Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

27 settembre 2013

«Cosi come sono, vanno chiusi Fanno schifo»
Luigi Manconi presidente della Commissione per i Diritti Umani al Senato
Gli Altri
Katia Ippaso
Se, lo diceva Shopenauer, la vita oscilla come un pendolo tra Disperazione e Noia, ma parlava degli uomini liberi, la vita degli uomini non liberi, trattenuti e detenuti contro la loro volontà in luoghi che dovrebbero identificarli e in qualche misura acco- glierli, oscilla tra Alienazione e Schifo. Alienazione e Schifo: sono i termini usati da Luigi Manconi, presidente per la Commissione dei Diritti Umani al Senato, per descrivere ciò che ha visto dentro i Centri di Identificazione ed Espulsione, e in particolare dentro il Cie di Gradisca che ha visitato a settembre e in seguito al quale ha espresso la sua ferma posizione a riguardo: va chiuso, almeno in questa forma. La faccenda dei Centri di Identificazione ed Espulsione è ovviamente complessa, e vale la pena seguire il filo di un ragionamento che parte dagli uomini/stracci incontrati dentro i nostri recinti, per rivolgersi alle istituzioni e a questa Italia indifferente e ostile che pensa per stigmi, espellendo da sé chi crede straniero e criminale tout court, senza distinzioni. Ma conoscere, lo dice l'etimologia della parola, significa distinguere. Luigi Manconi, senatore Pd e docente di Sociologia dei Fenomeni Politici, ci aiuta a farlo.
Come vivono questi uomini?
La sensazione che io mi sono fatto partendo dalle tre visite che abbiamo realizzato come Commissione e dal ricordo di molte altre visite precedenti (le prime risalgono al 2000) è che questi uomini vivono in uno stato di totale alienazione.
Alienazione è il termine esatto. E un termine marxiano caro a chi, come me, ha una cultura di sinistra, e mi sembra particolarmente pertinente. In quale accezione? Abbiamo degli individui alienati da se stessi. La condizione del trattenuto nel Cie è tale da rendere particolarmente difficile, faticoso e doloroso il processo di autoidentificazione. Soprattutto è deprivato della possibilità di avere una consapevolezza di sé. In questo senso io uso il termine alienazione. Alludo alla scissione tra il proprio corpo, la propria fisicità e la propria esistenza materiale da una parte e la possibilità di riflessione dall'altra. Il processo di alienazione che ha la sua radice nel lavoro di fabbrica, è riproposto identico a se stesso dentro i Centri.
Quale è il processo di arretramento dell'umano di cui lei è stato testimone? E se dovesse spiegare cosa sono i Centri di Identificazione ed Espulsione a qualcuno che non ne conosce l'esistenza, che parole sceglierebbe?
Direi che siamo in un non luogo per eccellenza. Ma, mentre la presenza di un non luogo cosi come viene analizzato da Mare Augè è il frutto di una scelta volontaria (per quanto manipolata possa essere), il Centro di Identificazione ed Espulsione non è il frutto in alcun modo di una scelta. E, invece, l'esito di un processo di reclusione, di internamento. Reclusione e internamento sono termini giuridicamente estranei alla natura dei Cie, ma materialmente di quello si tratta. Persone trattenute e internate, cioè messe a forza dentro un non luogo, e li recluse, cioè impedite nei movimenti. Ora, questo processo che si dà anche in altre situazioni, nei Centri di Identificazione ed Espulsione viene appesantito dal fatto che si vive in uno stato di totale non consapevolezza.
Ci sono stati momenti in cui il suo pensiero riguardo ai Cie ha vacillato?
Facciamo l'esempio piú sgradevole, quello meno allettante per lo sguardo umanitario. A Gradisca una buona parte dei trattenuti è formata da ex detenuti, alcuni responsabili anche di reati capaci di rappresentare allarme sociale. Tra gli altri, abbiamo incontrato un uomo accusato di traffico di esseri umani, cioè di essere uno scafista. E evidente che in questa situazione l'empatia umana vacilla terribilmente. In me magari un po' meno che in altri, perché da qualche decennio sono abituato a considerare le persone per come esse sono in quel momento, non per il loro curriculum, criminale e non criminale. Però, si, non si può non vacillare di fronte a casi cosi estremi. Detto questo, bisogna analizzare bene la situazione. La maggioranza dei detenuti riteneva che, una volta scontata la pena, ci si trovasse liberi. Cosa che accade in tutto il mondo, in tutti i regimi. Invece qui cosa succede? Una volta scontata la pena, c'è la pena accessoria di una reclusione che non si chiama reclusione in un carcere che non è un carcere ma un Cie, dove si sta in attesa di essere identificati e espulsi. Se non si è identificati e espulsi (i casi che a noi è capitato di incontrare proprio a Gradisca), i 18 mesi si scontano tutti. Ora, a questa pena non prevista e non conosciuta, si aggiunge il fatto che quei 18 mesi sono un período variabile, che l'esito di quel trattenimento non è noto. Stiamo parlando quindi di persone che per un tempo variabile vivono in una condizione di totale smarrimento. Non sanno perché sono lì. Non sanno quanto staranno lì. Non sanno, una volta usciti, dove andranno. Se a ciò si aggiunge la vita quotidiana dentro il recinto del Cie, il termine alienazione è reso ancora più evidente, perché la vita quotidiana li dentro è tutta un vuoto, una terribile assenza. Non c'è la minima attività. Infine, le persone lî trattenute in una percentuale elevatissima consumano psicofarmaci. Quindi ad alienazione si aggiunge alienazione.
Rispetto agli episodi di rivolta di Gradisca, si tratta più di esempi di autolesionismo che di aggressione verso l'altro.
A Gradisca, abbiamo approfondito la questione e sembra che non ci sia stato contato fisico tra custodi e custoditi. E comunque, in genere il contrario è uno stereotipo. In tutti i luoghi chiusi, i cosiddetti episodi critici raccontano che la violenza contro se stessi è in larga parte più diffusa della violenza contro terzi. A ciò si aggiunga che una buona dose della violenza contro se stessi è di tipo dimostrativo, dichiaratorio. In parte è un calcolo razionale: esercitare violenza contro terzi significa precipitare in una situazione estremamente più vulnerabile, che i trattenuti dei Cie non possono permettersi di vivere. Ci sono reati che immediatamente posso essere imputati, c'è il rischio di avere guai fisici maggiori. Mentre l'atto di autolesionismo può essere controllato da chi ne è autore.
Lei si ritiene contrario alla costituzione stessa dei Cie. Ma dal momento che non solo esistono ma hanno già prodotto tutta la violenza di cui stiamo parlando, cosa bisogna fare: chiuderli, riformarli?
Necessariamente devo dare una risposta articolata. Come presidente di una Commissione istituzionale, posso dire che noi stiamo conducendo questa indagine: ai tre Cie che abbiamo gia visitato, se ne aggiungeranno altre tre (di sicuro Modena e Torino). Tutti i commissari senza eccezione rilevano lo stato dei Cie, facendo soprattutto attenzione allo scarso rispetto per i diritti umani e alle condizioni di vita che sono sempre deficitarie sotto il profilo igienico, sanitario. Quello che ho detto dopo Gradisca ritengo che possa essere condiviso dalla Commissione, ma non necessariamente tutti sono d'accordo sulla mia posizione, E quale è la mia posizione? Il Cie di Gradisca va chiuso, ma se cambiano radicalmente le condizioni, il Cie di Gradisca può continuare ad operare. La questione è sovranazionale e nazionale. La possibilita del trattenimento al fine di identificazione ed espulsione è un obbligo contratto dall'Italia rispetto all'Europa col trattato di Schengen. Ma le modalità di questo trattenimento sono poi affidate alle legislazioni nazionali. La necessita di trattenere qualcuno per identificarlo ed espellerlo, qualora venisse ritenuto giusto, non ha niente a che fare con le modalità di questi processi di identificazione ed espulsione, che possono essere sideralmente, incompa- rabilmente, incondizionatamente diversi da quelli attuati. Le modalità attuate all'interno dei Centri di Identificazione ed Espulsione che io ho visitato sono definibili con una sola parola: schifo.
Il coma, le malattie, gli incidenti, le rivolte che accadono dentro questi luoghi recitanti, sono, lei l'ha ribadito piú volte, "un affare istituzionale". Come si affronta giuridicamente quest'affare?
Bisognerebbe riformare con una normativa. I Cie sono stati definiti all'interno di una legge, quindi per modificarli ci vuole una legge. Anche se oggi ci potrebbero essere notevoli risultati anche con provvedimenti che passassero attraverso circolari del Ministero dell'Interno. Le ricordo che fino al mese di novembre del 2011 l'accesso ai Cie era limitato ai parlamentari nazionali. Persino i consiglierei regionali trovano e tuttora trovano (questo è successo anche a Gradisca) difficoltà. Nel novembre del 2011 l'allora ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri emise una circolare che prevedeva la libertà di accesso per i giornalisti: che ora non è incondizionata ma è ben piú ampia di allora. Le diverse burocrazie oppongono resistenze.
Perché le condizioni di vita/non vita dentro questi luoghi di trattenimento non interessano a nessuno? Nell'immaginario collettivo, gli abitanti dei Cie non sono che uomini/rifiuti, che nessuno vuole vedere.
Stiamo parlando di due stigma che combinati insieme producono, nel migliore dei casi indifferenza e, nel piú corrente dei casi dei casi, ostilità. I due stigma sono straniero e criminale a poco vale spiegare che la componente ex detenuta è minoritaria. Nei Cie si trovano tre gruppi di trattenuti. Il primo gruppo è formato da richiedenti asilo che hanno presentato in ritardo o non hanno presentato proprio la richiesta per il riconoscimento dello status di rifugiato, ai fine della protezione internazionale. Il secondo gruppo è composto in misura notevole da persone titolari di un permesso di soggiorno per lavoro scaduto, con la conseguenza ine- vitabile dello scadere anche del permesso di soggiorno per sé e per i propri cari. A questo proposito, vorrei ricordare che il governo Monti ha protratto a dodici mesi il periodo di attesa di lavoro, prima che ciò comporti l'espulsione. Ma in un periodo di crisi economica come questo, dodici mesi sono pochissimi. Noi abbiamo verificato dei casi di persone residenti regolarmente in Italia da 15 anni che, una volta perso il lavoro sono spediti direttamente al Cie per essere identificati ed espulsi verso paesi di cui nulla piú sanno e nei quali piú nessun familiare esiste. Infine c'è una terza categoria di individui che non hanno commesso nessun reato e che semplicemente sono entrati in Italia irregolarmente o vi si sono trattenuti irregolarmente. Quindi la faccenda è compli- cata, ma si tende ad estendere lo stigma a tutti.
Eppure non bisogna pescare molto in là nella nostra storia filogenetica per ricordarci di quando eravamo migranti noi, e di come è stata dura la vita per chi era considerato dagli "altri" poco più di un relitto.
Le rispondo con una citazione da Tacito: "Su ciò non posso aggiungere parole perché troppe ne ho dette".



I bimbi siriani in fuga dalla guerra tra i passeggeri in stazione a Milano
Famiglie arrivate in Sicilia e dirette in Svezia
Corriere.it, 27-09-2013    
Alessandra Coppola
MILANO - È tutto qui, in questo zaino di tela verde militare regalato dalla Croce Rossa e in una vecchia borsa portadocumenti. «Ogni altra cosa l'abbiamo venduta - dice la donna - orologi, anelli, collane. E così anche lei - indica la giovane che le siede accanto - ha tenuto soltanto questi», due bracciali d'oro. Il velo in testa, gli occhiali da sole, gli stessi vestiti da giorni, i mariti che parlano tra di loro e studiano come riprendere il viaggio, i bambini che giocano sull'erba stenta della stazione Centrale di Milano, una biondina si dondola sulla sbarra delle biciclette comunali: sono famiglie intere, e sono in fuga dalla Siria.
Madri e padri trentenni, tre, quattro figli a coppia, a volte un genitore anziano. Sono sbarcati sulle coste siciliane, un po' di cibo e una coperta nei primi soccorsi, due notti nelle strutture d'emergenza e poi il treno da Catania a Milano, con l'idea di proseguire per il Nord. Magari la Svezia, sperano, che ha politiche di accoglienza per i profughi particolarmente generose. I soldi per il biglietto ce li hanno. Quest'uomo faceva l'idraulico, l'altro il commesso in un negozio. Gente semplice, dignitosa, con qualche risparmio. Scappati per le bombe, non per la miseria. I due gruppi qui nei giardinetti hanno cominciato il viaggio quasi un anno fa, quando era ancora possibile prendere un volo dalla Siria all'Egitto. Sono rimasti ad Alessandria finché non sono riusciti a imbarcarsi su uno degli scafi che attraversano il Mediterraneo, salvati da una nave cisterna, raccontano, e approdati a Siracusa. Milano è solo una tappa intermedia, da lasciare il prima possibile.
Li vedi che si muovono come ombre, silenziosi e attenti: non vogliono essere identificati, in Sicilia hanno fatto resistenza agli agenti che prendevano le impronte digitali, in Lombardia evitano gli sportelli di aiuto che siano del Comune o della Caritas: vogliono solo ripartire. Chi ha raggiunto il Nord è informato e sa che chiedere asilo in Italia non è un buon affare, perché ai rifugiati il Paese offre poco e perché inoltrare la pratica qui, in base ai regolamenti europei, significa non poter varcare il confine.
Devono anche stare attenti ai truffatori. In stazione si è sparsa la voce dell'arrivo a frotte dei siriani, raccontano che uomini nordafricani offrono passaggi clandestini, si prestano a fare biglietti, approfittano delle difficoltà a esprimersi in un'altra lingua che non sia l'arabo per togliere a queste famiglie gli ultimi soldi rimasti. È uno dei motivi per cui Abdallah e i suoi amici si danno il cambio in piazza. «Appena posso lasciare il lavoro - fa il marmista - vengo a vedere se ci sono connazionali che hanno bisogno di aiuto». Latte per i piccoli, un cambio di biancheria, ma soprattutto un tetto.
Safwan Bari si è portato a casa due donne e sette bambini, che con i suoi fanno undici. «Chiedo scusa per l'odore - nel salotto l'aria è irrespirabile -: sono due settimane che non si tolgono scarpe e vestiti», hanno pianto, hanno vomitato per il mare grosso, questo ragazzino coi ricci neri seduto sul divano ha pure rischiato di cadere in acqua. È la mamma a raccontarlo, Safwan traduce. Sono fuggiti da Erbin, quartiere alla periferia di Damasco, dopo l'attacco dell'esercito di Assad con le armi chimiche. Hanno raggiunto Latakia, la cittadina portuale a Nord di Homs, e lì hanno pagato. «Cinquemila dollari per ogni adulto, 2.500 per i bambini». Fanno 17.500, come ve li siete procurati? «Mio marito, commerciante d'automobili, li aveva messi da parte». Non abbastanza, però. Il resto viene da una colletta di amici e parenti, che si sono sacrificati perché almeno loro, i più giovani, si salvassero.
Gli scafisti «ci hanno detto che sarebbe stata una gita, che saremmo stati non più di settanta in una barca». E invece si sono ritrovati in 200, onde alte, acqua e cibo insufficienti, niente bagni, «i bambini si facevano la pipì addosso». Dieci giorni di sofferenza in mare fino a Lampedusa. Da lì, Catania e poi Milano. Hanno già fatto un primo tentativo di varcare la frontiera, vorrebbero arrivare in Germania, ma al Brennero la polizia austriaca li ha rimandati indietro. Adesso aspettano a casa di Safwan: «Sono siriano anche io - dice -, è il mio popolo, ma abbiamo bisogno di sostegno, da soli non ce la facciamo». Stanotte andrà a cercare un letto da un amico, per evitare alle donne l'imbarazzo di dividere l'alloggio con uno sconosciuto. Poi si vedrà.
Il centro di raccolta e di «smistamento» dei profughi è a poche centinaia di metri da casa sua, in un bar di Cologno Monzese ritrovo della comunità siriana a Nord di Milano. Ai tavolini sono tutti maschi e discutono di come affrontare l'emergenza. Non c'è posto per tutti, qualcuno dormirà in auto. S. M. per ora ha trovato ospitalità: 35 anni, rosso di barba e di capelli legati in una coda, una pallottola nel braccio sinistro sparata da un cecchino, nel suo quartiere alla periferia di Damasco aveva un negozio di scarpe, ma si dilettava anche di ritratti, ai matrimoni e alle feste. Quando è iniziata la rivolta, ha recuperato la macchina fotografica e racconta di essersi messo al servizio dei ribelli. Non vuole dire di aver combattuto, ma accetta di farsi scattare un'immagine, perché, dice «non ho paura, la mia faccia è già nell'album dei ricercati dalla polizia di Assad, mi hanno già bruciato casa e negozio, non ho famiglia, non ho più nulla». Per questo è fuggito. Lungo un percorso diverso, ma ugualmente costoso.
In macchina e a piedi ha raggiunto la frontiera con la Turchia. Di lì per arrivare a Istanbul ha pagato 2.500 dollari. Quindi un trafficante l'ha condotto sulla costa e imbarcato con altri cinque per un'isola greca, dove si è confuso tra i turisti e ha preso un traghetto per Atene. Altri 2.000 dollari per biglietto aereo e documenti falsi, tre imbarchi falliti, finché è riuscito a salire su un charter delle vacanze ed è atterrato ad Orio al Serio, Bergamo.
Ufficialmente, anche lui, qui in Italia non esiste.



Sbarchi. Guardia costiera, oltre 1800 persone soccorse in 24 ore
Prosegue ininterrottamente il lavoro dei militari della Centrale operativa della Guardia costiera, al momento impegnata a identificare e localizzare altre richieste di aiuto che continuano a pervenire dal Canale di Sicilia
Stranieri in Italia, 27-09-2013
Roma, 27 settembre 2013 - Piu' di 1800 migranti sono stati salvati nelle ultime ore in numerose operazioni di soccorso coordinate a Roma dalla Centrale operativa del Comando generale delle Capitanerie di porto - Guardia costiera.
Nella tarda serata del 25 settembre - riferisce una nota - sono giunte a Porto Empedocle la Nave Vega della Marina militare italiana, con a bordo 86 migranti salvati al largo delle coste siciliane e la nave mercantile Patria (bandiera Antigua e Barbuda), in precedenza dirottata dalla Centrale operativa in soccorso di altre 96 persone. In entrambi i casi, in prossimita' della costa si e' provveduto al trasbordo dei migranti sulle motovedette della Guardia costiera per il successivo trasferimento a terra. Un altro mercantile, il Fuji, di bandiera tedesca, sempre sotto il coordinamento della Centrale operativa ha soccorso 117 persone tra le quali 16 donne e 6 bambini e ha raggiunto il porto di Augusta nella tarda serata.
Inoltre la Centrale operativa era riuscita a localizzare altre due richieste di aiuto nel Canale di Sicilia, pervenute tramite telefono satellitare. La prima riferita a un gommone in difficolta' a circa 40 miglia a sud della Sicilia, con 108 persone a bordo, tutte tratte in salvo dalle motovedette della Guardia costiera di Lampedusa, la CP303 e la CP 312. Una terza unita', la CP 290, ha invece soccorso 92 migranti ammassati su un secondo gommone alla deriva a 30 miglia ad est dell'isola pelagica. Tutte le persone sono sbarcate nel porto di Lampedusa dopo le ore 20. Due delle stesse motovedette sono poi ripartite questa notte in soccorso di un gommone con altre 113 persone, tra le quali 29 donne e 30 bambini, che erano stipati su un gommone in precarie condizioni di galleggiabilita'. Gli occupanti, tratti in salvo dagli equipaggi della Guardia costiera hanno raggiunto a bordo delle motovedette il porto di Lampedusa alle ore 7 di ieri mattina.
Intanto prosegue ininterrottamente il lavoro dei militari della Centrale operativa della Guardia costiera, al momento impegnata a identificare e localizzare altre richieste di aiuto che continuano a pervenire dal Canale di Sicilia. In totale sono piu' di 1800 le persone salvate, inclusi molti bambini, in poco piu' di 24 ore.



Arrivati al porto i 180 profughi africani saranno trasferiti a Piana degli Albanesi
Repubblica.it, 27-09-2013
CLAUDIA BRUNETTO e GIORGIO RUTA
Soccorsi mobilitati per l'arrivo al porto di Palermo dei 183 profughi africani, tra i quali ci sono anche donne e bambini, imbarcati a bordo del mercantile King Julius che ieri li ha soccorsi nel Canale di Sicilia. E' la prima volta che un gruppo così consistente di migranti arriva nel capoluogo siciliano. I profughi erano su un barcone che rischiava di affondare: il comando generale della Capitaneria di porto ha dirottato a Palermo il mercantile che a 70 miglia a Sud-Est di Lampedusa li ha recuperati e imbarcati.
I profughi sono stati accolti con acqua e coperte e saranno visitati e identificati. Le prime a mettere piede sul suolo di Palermo sono state una donna e una bambina. Due immigrati sono stati portati in ospedale: uno con un attacco di peritonite e l'altro con lesioni cutanee non gravi. Sul molo è stata allestita una tenda in cui gli africani sono stati accomodati e rifocillati.
Dopo le procedure di identificazione i profughi saranno trasportati a bordo di alcuni pullman a Piana degli Albanesi, dove troveranno ospitalità in quattro strutture della Caritas individuate ieri dall’unità di crisi riunita in prefettura. L’Asp di Palermo per accogliere i migranti ha messo a disposizione medici, infermieri, psicologi e assistenti sociali, ma al porto sono presenti anche ambulanze del 118 e numerosissimi volontari. Ad accogliere la nave anche il sindaco Leoluca Orlando, il prefetto Francesca Cannizzo e il cardinale Paolo Romeo, che accompagnerà i migranti a Piana.



Migranti, record minori: oggi 130 a Lampedusa
Avvenire, 27-09-2013
Affluenza record di bambini migranti in questi giorni all'interno del centro di primo soccorso e accoglienza di contrada Imbriacola a Lampedusa: oggi sono 130 tra bambini e adolescenti, la maggior parte giunta con i genitori in fuga dalla Siria.
"Tanti hanno ancora lo zainetto addosso, come se fossero appena usciti da scuola, e negli occhi la guerra", racconta Lilian Pizzi, psicologa e coordinatrice del progetto Faro di Terre des Hommes. "Stanno ormai arrivando famiglie di ogni ceto sociale, molti non avevano mai convissuto con miseria e disperazione fino a pochi mesi fa", spiega Federica Giannotta, responsabile Advocacy di Terre des hommes.
Dalle loro testimonianze emergono le più incredibili atrocità di cui non solo gli adulti, ma anche i bambini, sono stati vittime o involontari testimoni. Terre des hommes chiede che venga riconosciuta immediata protezione sussidiaria alle famiglie siriane affinché sia reso possibile subito il ricongiungimento famigliare coi loro figli e
familiari oggi ancora in Siria. "Alcuni bambini - spiega - presentano comportamenti regressivi rispetto all'età, come l'enuresi, insorti in seguito a esperienze in cui, come ci dicono i loro genitori "hanno visto la morte in faccia". Con il nostro servizio di assistenza psicologica e psicosociale in favore dei minori stranieri supportiamo i genitori nella gestione di queste reazioni che svolgono una funzione difensiva dell'organismo di fronte a stress a cui nessun bambino dovrebbe essere esposto", continua Lilian Pizzi. "Ai bambini offriamo uno spazio di gioco, dove emerge con forza, attraverso i disegni e le narrazioni, la loro visione della guerra. Purtroppo, nelle condizioni di sovraffollamento ed emergenza che si registrano in questi giorni è quasi impossibile poter seguire ogni richiesta d'aiuto".



Addormentarsi a Losanna, svegliarsi in Senegal: il viaggio forzato di Dia
Corriere.it, 26-09-2013
Stefano Pasta
«Mi addormento a Losanna e mi sveglio in Senegal. Ogni giorno è così, mi fa diventare pazzo». In questo modo, Dia, senegalese, sintetizza la sorte degli immigrati irregolari in Svizzera che vengono forzatamente rimpatriati. Spiega che cosa lo tormenta: «L’uomo vive là dov’è la sua vita». Lui in Europa ha dovuto lasciare la donna che ama e quattro figli, che da nove mesi gli telefonano dicendo: «Papà perché non sei qui? Domattina ho una partita di calcio, devi venire a vedere la mia nuova squadra. Papà, ci sono i genitori di tutti e tu non ci sei». La sua storia è una di quelle raccontate da Fernand Melgar nel documentario “Le monde est comme ça”. Nel suo precedente lavoro, “Vol spécial” , il regista era entrato per nove mesi a Frambois (Ginevra), uno dei 28 centri di espulsione per sans-papiers dove ogni anno migliaia di donne e uomini vengono incarcerati per mesi senza processo né condanna.
    «Allora il nostro compito era di filmare senza intervenire. Un anno dopo, siamo andati a trovarli».
Ogni anno, in Europa circa 600.000 persone “illegali”, compresi i bambini, sono detenuti, spesso per un semplice illecito amministrativo.
    «L’unico reato che abbiamo commesso è aver osato chiedere asilo in Svizzera», spiega Geordry.
Lui era scappato dal Camerun «per salvare la pelle» dopo l’assassinio dei genitori, oppositori politici. Aveva chiesto asilo, facendo di tutto «per integrarsi, per comportarsi bene». Fino a diventare il badante del signor Favre. Quello che con un paradosso potremmo chiamare “il clandestino della porta accanto”, che spalma la pomata sulle gambe dei nostri vecchi aiutandoli a non finire in casa di riposo.
    Del resto, spiega Melgar: «In Svizzera, la maggior parte dei 150mila sans papiers lavora, paga le tasse e versa i contributi alle assicurazioni sociali. Si occupa dei nostri anziani, bada ai nostri bambini, pulisce i nostri appartamenti e i nostri ospedali. Senza di loro, molti alberghi e cantieri potrebbero chiudere per carenza di manodopera a buon mercato. Ciò che li accomuna è la spada di Damocle che incombe sulle loro teste: in qualsiasi momento, potrebbero essere arrestati, posti in detenzione fino a due anni, e quindi espulsi».
Per Geordry la condanna della legge ha queste parole: «Niente prova che, se il richiedente rientrasse in Camerun, la sua vita sarebbe in pericolo». Peccato che, una volta rimpatriato, sia stato arrestato per aver infangato all’estero l’onore del Paese chiedendo asilo politico: 400 frustrate sotto la pianta del piede, manganellate, sette mesi di carcere in celle sovraffollate in cui era costretto a raccogliere gli escrementi con le mani.
Si potrebbe pensare che il ritorno in patria porti almeno la gioia di riabbracciare la propria famiglia. Altro che gioia: vuol dire confrontarsi con il fallimento, la vergogna, la delusione per le speranze riposte, i soldi che mancano.
    Wandifa, rispedito in Gambia, non sa cosa rispondere alla famiglia che gli ricorda: «Quando eri in Svizzera, potevi aiutarci; da quando sei tornato, è tutto difficile».
O come i genitori di Ragip, 40 anni, che ti chiedono conto di vent’anni passati in Svizzera, prima di essere rimpatriato in Kosovo. Poi, proprio mentre tenti di abbozzare un bilancio, vedi una bambina che ha la stessa età di tua figlia e ti rendi conto che più della metà della tua vita è rimasta oltre confine. Dei tre figli, Ragip ha in mano solo una fototessera: «Vivono nascosti, la bambina ha paura ad andare a scuola».
    Davanti alle foto del padre kosovaro, ricapisci la frase di Dia: «L’uomo vive là dov’è la sua vita».
Il ragazzo senegalese, 15 anni passati in Svizzera, si commuove davanti alla telecamera di Melgar: «Non è facile essere forte». «Le monde est comme ça», «Il mondo è così», canta un suo amico suonando la kora, una sorta di liuto senegalese.
    «È dura, altroché. È veramente dura. Non è facile per noi, capisci?», gli fa eco Wandifa dal Gambia.



“Così ebrei e musulmani sono discriminati” Proposta per aggiungere Yom Kippur e Eid
Troppe feste cristiane “Cambiamo il calendario”
la Repubblica, 27-09-2013
Anais Ginori
PARIGI Il calendario francese delle festività è «troppo cristiano ». Lo sostiene, con una frase choc, uno dei membri dell’Osservatorio nazionale per la laicità. Secondo Dounia Bouzar, antropologa da poco nominata in questo organismo pubblico, la preponderanza di ricorrenze solo cristiane impedisce la giusta integrazione delle altre comunità religiose. La studiosa sottolinea la discriminazione dei fedeli non cristiani nella scansione delle vacanze programmate a scuola e negli uffici pubblici. Bouzar propone che nel calendario siano tolte due ricorrenze, per esempio Ognissanti e la Pentecoste, per sostituirle con la festa ebraica dello Yom Kippur e l’Eid, durante la quale i musulmani celebrano tradizionalmente la fine del Ramadan.
È solo una proposta, che per ora non ha molte possibilità di essere accolta dal governo. L’Osservatorio della laicità lavora a stretto contatto con il primo ministro e si occupa, tra l’altro, di vigilare sui simboli religiosi negli uffici pubblici. Il presidente dell’organismo, il socialista Jean-Louis Bianco, ha subito precisato che cambiare il calendario delle festività religiose «non è una priorità». Il governo vuole evitare nuove polemiche con la Chiesa cattolica, dopo la lunga stagione di ostilità aperta dall’approvazione del matrimonio per le coppie omosessuali.
Bouzar è nata a Grenoble da genitori algerini e pubblica da anni saggi sull’integrazione delle varie comunità religiose, soprattutto nei luoghi di lavoro. In Francia, come in Italia, il calendario delle festività è scandito sulle ricorrenze cristiane. Tutte le famiglie, ha osservato Bouzar, festeggiano Natale. «Ma dovremmo poter condividere i momenti simbolici delle altre due principali religioni del paese». Una tema complesso, che tocca nervi scoperti di chi difende le “radici cristiane” della società francese. Il ministro dell’Istruzione, Vincent Peillon, ha da poco mandato in tutte le scuole una “Carta della laicità” che ribadisce i principi della divisione tra Stato e religione secondo la legge che risale al lontano 1905.
«La Francia è stata all’avanguardia nel riconoscere la libertà religiosa e i diritti dei non credenti. Adesso il nostro paese — prosegue l’antropologa — dovrebbe continuare a essere più avanti degli altri». Negli ultimi anni, sono aumentate le rivendicazioni di alcuni gruppi, in particolare musulmani, sulla possibilità di assentarsi dal lavoro o di non mandare a scuola i figli durante le ricorrenze religiose. «Il sistematico rifiuto davanti ad alcune richieste di buon senso — nota Bouzar — non fa altro che alimentare le teorie di complotto di alcune frange più estremiste». La proposta della studiosa francese ha aperto un acceso dibattito tra i rappresentati delle varie confessioni. «Il nostro calendario delle festività è il frutto di una storia, di una cultura. È il riflesso delle radici cristiane che fanno parte del nostro patrimonio comune» ha detto Pierre-Hervé Grosjean, segretario della Commissione etica e politica della diocesi di Versailles. Molti cattolici temono un “estremismo laico” da parte della sinistra al governo. A sorpresa, l’idea di inserire l’Eid nel calendario delle festività non convince Abdallah Zekri, presidente dell’Osservatorio contro l’islamofobia, che predilige una soluzione di compromesso. «Piuttosto che sopprimere festività cristiane — dice — sarebbe meglio aggiungere due giorni per ebrei e musulmani ». Un’altra rivoluzione in nome della laicità tanto cara ai francesi non sembra alle porte. Ma se ne sentirà parlare ancora, in una società che diventa sempre più multiculturale e multireligiosa.

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