Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

08 novembre 2012

Lungimiranza per risolvere il nodo delle richieste di asilo
l'Unità, 08-11-2012
Italia-razzismo
Il tempo passa e la fine della cosiddetta “emergenza Nord-Africa” si avvicina inesorabile. Il 26 settembre scorso la Conferenza unificata Stato Regioni ha raggiunto l’intesa sul “Documento di indirizzo per il superamento dell’emergenza Nord Africa” ed Enti locali e Unhcr avevano dichiarato la loro preoccupazione per la mancanza di fondi necessari a mettere in atto gli interventi di sostegno per le oltre 20mila persone attualmente accolte nel circuito. Il Ministero dell’Interno, con una circolare del 30 ottobre, ha aggiunto un ulteriore tassello per porre fine all’emergenza. Il problema che si è creato, negli scorsi mesi, è il seguente: siccome la maggior parte dei richiedenti asilo scappati dalla Libia è di altre nazionalità e si trovava in Libia per lavoro (dopo la fuga dai Paesi di origine), buona parte delle domande di protezione presentate in Italia, sono state respinte. A questo ha fatto seguito una serie di ricorsi, per la maggior parte non ancora esaminati. Il tutto è stato esasperato dalla lentezza delle Commissioni territoriali, impossibilitate a fronteggiare una così grande mole di lavoro. Ma a monte di tutti questi problemi, c’è un fatto che non può non essere criticato. Si tratta della modalità di intervento scelta dal Governo al momento dell’arrivo di quelle 20 mila persone: non è stato concesso un permesso di soggiorno che coprisse la situazione collettiva, come poteva essere quello per motivi umanitari, ma si è preferito prendere in considerazione e valutare ogni singola situazione. E così molte persone non sono state ancora ascoltate, oppure hanno ottenuto un diniego perché il motivo fondante della fuga - la situazione del Paese che li ospitava – non era sufficiente per ottenere la protezione internazionale. Questa condizione è stata più volte segnalata dalle organizzazioni e dalle associazioni che operano in Italia in tema di rifugiati e richiedenti asilo. Ed era stata proprio messa in risalto l’impossibilità per queste persone di tornare nel loro paese di origine a seguito del diniego, perché spesso quegli stessi Paesi si trovano in uno stato di guerra o di guerra civile. La circolare del 30 ottobre dà disposizioni relative alla possibilità interviene in questo senso. Dando cioè l’opportunità agli stranieri fuggiti dalla Libia senza esserne cittadini, la cui richiesta di protezione internazionale era stata rigettata, di far riesaminare la propria domanda. Questo avverrebbe attraverso la compilazione di un modello C3 (utilizzato solitamente per questo tipo di richieste) che sarebbe preso in carico dalle Questure di zona per poi essere trasferito alle commissioni territoriali, utilizzando un sistemo di invio informatico. Viene chiarito, inoltre, che la possibilità di rilascio di un permesso per protezione internazionale prescinde dal fatto che sia stato presentato un ricorso contro l'eventuale diniego. Viene da chiedersi per quale motivo questi interventi debbano essere sempre fatti all’ultimo momento. Basterebbe, forse, avere un po’ di lungimiranza in più.



Immigrati: 75 soccorsi da guardia costiera in acque libiche    
(AGI) - Roma, 8 nov. - Sono 75 i migranti (4 le donne, una delle quali incinta) soccorsi nella notte dalla Guardia costiera e dalla Marina italiane a una cinquantina di miglia dalle coste libiche. Sono di dichiarata origine etiope, sono in buone condizioni e il loro arrivo a Lampedusa, a bordo di due motovedette della Guardia costiera, e' previsto dopo le 9: cattive le condizioni meteo, con mare forza 4-5 e vento che soffia a 25. Nel tardo pomeriggio di ieri a raccogliere via cellulare la richiesta d'aiuto era stato don Moses Zerai, il sacerdote eritreo direttore dell'Agenzia umanitaria Habeshia, al quale uno dei passeggeri aveva raccontato con parole concitate che la "piccola barca" a bordo della quale viaggiavano decine di persone partite dalla Libia era in difficolta' e cominciava a "imbarcare acqua". Con l'aiuto del gestore telefonico il punto da cui era partito l'sos e' stato individuato 105 miglia a sud est di Lampedusa, in acque Sar libiche. Immediati i soccorsi cui hanno preso parte anche tre unita' mercantili (il rimorchiatore "Asso 25", la motonave "Jolly Grigio" e la motocisterna "Val Padana") ma il trasbordo dei migranti, a causa delle cattive condizioni ambientali, e' stato completato solo dopo la mezzanotte.



Profughi libici, da riesaminare diciottomila domande d'asilo
Chi ha visto rifiutata la richiesta d'asilo, potrà sperare in uno "scudo" contro l'espulsione. Ma c'è il rischio dell'ingolfarsi della  burocrazia. Sono stati 18 mila i profughi fuggiti dalla Libia (non libici) che hanno presentato richiesta di asilo. Molti sono ancora in attesa di risposta, altri hanno incassato un rifiuto, altri ancora hanno fatto ricorso. Su tutti incombe la data del 31 dicembre. Finiranno in clandestinità?
la Repubblica, 08-11-2012
VLADIMIRO POLCHI

ROMA - Una valanga di domande da riesaminare: sono quelle dei 18 mila profughi arrivati in Italia via mare dalla Libia. Anche chi ha visto rifiutata la propria richiesta d'asilo, potrà infatti sperare in uno scudo contro le procedure d'espulsione. Con un rischio però: l'ingolfarsi della macchina burocratica.
Un passo indietro. Dopo l'emergenza dei tunisini sbarcati in massa sulle coste italiane, nel 2011 sono stati circa 18 mila i profughi scappati dalla Libia 1 (ma non di nazionalità libica). Giunti in Italia, sono stati affidati alla Protezione Civile e hanno presentato richiesta di asilo. Come è andata a finire? Molti sono ancora in attesa della risposta, altri hanno incassato un rifiuto, altri ancora hanno presentato ricorso. Ma su tutti incombe una data: il 31 dicembre prossimo, quando scadrà lo stato di emergenza dichiarato dal governo il 12 febbraio 2011. Che ne sarà allora dei 18 mila "libici"? Rischieranno di finire in clandestinità?
Via al riesame di tutte le domande. La circolare 400 del 31 ottobre 2012 del ministero dell'Interno spiega che il 26 settembre scorso nell'ambito della Conferenza Unificata (dove siedono ministero dell'Interno e del Lavoro, Anci (Associazione dei Comuni italiani) Conferenza delle Regioni e UPI) "si è deciso che gli stranieri in questione, richiedenti la protezione internazionale e già destinatari di una decisione di diniego da parte delle Commissioni territoriale, si rechino presso la Questura per richiedere il riesame della propria posizione". Insomma, si ricomincia.
L'Asgi: "Soluzione sbagliata". L'ASGI (Associazione studi giuridici sull'immigrazione 2) ricorda che "ha sempre chiesto al Governo di riconoscere lo status di protezione umanitaria (che avrebbe evitato un enorme dispendio di risorse finanziarie, l'ingolfamento delle Commissioni e un contenzioso giudiziario che sta inducendo un ulteriore rilevante carico economico per lo Stato) ed evidenzia che la procedura ipotizzata - di nuova compilazione del modello finalizzato al riesame da parte delle Commissioni territoriali - oltre a non essere giuridicamente corretta, rischia di protrarre nel tempo la definizione della condizione giuridica dei profughi, burocratizzando e non snellendo le procedure".



Profughi in Libia schiavi come prima
Avvenire, 08-11-2012
Paolo Lambruschi
Le porte dell’inferno sono sempre spalancate per migliaia di profughi eritrei, somali e sub sahariani in Libia sospesi in un limbo senza ritorno. Nulla è cambiato nonostante la rivoluzione. E mentre il paese prova a darsi una parvenza di normalità eleggendo un nuovo premier, continua ovunque la caccia al nero praticata da gruppi armati fondamentalisti.
Nelle carceri i richiedenti asilo, tra i quali donne e bambini anche piccoli, vengono stipati in spazi angusti, malnutriti, privati di assistenza medica, torturati e uccisi dai miliziani. E sottoposti a pressioni perché accettino il «rimpatrio volontario». Due i capi d’accusa, l’ingresso illegale ed essere mercenari del vecchio regime. La prova è una, il colore della pelle. Negli ultimi 20 giorni, la guardia costiera italiana è intervenuta per salvare quasi 1000 persone a bordo di carrette del mare alla deriva partite dalla Libia.
L’ultimo naufragio è avvenuto sabato scorso davanti alle coste libiche. Sono morte 11 somali, tra cui due bambini. Le motovedette italiane hanno salvato altri 70 naufraghi. Sono la punta dell’iceberg, molti sono riusciti a evadere corrompendo miliziani e funzionari che, come ai bei tempi della Jamahiriya, organizzano l’"ultimo miglio" del traffico di esseri umani verso l’Europa. Il prezzo della libertà dal carcere è 800 dollari, mentre un posto su un barcone senza pilota arriva a 2400. Chi non ha i soldi diventa schiavo dei militari o di ricchi libici.
Cosa sta succedendo a sud delle nostre sponde, e perché gli sbarchi sono rallentati dopo l’ultimo accordo tra Roma e il nuovo governo di Tripoli della scorsa primavera?
Una risposta l’ha fornita venerdì 12 ottobre don Mosè Zerai, sacerdote eritreo e presidente dell’Agenzia Habeshia, riferimento in Italia della diaspora, che ha presentato al Parlamento europeo e alla Commissione di Bruxelles un dossier dettagliato e inquietante sui nuovi orrori delle carceri nella Libia post Gheddafi (che continua a non aderire alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati) e chiede a Ue, Unhcr e al governo italiano di fermare la caccia al nero. Don Zerai ha raccolto le testimonianze di profughi che hanno varcato il confine libico negli ultimi sei mesi nella vana speranza di raggiungere le coste e comperare dai trafficanti un passaggio su una carretta del mare verso le coste italiane. E che, rastrellati e derubati dalle milizie, marciscono in carcere perché anche nella nuova Libia per uscire bisogna corrompere.
Sono perseguitati in fuga dallo stato caserma dell’Eritrea, dalla Somalia devastata e affamata e dall’Etiopia, che sono tornati in Libia per provare a raggiungere l’Europa perché la via che porta dal Sinai a Israele, battuta in massa dal 2009 – quando il vecchio accordo italo-libico sigillò il Mediterraneo – è diventata una trappola mortale.
Quanti sono? Il rapporto Habeshia prende in considerazione 9 degli oltre 20 centri di detenzione libici: Bengasi, Homs, Twaisha, Sibrata Mentega Delila, Kufra, Ganfuda, Mishrata, Zawya e Sharimetar. In otto di queste galere sarebbero rinchiusi oltre 3400 subsahariani, mentre il numero di detenuti a Kufra è ignoto. Italia e Ue hanno contribuito a costruirle nel decennio passato per esternalizzare la lotta all’immigrazione irregolare. A luglio un rapporto della Fondazione IntegrAzione ricordava che tre campi di prigionia libici (Kufra, Sebha e Garyan) sono stati finanziati nel biennio 2004-2005 con fondi dati al Viminale dalla legge 271 del 2004 dopo i primi accordi con il defunto rais.
Lo confermava, ricorda l’Asgi, un resoconto della Commissione europea del 2005 su un viaggio nei centri di detenzione che parla di stanziamenti rientranti sotto la voce cooperazione. E nel 2007 verso la Libia andarono 2 milioni di euro dell’Ue per il «rimpatrio volontario».
«Migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire in prigione – denuncia il rapporto – e fuori non cessa la caccia al nero che continua a riempirle: arresti sistematici nel sud di giovani che hanno appena passato la frontiera, retate nelle città e rastrellamenti sulla costa».
Alle discriminazioni razziali si sommano le persecuzioni religiose. «I miliziani – prosegue don Zerai – costringono tutti a pregare secondo la fede islamica, durante il ramadan hanno obbligato tutti a osservare il digiuno. Simboli cristiani ed effigie di santi sono proibiti, alle donne sono state strappate le croci al collo, chi ha un tatuaggio ispirato al cristianesimo lo nasconde per non venire picchiato. Le donne devono coprirsi e portare il velo. Molte famiglie sono state divise perché uomini e donne non possono stare insieme».
Chi reagisce viene torturato e frustato. Una punizione frequente è il finto annegamento, i più giovani vengono invece fatti correre e presi a fucilate come animali. «Storie che ascoltiamo da anni, dimenticate, come quelle – conclude il prete eritreo – della tragedia parallela degli eritrei nel Sinai, catturati dai predoni beduini, torturati e incatenati in prigioni improvvisate finché non viene versato un riscatto arrivato a 50 mila dollari».
Arrivano urla disperate dai due deserti affacciati sul mare di mezzo. Ma nessuno pare ascoltarle.



Elezione di Obama: per Fini, anche in Italia gli immigrati saranno sempre più protagonisti della vita politica.
“Inevitabilmente avremo sempre più in Parlamento e ai vertici della società cittadini italiani che non sono figli di italiani”.
Immigrazioneoggi, 08-11-2012
“La consapevolezza dell’importanza del valore dell’integrazione è stata sino ad oggi in Italia inferiore rispetto alle necessità”. Gianfranco Fini non si è lasciato sfuggire l’occasione e, nel corso di un incontro con un gruppo di studenti alla Camera, è tornato a parlare di integrazione.
Fini ha voluto fare riferimento alla rielezione di Barack Obama alla Casa Bianca: “Non so se avremo mai in Italia un presidente della Repubblica non bianco, ma inevitabilmente avremo sempre più in Parlamento e ai vertici della società cittadini italiani che non sono figli di italiani”, ha spiegato parlando ai ragazzi protagonisti del Festival delle giovani idee Direfuturo promosso dal portale Dire Giovani.it.
“In America, fino a poco tempo fa, il presidente della Camera si chiamava Pelosi. A New York, il sindaco, Giuliani. Secondo voi da dove vengono i bisnonni di due che si chiamano Pelosi e Giuliani?”, ha chiesto Fini sottolineando ancora una volta tutta “l’urgenza di politiche di integrazione” a partire da una legge moderna sulla cittadinanza: “Quella che abbiamo è antistorica – ha detto Fini. – Io sono per dare la cittadinanza al termine del primo ciclo scolastico”.



Immigrazione: Acli, solo da nuova cittadinanza svolta a integrazione stranieri
Il seminario da Palermo. Il cardinale Romeo ricorda «l’immigrato Giovanni Paolo II» Roma.
La Perfetta Letizia, 08-11-2012
7 novembre 2012 – «Solo con una nuova legge sulla cittadinanza ci sarà la svolta nell'integrazione degli stranieri. Solo dando diritti si possono imporre i doveri». Lo ha affermato da Palermo il presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero, intervenendo al seminario promosso dal Patronato Acli: “Integrazione, legalità, cittadinanza. Una scommessa per tutti. Il nuovo volto dell’immigrazione”.
L’appuntamento ha aperto nel pomeriggio la quattro giorni organizzata dalle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani sul tema del lavoro e dell’immigrazione in Italia e in Europa, con il sostegno della Commissione europea e del Centro europeo per i problemi dei lavoratori (Eza). «Occorre lavorare sull’integrazione a partire dagli italiani – ha aggiunto Olivero - rimuovendo pregiudizi e aprendo gli occhi sui fatti. Non mancano infatti le difficoltà nella convivenza, ma la realtà ci dice che l’immigrazione da tempo sta offrendo all’Italia un grande contributo sul piano del benessere economico e sociale, a partire dalla crescita demografica». «Pil demografico» lo ha chiamato Gian Carlo Blangiardo, dell’Università Bicocca di Milano/Ismu, intervenendo al seminario. Cioè «il patrimonio demografico collettivo di un Paese, il futuro che abbiamo. Ed il primo contributo degli immigrati per l’Italia – ha detto - è in questo campo». Roberto Lagalla, rettore dell’Università di Palermo, ha ribadito «il ruolo fondamentale della cultura, della scuola e delle università in particolare per l’integrazione degli studenti stranieri con il territorio e le istituzioni».
Marco De Giorgi, delll’Ufficio nazionale per le discriminazioni razziali (Unar) ha citato i 1000 casi di discriminazione segnalati nel corso dell’anno, parlando della crescita di un nuovo tipo di razzismo, «che fa percepire la discriminazione come accettabile e finisce per autorizzare indirettamente la violenza». Fabrizio Benvignati, vicepresidente delegato del Patronato Acli, ha raccontato i 10 anni di servizio accanto agli immigrati e «l’integrazione quotidiana cresciuta col tempo davanti agli sportelli, fra gli utenti italiani, spesso anziani e pensionati, e gli stranieri, accumunati da bisogno di assistenza e tutela. I servizi sociali – ha ribadito - sono un canale privilegiato per la promozione dei diritti e l’integrazione dei cittadini immigrati». «Un lavoro che ha costretto la stessa associazione a rinnovarsi e ripensarsi» ha aggiunto Santino Scirè, vicepresidente nazionale e presidente delle Acli siciliane. E Olivero ha concluso: «Si deve aprire ora una nuova fase per le Acli. Dobbiamo diventare associazione di migranti, non solo di servizi per stranieri. Dobbiamo dare maggiore voce e protagonismo ai cittadini immigrati».
Infine l’intervento del cardinale Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, che ha ricordato «l'immigrato Giovanni Paolo II» il suo "vengo da lontano, se mi sbaglio mi corrigerete". «Dinanzi a un mondo globalizzato – ha detto – serve una visione globale, non globalizzante, con al centro la persona umana».

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