà.
Ma tutti ripetono la stessa cosa da tempo, che se andassimo noi italiani come immigrati nei loro paesi a chiedere aiuto, non ci farebbero nemmeno scendere dall'imbarcazione.



FERMATE LA STRAGE DEI DISPERATI
VINCENZO CERAMI
IL Gazzettino, 28-11-2011
Gli sbarchi degli immigrate, con il loro carico di tragedie e di morti, sembrano non finire mai.
Ancora non si è trovato il modo di impedirli e un Paese civile come l'Italia deve cercare una soluzione nella legalità, nella democrazia e con un sacro sentimento di carità. Gli sforzi vanno fatti sia nella direzione della salvaguardia dei diritti umani, sia nel rigore quando si tratta di applicare la legge. Bisogna scoraggiare e non reprimere con la forza i flussi migratori. Fino ad oggi si è visto che a poco servono gli accordi con gli Stati africani. L'Europa resta un'attrattiva malgrado la crisi economica e forse anche grazie a questa, perché gli immigrati si rendono conto che qualche punto di Pil il vecchio continente lo guadagna in virtù della loro manodopera. Ormai è un fatto che nel tessuto sociale italiano, come è avvenuto in passato in altre nazioni europee, si è innescato un processo naturale e irreversibile di integrazione etnica.
Durante tutti gli anni in cui si è tentato di regolare il processo immigratorio, questo non si è mai fermato. La prima generazione di extracomunitari ne ha generata una seconda, nata nel nostro Paese. Si tratta di giovani e giovanissimi che frequentano le nostre case o lavorano nelle nostre aziende. Vedono la nostra televisione, i nostri paesaggi, parlano la nostra lingua, e studiano nelle nostre scuole. Sono italiani come tutti coloro che nascono qui, solo che appartengono a una diversa etnia. La democrazia, per statuto, non tiene conto delle etnie ma delle cittadinanze. Altrimenti sarebbe razzista e quindi non più democrazia. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in quanto tutore delle istituzioni democrati- che, con un atto dovuto, si è rivolto alla politica perché sia riconosciuta la nazionalità italiana a chiunque nasca nel nostro territorio, e ci viva.
È questa l'occasione «culturale» per affrontare definitivamente la situazione con un nuovo vocabolario: non più, quindi, figli diversi dagli italiani, ma italiani diversi, con tutto il rispetto che si deve a ogni diversité. Senza contare che l'incontro tra realtà spirituali e culturali lontane tra loro ha sempre e ovunque prodotto solo benefici.
Prima si pareggiano i diritti tra i vecchi e i nuovi italiani, facendo piazza pulita dei pregiudizi, prima si stabilirà nella popolazione un clima profondo di fiducia. La sicurezza e la salute civile si otterranno con solidità dal momento in cui a tutti gli italiani, al di là délia loro provenienza, verranno riconosciuti gli stessi diritti e richiesti gli stessi doveri. Tutto questo, però, non deve esimerci dall'escogitare un rimedio efficace affinché non ci scappi di mano il fenomeno dell'immigrazione selvaggia, nella quale s'infiltrano persone sgradite e pericolose. Alla severità dei controlli e dei rímpatri obbligatori, deve corrispondere un trattamento umano delle persone innocenti e sfortunate. La grande maggioranza degli extracomunitari che oggi vive e lavora con noi è onesta e rispettosa delle leggi. Ci dà una mano a tirare avanti, assumendosi spesso le incom- benze piü umili. I loro figli nati in Italia, per mérito proprio dei genitori hanno diritto di essere italiani e non apolidi ed eternamente espatriati.



I baby naufraghi: ora fateci giocare
Decine di afghani sulla barca. Anche tre fratellini: il più piccolo ha 10 anni
Corriere della Sera, 28-11-2011
Giusi Fasano
BRINDISI — Norollah ha 11 anni e un fratellino di 10 che non lo molla nemmeno un momento. Più che annotare nel verbale quel che dicono, viene voglia di abbracciarli mentre chiedono «adesso possiamo giocare un po'?». Raccontano dei «cattivi» (gli scafisti) che stavano «di sopra e ci dicevano di stare giù e non muoverci», si rivedono a battere i denti nell'acqua gelida. La loro casa, i loro amici, gli occhi della madre, sono ricordi di un paio di mesi fa. Un giorno si sono presi per mano e assieme al fratello più grande hanno salutato tutto e tutti. Addio Afghanistan. Basta. Si va in cerca di fortuna in un altro mondo. Destinazione: una città europea da raggiungere passando per la Turchia, poi la Grecia, poi l'Italia del sud, poi...
Il viaggio di Norollah e dei suoi fratelli per adesso è fermo qui, a Brindisi, in quell'«Italia del sud» che doveva essere soltanto un punto di transito. Doveva. Se la barca a vela «Gloria» non fosse naufragata, se i suoi 15 metri di scafo non si fossero incagliati fra le scogliere di Carovigno, e se non fossero morti in tre annaspando fra le onde.
Sono il gruppo più numeroso, gli afghani. E anche i più piccoli. Ragazzini che hanno in media 16-17 anni (il più grande ne ha 23) e vengono da Ghazni, Besud, Mazar, Elman, Herat. Sono tanto piccoli da giocare a rincorrersi nel Centro per i richiedenti asilo di Restinco (a Brindisi) ma anche tanto grandi da trovare il coraggio di aiutare gli altri quando erano già in acqua, inzuppati e spaventati, al buio, imprigionati come tonni in una «rete» di sassi aguzzi. Norollah e il suo fratellino adesso sono in una casa famiglia di Mesagne mentre il grande (è maggiorenne) è rimasto a Restinco. Per i piccoli sarà automatico rimanere in Italia fino ai 18 anni perché nel nostro Paese non è consentita l'espulsione di minorenni, per il terzo fratello invece sarà valutata la richiesta di asilo e proprio i due bambini dovrebbero garantirgli quantomeno una buona probabilità che venga accolta. Una storia tutto sommato a lieto fine, la loro, anche se il lieto fine non esiste davanti alle lacrime di chi (sempre afghano) ha riconosciuto l'amico in uno dei tre cadaveri ripescati dopo il naufragio.
«È gente molto provata che si sente felice anche solo davanti a una tuta pulita, un pacchetto di sigarette o una scheda telefonica» racconta l'assessore regionale all'immigrazione Nicola Frantoianni (Sinistra e libertà), il solo politico che ieri è riuscito a vedere di persona i naufraghi ospitati a Restinco. Marcello Notaro capo sevizio operazioni della Guardia Costiera di Brindisi, li ha sentiti ad uno ad uno raccontare la stessa storia: la speranza, i 3.300 euro per gli scafisti, le tappe... Uno di loro gli è rimasto in mente più di altri perché lo ha visto «abbassare la testa e piangere, disperato».
Su quella barca a vela sabato sera erano una settantina, giurano tutti. 41 i sopravvissuti finora identificati: 29 afghani, 10 del Bangladesh, 2 iraniani. Se a questo numero si aggiungono i tre morti e i due ricoverati in ospedale a Ostuni si arriva a 46 identificati. E gli altri? I superstiti raccontano che hanno viaggiato con loro anche una decina di curdi dei quali non c'è traccia da nessuna parte. «Erano dei privilegiati», dicono, «stavano di sopra con gli scafisti che erano in due più un ragazzo che li aiutava e quando abbiamo urtato gli scogli sono saltati tutti nell'acqua per primi, comodi, mentre noi lì sotto siamo dovuti uscire dagli oblò». Se i sopravvissuti hanno ragione il conto cresce di dieci curdi, due scafisti e un aiutante. In tutto 59 persone. Quindi, sempre che siano davvero partiti in settanta, sarebbero più o meno altri dieci i dispersi, probabilmente fuggiti piuttosto che vittime del mare, stando alle ricerche senza esito di ieri nelle acque davanti a Carovigno. Un uomo italiano ha visto i primi due fuggiaschi, forse proprio gli scafisti, allontanarsi verso le campagne. In questura sono ottimisti («forse riusciamo a individuarli») ma di tutto questo a Norollah e al fratellino non importa proprio nulla. «Qui è bello» si sono convinti. Il mondo nuovo è davanti ai loro occhi. L'Afghanistan è sullo sfondo, lontanissimo.



Adri
atico, la tomba dimenticata che continua a inghiottire vite
Negli Anni 90 lo attraversavano gli albanesi, ora è la rotta di afghani e iracheni

La Stampa, 28-11-2011

Carovigno, Brindisi. Naufragio di immigrati corpi che riaffiorano, decine i dispersi. Un salto indietro nel tempo. Marzo 1997. Gli albanesi, decine di migliaia, si stanno trasferendo in Puglia. Era già accaduto nel 1991, quando gli albanesi scoprirono «lamerica», l'Italia. Dunquë, nel marzo del 1997 arrivano con ogni mezzo, anche con quella che veniva definita la flotta navale della Marina albanese. Erano saltate le frontiere terrestri. Da Valona come da Saranda, da Tropoje a Durazzo a Scutari si sparava all'impazzata. Crisi delle piramidi, una truffa economica colossale che provoco una insurrezione popolare contro il governo.
Fuori dal porto di Brindisi, imbarcazioni stipate all'inverosimile di disperati. Quasi sulla scogliera una si rovescia. Le motovedette della Guardia Costiera e délia Finanza fanno la spola tra l'imbarcazione e la riva. Vengono salvati i passeggeri. Nessuna vittima.
Una decina di giorni dopo. E' il 28 marzo 1997, Venerdì Santo, a poche miglia fuori da Brindisi, il «Kater I Rades», un peschereccio malandato viene speronato da una nave militare italiana, «Sibilla», nel tentativo di respingerlo in mare. A bordo 120 disperati. Onde alte, il comandante della «Sibilla», il capitano di corvetta Fabrizio Laudadio, non riesce a governare la nave che con una manovra troppo spericolata alla fine fa colare a picco l'imbarcazione albanese. Decine le vittime. Grazie all'inchiesta della Procura di Brindisi la nave, adagiata sul fondo marino con il suo carico di cadaveri, viene fatta riemergere con un'operazione fantascientifica di recupero. Le vittime saranno 108.
Là Puglia in quel decennio, gli anni Novanta, ha vissuto una stagione indimenticabile di sbarchi albanesi. E quello specchio di mare si è trasformato in un cimitero, con decine di naufragi. Per nulla «clandestini», come non lo sono mai stati i disperati che dalla Libia hanno cercato di raggiungere Lampedusa, in questi Ultimi anni. Arrivati, tutti, quando il mare li ha risparmiati, alla luce del sole.    ,
Esaurito il Fronte Est, la Puglia, si è aperto il Fronte Sud, la Sicilia e le sue isole, scelte come stazione di transito di quei flussi Nord e Centroafricani diretti in Europa. E contemporaneamente anche in Calabria si è aperto il fronte turco-greco, con gli arrivi dall'Afghanistan e dal Kurdistan iracheno.
In vent'anni centinaia di naufragi con migliaia di vittime. Numeri, drammaticamente solo numeri, buoni per le statistiche. Eppure quelle tragedie più di ogni altro discorso o statistica raccontano di quel fiume carsico dell'immigrazione con le sue rotte. Sono due anni ormai che dalla Turchia e dalla Grecia sbarcano in Puglia gliimmigrati a bordo di barche a vela. Il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, cita a memoria i numeri: «Dal giugno del 2010 al settembre 2011, 2.000 arrivi con 55 sbarchi. Sono stati arrestati 34 scafisti e sequestrati 12 velieri, due motor yatch e 4 gommoni».
Non sono numeri preoccupante dal punto di vista delle quantità, ma una spia della pressione che si sta di nuovo determinando dal fronte greco, che poi è interno alla Unione Europea, alle frontiere di Schengen. Anzi, rappresentano la nascita di una seconda rotta grecoturca. Il fronte albanese, si è esaurito nel 2002-2003. Nel 2010 si è aperto quello greco e turco. Due linee sovrapposte, in realtà. Dalla Turchia gli immigrati salpano a bordo di velieri (5 giorni di navigazione, in media), dalla Grecia, su gommoni.
Sia dalla Grecia che dalla Turchia partono gli immigrati arrivati dall'Afghanistan o dall'Iraq. Sono profughi, rifugiati, disperati in realtà, che tentano di raggiungere soprattutto il Centro Europa. Punta di un iceberg, gli sbarchi in Puglia a bordo di barche a vela, di una rotta, l'Adriatico, in realtà non è mai stata abbandonata in questi anni.
Ed è questa la nóvità che fa riflettere gli esperti di flussi migratori. In questi anni, e le statistiche della Polizia di frontiera lo confermano, migliaia di curdi iracheni, di afghani hanno attraversato l'Adriatico nascosti nei doppifondi dei Tir, nei container. Migliaia di «invisibili» diretti in Germania o nell'Europa dei Nord. E molti sono anche morti schiacciati o asfissiati.
Il naufragio di Brindisi, i morti e i dispersi rappresentano un campanello d'allarme. Perché il sospetto è che i due mercati paralleli di «carne umana» stanno vivendo un periodo di crescita.
Le varie mafie etniche, di certo quella turca che sta dietro al traffico di immigrazione clandestina, non conoscono la crisi. I Tir e i gommoni greci, i velieri turchi rappresentano una nuova modalità di trasferimento di uomini, donne e bambini. Un pizzico di modernità rispetto alle zattere, ai pescherecci, alle barche di ieri.
Ma è sempre la vecchia e tragica storia di trafficanti senza scrupoli e di poveri disperati che mettono in conto anche la morte pur di arrivare in Europa. E se devono sbarcare in Puglia o a Lampedusa poco importa.



CEI Migrantes su tragedia Brindisi: aumentare quote ingressi immigrati
Sul naufragio degli immigrati sulle coste di Brindisi interviene anche il direttore generale della Fondazione Migrantes (CEI), monsignor Giancarlo Perego, che auspica si rileggano "la modalità con cui entrano gli stranieri in Italia e in altri Paesi in Europa".
Mainfatti, 28-11-2011
Jessica Montani
Sulla tragedia avvenuta sulle coste di Brindisi, nei pressi di Carovigno, dove una barca a vela che trasportava una 70ina di immigrati si è incagliata tra gli scogli della costa a Torre Santa Sabina, causando la morte di 3 persone (leggi http://is.gd/JeAHnj) è intervenuto anche monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, organismo della CEI (Conferenza Episcopale Italiana), nata tra le altre cose anche per assicurare l'assistenza religiosa ai migranti, italiani e stranieri. Monsignor Giancarlo Perego, intervistato da Radio Vaticana (http://is.gd/JUAlGV), riflette su cosa la politica dovrebbe fare per evitare di assistere a nuovi arrivi che si risolvono in situazioni drammatiche come quella accaduta in Puglia. In primo luogo, bisognerebbe "lavorare maggiormente per creare dei canali protetti, soprattutto in questa stagione, con la situazione del mare che non sempre è favorevole" spiega il direttore generale della Fondazione Migrantes, mentre un secondo obiettivo sarebbe quello della "cooperazione internazionale" che "in questi ultimi anni - riflette ancora monsignor Giancarlo Perego - da parte di tutti gli Stati europei e non solo, anche alla luce della crisi, si era praticamente azzerata o quasi". In ultima analisi, ma non meno importante, il direttore della Fondazione Migrantes auspica che si possa arrivare anche a "rileggere la modalità con cui entrano gli stranieri in Italia e in altri Paesi in Europa, per dare quote maggiori soprattutto ad alcuni Paesi che in questo momento sono al di là del Mediterraneo e vivono la drammatica situazione di rivoluzioni e di instabilità".



Se gli immigrati "fanno impresa" e assumono lavoratori italiani
Uno studio commissionato dal Cnel fotografa la realtà del migrante imprenditore: la maggiore concentrazione è al Nord (il record in provincia di Prato) la minore al Sud. Hanno in media 4.7 dipendenti e sono ottimisti sulla fuoriuscita dalla crisi
la Repubblica, 28-11-2011
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Kahinda ha fiutato il business del riciclo e ci si è tuffata: all'inizio di quest'anno ha fondato a Roma la Barazavenir, società di distribuzione e vendita di prodotti italiani di seconda mano. Kahinda Katirisa è nata in Congo nel 1965 ed è arrivata in Italia come rifugiata politica nel '97. Oggi la sua azienda raccoglie apparecchi informatici dismessi, abbigliamento, oggetti hi-tech usati e li rivende all'estero. Il suo principale mercato? L'Africa Subsahariana, in particolare il Congo. Come Kahinda tanti sono i migranti che oggi "fanno impresa". Perché non sempre gli stranieri tolgono lavoro agli italiani, talvolta lo danno. E la media è alta: un assunto italiano ogni due imprese di immigrati attive.
Resistenti alla crisi. A tracciare l'identikit dell'imprenditore straniero è una lunga ricerca, che il Cnel presenta oggi a Roma. Cosa emerge? Innanzitutto che la resistenza delle piccole imprese allo shock della crisi economica si deve "alla progressiva sostituzione di imprenditori autoctoni con imprenditori immigrati". La maggiore concentrazione è al Nord e nelle aree dei distretti industriali. Più nel dettaglio: il peso dei titolari di azienda stranieri raggiunge il suo record in provincia di Prato (dove sono il 27,16% del totale) e il suo minimo in provincia di Taranto (2,97%). "Nelle regioni più ricche del Nord  -  spiega il responsabile nazionale della ricerca, Antonio Maria Chiesi dell'università
di Milano  -  imprese straniere e italiane sono spesso complementari, al Sud è invece più facile trovare situazioni di diretta concorrenza e perfino di tensione".
Imprenditore straniero, dipendente italiano. Ma qual è il profilo dell'imprenditore straniero? Ha studiato nel Paese di origine, è emigrato in Italia a 24 anni, ha lavorato dapprima come dipendente, ha avviato l'attività imprenditoriale a 33 anni. Il 77% ha fondato da sé l'azienda, il 21% l'ha rilevata, il 2% l'ha ereditata. Nell'esercito degli imprenditori stranieri  -  stando alla Fondazione Leone Moressa nel nostro Paese sono ben 628mila (tra titolari d'impresa, soci e amministratori)  -  va fatta però una distinzione: in base al campione intervistato dal Cnel il 35,5% è un lavoratore autonomo, senza alcun dipendente e il 64,5% è titolare di impresa con un occupazione media (tra dipendenti e collaborazioni) di 4,7 addetti. "Chi sta resistendo meglio alla crisi  -  precisa Chiesi  -  sono queste imprese con dipendenti e non i lavoratori autonomi stranieri solitamente legati a mono-committenze, cioè a un cliente o poco più".  E sono le imprese a dare lavoro, non solo agli stranieri. Nel 13% dei casi gli imprenditori immigrati si giovano infatti di dipendenti italiani: "La media generale è un posto di lavoro per italiani ogni due imprenditori stranieri".
Il ruolo centrale della famiglia. Ben il 58% degli imprenditori immigrati dichiara di avere un parente a sua volta titolare d'impresa, nel 19% dei casi familiari o parenti hanno contribuito a fornire il capitale iniziale. Il 38% usa regolarmente la posta elettronica, il 15% ha un sito internet, il 19% investe nella pubblicità. A distinguerli dai colleghi italiani è soprattutto il minor peso dato al problema del capitale iniziale. "Questo  -  si legge nella ricerca  -  dipende dal fatto che le loro attività non richiedono un'elevata dotazione di capitale e che alta è la capacità di autofinanziamento, resa possibile da un periodo lungo di occupazione come dipendente. In questo modo il 66,8% non ha avuto bisogno di capitali di terzi e un 10,6% coinvolge familiari e parenti nel rischio di impresa".
Forte integrazione economica. Il 66,5% ha clienti italiani e il 77,3% si rivolge a ditte fornitrici italiane. Ma se nel comparto della meccanica e dei trasporti il legame con fornitori italiani è elevatissimo, "si riduce sensibilmente nell'abbigliamento che rispecchia l'organizzazione 'cinese' della filiera". E ancora: il 65% lascia gestire la propria contabilità a consulenti italiani. Pur essendo dunque coinvolto con partner italiani, il 16% degli imprenditori mantiene stretti rapporti d'affari col Paese d'origine. Il 14% ha la cittadinanza italiana, il 4,5% vive con un partner di nazionalità italiana. Le richieste più diffuse? Il diritto di voto e la possibilità di fruire del trattamento pensionistico tornando a vivere nel Paese di origine.
La lingua? È importante, ma non per tutti. La conoscenza delle lingue, soprattutto dell'italiano, rappresenta un aspetto importante del bagaglio culturale per la maggioranza degli imprenditori immigrati, ma non mancano eccezioni. Nella realtà imprenditoriale cinese di Prato emerge la possibilità di esercitare l'attività imprenditoriale senza bisogno di sapere l'italiano, attraverso una serie di collaborazioni e di assunzioni di personale autoctono.
Ottimisti nonostante la crisi. Metà degli imprenditori stranieri è "abbastanza ottimista", poiché ritiene che la propria azienda uscirà rafforzata dalla crisi. I più ottimisti? I commercianti d'abbigliamento e gli edili. I più pessimisti? Senza dubbio i metalmeccanici. Un imprenditore su quattro, infine, vorrebbe che i figli proseguissero l'attività, mentre oltre i due terzi vorrebbero che i figli trovassero un lavoro diverso e solo il 3% vorrebbe che tornassero in patria.
 


Italiani all'estero e immigrazione una ricchezza per il Paese
L’Italia, come il resto delle nazioni dal nord al sud del globo, vive una crisi economica dalle proporzioni preoccupanti. Ora, a tutti è chiesto un sacrificio. Ed è giusto che sia così. Ma deve essere un sacrificio equo. Chi vive all’estero non chiede altro'
Itali chiama Italia, 28-11-2011
Mauro Bafile
"Due paesi. Due Italie. Il presidente Napolitano, con il suo autorevole intervento, ha messo il dito nella piaga. E fatto notare quanto assurdo sia che chi nasce in Italia non abbia diritto alla cittadinanza. Eppure è così. Tale è il caso dei figli degli immigrati. Una ingiustizia giuridica alla quale il capo dello Stato ha chiesto  di porre rimedio". Così scrive Mauro Bafile, direttore de "La Voce", quotidiano italiano edito a Caracas, Venezuela.
"Il presidente Napolitano, trasformandosi nella coscienza del Paese, ha semplicemente messo in evidenza il problema che riguarda tanti giovani, che, sebbene formalmente continuino ad essere stranieri a seguito della normativa vigente, siano di fatto cittadini italiani “nella vita quotidiana, nei sentimenti, nella percezione della propria identità”. E, nella sua ampiezza di vedute, ha rivendicato anche l’importanza del legame che i giovani figli di immigrati hanno con la cultura di origine. Insomma, nel fondo, non ha fatto altro che riconoscere quanto significativo sia, per un paese, il processo d’integrazione e quanto possa diventare negativo, invece, quello di assimilazione. Il capo dello Stato, poi, ha sottolineato che “l’importante è che vogliano vivere in Italia, e contribuire al benessere collettivo condividendo lingua, valori, doveri civici di leggi del nostro Paese”.
Le autorevoli parole del Capo dello Stato hanno ricevuto il plauso delle correnti progressiste della nazione, di quella parte dell’Italia che guarda al futuro e che è cosciente che l’immigrazione non rappresenti un pericolo ma costituisca una ricchezza. Una ricchezza economica, certamente – secondo il “Rapporto Annuale dell’Economia dell’Immigrazione”, sono  due milioni i lavoratori immigranti, notificano al fisco 40 milioni di euro e pagano l’Irpef per quasi 6 milioni -.
Ma soprattutto, culturale e sociale.
D’altro canto, non poteva mancare la nota dissonante: la condanna alle parole responsabili del Capo dello Stato e l’allarme, con toni inquietanti, sulla minaccia che rappresenta  l’immigrante – considerato alla pari di pericolosi criminali – e sui rischi che correrebbero  i “veri italiani” qualora fosse dato ascolto all’appello del Presidente della Repubblica. Sono quei settori che ignorano un capitolo della storia italiana: quella della nostra emigrazione. Che fanno finta di non sapere che all’inizio del secolo scorso e nell’immediato dopoguerra – a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 – anche l’Italia era una terra da cui partivano migliaia di persone che sarebbero state immigrati in altre nazioni. E che i nostri pionieri in Svizzera, in Austria, in Belgio, in Germania e anche negli Stati Uniti erano considerati men che niente: cittadini di “serie B” ai quali poteva essere negato l’accesso ai ristoranti, così come si fa con gli animali. Ancora oggi, e chiediamo al Presidente Napolitano di tenerne conto, tra i nostri connazionali esistono storture in tema di cittadinanza. Basta ricordare la norma che permette agli italiani che hanno riacquistato la cittadinanza di trasmetterla unicamente ai figli minorenni senza tener conto della centralità del nucleo familiare.
In quest’altra Italia, tanto distante da quella che rappresenta con sobria dignità il Presidente Napolitano, emergono i nomi di Umberto Bossi, Roberto Castelli, Roberto Maroni, Roberto Calderoli ed anche Mario Borghezio, solo per citarne alcuni. Per loro, l’Italia nata dal nostro risorgimento, dai moti rivoluzionari che scossero il paese dal nord al sud; quella che si riconosce nel tricolore e nei valori intrinsechi della Costituzione, non merita alcun rispetto. Non esiste. Loro rappresentano l’espressione più reazionaria e xenofoba; quella esigua pattuglia di fanatici, numericamente sempre meno importante, che cambiano vagone del treno infastiditi, quando in esso viaggia un meridionale. O ha parole di disprezzo e gesti di insofferenza quando in autobus incappa in un immigrante.
Dopo aver assistito alla reazione rabbiosa alle parole sagge e ponderate del Capo dello Stato, dopo aver ascoltato la promessa di costruire “barricate” in Parlamento per evitare che ai figli di immigrati in Italia si possa riconoscere il diritto di cittadinanza; non può più meravigliare se, per noi Collettività all’estero, gli ultimi vent’anni siano stati tra i peggiori della nostra storia. E siano stati caratterizzati da tanto disinteresse, tanta demagogia e tanta ingiustizia. D’altronde, è impossibile capire la nostra realtà, quella di milioni di italiani e figli d’italiani all’estero, se non si ha la capacità, se  si è carenti della sensibilità necessaria per comprendere il fenomeno dell’immigrazione. Come valorizzare l’immensa ricchezza che ha l’Italia nel mondo, se si disprezza il tesoro che ha in Patria?
Lo sappiamo, ne siamo coscienti. L’Italia, come il resto delle nazioni dal nord al sud del globo, vive una crisi economica dalle proporzioni preoccupanti. Ora, a tutti è chiesto un sacrificio. Ed è giusto che sia così. Ma deve essere un sacrificio equo. Chi vive all’estero non chiede altro.
L’Italia ha finalmente voltato pagina. L’autorevolezza del presidente del Consiglio, Mario Monti, ha già imposto ai partner europei un approccio diverso. Il nostro paese è tornato a sedere nel tavolo delle nazioni che contano; ad occupare il posto che gli spetta di diritto. E noi all’estero, ora, avremo un motivo in meno d’imbarazzo. Non è tutto. Le origini del premier – il nonno, Giovanni Monti, emigrò in Argentina nel 1888 – fanno sperare in un contatto diverso con la nostra realtà. E’ ció che si desidera. Si nutre la speranza che quella fetta dell’Italia che rappresenta il presidente Napolitano, con la sua saggezza ed il suo prestigio, e che oggi è al governo sappia comprendere l’importanza delle nostre comunità all’estero, e dell’immigrazione in Patria, e restituire loro il ruolo che gli spetta di diritto nella società. In fondo, ció che si desidera è semplicemente questo: che si comprenda che immigrazione ed emigrazione sono una ricchezza per il Paese".



Poco lavoro, verso lo stop del decreto flussi
Corriere della Sera, 28-11-2011
ROMA — Accogliere più immigrati. Questa è la strada indicata dalla Cei per scongiurare altri tragici naufragi di barconi sulle coste italiane. La voce dei vescovi italiani è quella di monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della fondazione Migrantes, che parlando a Radio Vaticana, chiede maggiori possibilità di ingressi legali.
Proprio mentre il governo, invece, annuncia un probabile stop ai flussi almeno per il 2012.
«Occorre rivedere le quote in Italia e in Europa», spiega monsignor Perego. «In particolare dai paesi mediterranei che vivono rivolte e instabilità. Diversamente potremmo assistere a nuovi arrivi che si risolvono in situazioni drammatiche, come è accaduto l'altro giorno in Puglia». Non solo. Secondo la Chiesa sarebbe opportuno anche istituire canali protetti per gli arrivi via mare e avviare una maggiore cooperazione internazionale.
Sulla carta però un intervento governativo pare escluso, per ora. I lavoratori extracomunitari sono già in esubero. «C'è troppa disoccupazione, anche tra gli immigrati, inutile farne arrivare altri» dice Natale Forlani, direttore generale dell'Immigrazione al ministero del Lavoro (intervento sul sito www.stranieriinitalia.it). «Escludo che quest'anno possa esserci un decreto flussi».
Nel 2011 fu dato il via libera all'arrivo di 98 mila lavoratori. La crisi economica però ha ridotto le possibilità di impiego. «Ci sono già 280 mila immigrati disoccupati, la metà dei quali percepisce forme di sostegno al reddito» argomenta Forlani. Bisogna prima dare a queste persone la possibilità di ritrovare un lavoro, altrimenti, scaduto il permesso di soggiorno, diventeranno irregolari».
L'indicazione è stata formulata da uno specifico comitato interministeriale che ha sconsigliato un nuovo decreto. «Il nostro comunque è un parere tecnico», precisa il funzionario del ministero del Lavoro. La decisione finale spetta al presidente del Consiglio e al governo «che potrebbe fare considerazioni politiche diverse». Restano esclusi dall'eventuale stop i lavoratori stagionali per cui le frontiere resteranno aperte.
G. Ca.



Immigrazione, per il 2012 stop al "decreto flussi"  
Il direttore generale del dicastero del Welfare, Natale Forlani, giustifica il parere tecnico espresso con la situazione di crisi che vive l'Italia. "Ci sono già 280 mila immigrati disoccupati, non possiamo sostenerne altri"
la Repubblica, 27-11-2011
ROMA - Quasi 100mila ingressi in Italia 1quest'anno per i lavoratori extracomunitari; ma per l'anno prossimo si rischia uno stop, a causa delle conseguenze della crisi economica sul mercato del lavoro. "Troppa disoccupazione, anche tra gli immigrati. Inutile far arrivare dall'estero altri lavoratori" 2, ha dichiarato Natale Forlani, direttore generale dell'Immigrazione al ministero del Lavoro, al sito Stranieriinitalia.it. "Escludo che quest'anno possa esserci un decreto flussi".
L'ingresso in Italia per ragioni di lavoro degli stranieri che non appartengono ai Paesi dell'Unione europea  è possibile solo nell'ambito delle quote di ingresso annualmente stabilite con i decreti sui flussi adottati dal governo, di cui la Cei oggi ha auspicato un aumento.
E' la Direzione Immigrazione, che monitora l'andamento del mercato del lavoro e stima i fabbisogni di manodopera straniera, ad avere un ruolo chiave nella definizione delle quote. L'anno scorso si dette il via libera per il 2011 all'ingresso di 98.080 lavoratori non stagionali, con la quota più sostanziosa (52.080) riservata agli immigrati provenienti dai Paesi che hanno sottoscritto specifici accordi di cooperazione in materia migratoria con l'Italia. Come l'Egitto (8mila), la Moldavia (5200), l'Albania e il Marocco (4500).
Ma per il 2012 potrebbe non esserci nulla. E il perchè lo ha spiegato Forlani:  "Il nostro parere è negativo perché in Italia ci sono già 280 mila disoccupati immigrati, la metà dei quali percepisce forme di sostegno al reddito. Bisogna prima di tutto dare a queste persone la possibilità di ritrovare un lavoro, altrimenti, scaduto il permesso di soggiorno, diventeranno irregolari". Non è detto però che la partita sia già chiusa: "il nostro è un parere tecnico", ha sottolineato il direttore generale, spiegando che il nuovo governo "potrebbe fare valutazioni politiche diverse sull'opportunità di un decreto flussi"



Raid contro centro immigrati curdi
Incursione nel centro Ararat che ospita 60 espatriati. La denuncia di Senzaconfine: «Hanno picchiato una persona, sfasciato tavoli, sedie, vetri, e minacciato i presenti»
Corriere della sera, 27-11-2011
Paolo Brogi
ROMA - Spedizione punitiva sabato sera a Testaccio dopo le 22,30 contro il centro Ararat, il ritrovo degli immigrati curdi esistente da oltre dodici anni dentro il Foro Boario dove trovano attualmente ospitalità una sessantina di immigrati. Sul posto sono intervenuti in tarda serata i carabinieri della stazione Aventino.
BASTONI DI FERRO - A ricostruire l’aggressione è con un comunicato l’associazione Senzaconfine che spiega: “Ieri 26 novembre, poco prima delle 23, una trentina di uomini armati di bastoni di ferro a volto scoperto ha fatto irruzione nel centro Ararat di Testaccio a Roma, luogo di accoglienza e di ritrovo per richiedenti asilo e rifugiati politici curdi. Gli uomini, tutti di corporatura robusta e di lingua italiana, hanno picchiato un curdo, sfasciato tavoli, sedie, vetri, e minacciato i presenti con atteggiamento sprezzante. Solo il sangue freddo mostrato da alcuni dei rifugiati presenti ha impedito il peggiorare degli avvenimenti. I carabinieri, accorsi sul posto dopo che queste persone si erano dileguate, hanno potuto accertare i danni e accompagnato i testimoni nei locali notturni della zona”.
BUTTAFUORI DEI LOCALI - Il curdo rimasto coinvolto nell’aggressione, un uomo di 47 anni di nome Sen, ha in effetti compiuto con i carabinieri un giro per la zona di Testaccio e avrebbe riconosciuto alcuni aggressori. Particolare attenzione è stata rivolta al “giro” dei buttafuori dei numerosi locali della “movida” testaccina, con cui in passato alcuni curdi sembrano aver avuto divergenze ed attriti. Le indagini dei carabinieri proseguono e sono tese anche a prevenire il ripetersi di nuove

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