Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

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                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

05 settembre 2011

 

L’assenza delle aziende nella protesta di Nardò contro il caporalato
l'Unità, 03-09-2011
Stefano Galieni 
Non dimentichiamo quanto avvenuto a Nardò in provincia di Lecce. Per la prima volta la protesta dei braccianti immigrati si è trasformata in sciopero, per il rispetto dei contratti, contro il caporalato e lo sfruttamento. In tre mesi centinaia di lavoratori, sostenuti soprattutto dai volontari delle Brigate di solidarietà attiva e dell’Associazione Finis Terrae, hanno messo in discussione un sistema che sembrava immutabile, hanno denunciato il caporalato come reato e interloquito con le istituzioni. I tagli ai bilanci di Comune e Regione hanno impedito che il progetto, rivelatosi positivo nel 2010, potesse essere attuato anche quest’anno: minori risorse e partenza con grande ritardo. Lo sciopero è stata una vera sfida, condotta tra enormi difficoltà: minacce fisiche, indifferenza diffusa, carenza di cibo, rischio di perdere il lavoro. Quello che chiedevano i braccianti era la possibilità di essere assunti regolarmente, di non subire costrizioni e ricatti nella ricerca di un lavoro. In un clima di gravi tensioni e difficoltà si è realizzato uno straordinario salto di qualità. Le leggi che consentono a un segmento sociale, quello del lavoro migrante, di subire la più ampia ricattabilità sono state messe in discussione producendo, fra i lavoratori, consapevolezza collettiva. E questo si ripercuoterà, prevedibilmente, anche dove - in quei territori e in quei rapporti sociali - queste persone andranno a lavorare. Ma c’è stata una significativa assenza, quella delle aziende. Non si sono assunte alcuna responsabilità, non hanno investito un euro per garantire almeno la più elementare assistenza. Migranti e associazioni hanno chiesto alla prefettura di convocare le aziende per uscire dall’empasse. Risponderanno? 
 
 
 
Immigrazione: arrestati 4 scafisti dopo sbarco 30 migranti
Bloccati a largo di Mazara del Vallo
(ANSA) - MAZARA DEL VALLO (TRAPANI), 5 SET - Quattro scafisti tunisini sono stati arrestati a Mazara del Vallo dalla guardia costiera in collaborazione con la polizia, i carabinieri e la guardia di finanza. Gli indagati sono accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Avevano appena fatto sbarcare nei pressi del porto una trentina di migranti, tutti tunisini. Poi avevano ripreso il largo ma sono stati bloccati in mare dalle motovedette. Gli arrestati sono stati portati nel carcere di Marsala. I migranti nel centro di prima accoglienza di Trapani.(ANSA)
 
 
 
IMMIGRAZIONE. Parte la raccolta firme per "L'Italia sono anch'io"
Depositate le due leggi di iniziativa popolare: cittadinanza e voto alle amministrative dopo 5 anni
VITA, 05-09-2011
Col deposito in Cassazione, venerdì 2 settembre, dei testi delle due leggi di iniziativa popolare sottoscritti dagli esponenti delle organizzazioni che hanno promosso la campagna l’Italia sono anch’io, prende il via la raccolta delle firme necessarie per la consegna delle leggi in Parlamento. Ci sono sei mesi di tempo per raggiungere l’obiettivo richiesto delle 50.000 firme in calce a ciascuna delle due proposte di legge, e i promotori stanno pianificando iniziative in tutta Italia.
A Roma, nei prossimi giorni, verrà allestito un banchetto dove già hanno annunciato la loro presenza esponenti del mondo della cultura, dello spettacolo e della politica che condividono i contenuti della campagna. 
L’Italia sono anch’io è promossa, nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, da 19 organizzazioni della società civile (Acli, Arci, Asgi-Associazione studi giuridici sull’immigrazione, Caritas Italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca-Coordinamento nazionale delle comunità d’accoglienza, Comitato 1° Marzo, Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace e i diritti umani, Emmaus Italia, Fcei – Federazione Chiese Evangeliche In Italia, Fondazione Migrantes, Libera, Lunaria, Il Razzismo Brutta Storia, Rete G2 - Seconde Generazioni, Sei Ugl, Tavola della Pace, Terra del Fuoco) e dall’editore Carlo Feltrinelli. Presidente del Comitato promotore è il Sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio.
Lo scopo della campagna è riportare all’attenzione dell’opinione pubblica e del dibattito politico il tema dei diritti di cittadinanza e la possibilità per chiunque nasca o viva in Italia di partecipare alle scelte della comunità di cui fa parte.
Oggi nel nostro Paese vivono oltre 5 milioni di persone di origine straniera. Molti di loro sono bambini e ragazzi nati o cresciuti qui, che tuttavia solo al compimento del 18° anno di età si vedono riconosciuta la possibilità di ottenere la cittadinanza, iniziando nella maggior parte dei casi un lungo percorso burocratico. Questo genera disuguaglianze e ingiustizie, limita la possibilità di una piena integrazione, disattende il dettato costituzionale che stabilisce l’uguaglianza tra le persone e impegna lo Stato a rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il pieno raggiungimento.
La presentazione di due leggi di iniziativa popolare intervengono una sull’attuale normativa sulla cittadinanza, l’altra sul diritto di voto alle elezioni amministrative. La legge proposta infatti introduce lo ius soli: sono cittadini italiani i nati in Italia che abbiano almeno un genitore legalmente soggiornante, il quale ne faccia richiesta. In secondo luogo prevede che siano Italiani i nati da genitori nati in Italia, a prescindere dalla condizione giuridica di quest’ultimi. Un adulto invece potrà richiedere la cittadinanza italiana dopo 5 anni di soggiorno regolare in Italia. L'altra proposta di legge estende il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni comunali, provinciali, concernenti le città metropolitane e le Regioni anche a chi non sia cittadino italiano, quando abbia maturato cinque anni di regolare soggiorno in Italia.
Sul sito della campagna (www.litaliasonoanchio.it) sono pubblicati i testi integrali delle due proposte di legge di iniziativa popolare, altri materiali di approfondimento e gli aggiornamenti sulle iniziative.
 
 
Classe-ghetto, scontro  tra Pisapia e la Gelmini
Il sindaco di Milano: "Chiuderla perché ci sono solo stranieri è una discriminazione". Appello ai genitori della zona di San Siro a iscrivere in quella elementare i propri bambini
LA  REPUBBLICA, 04-09-2011
MILANO - Il ministero della Pubblica Istruzione, a pochi giorni dall´apertura dell´anno scolastico, ha detto no: quella classe prima non s´ha da fare. Troppo pochi gli iscritti, e soprattutto stranieri. Verranno smistati nelle scuole vicine. Ma i genitori della scuola elementare di via Paravia, quartiere San Siro ad alto tasso di immigrati, non si danno per vinti e dopo aver denunciato il ministro Gelmini per discriminazione annunciano altre iniziative e proteste. E sulla soppressione dell´unica classe prima della scuola – che mette a rischio l´esistenza stessa nei prossimi anni dell´elementare – interviene anche il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, con un appello. «È incredibile pensare di risolvere un problema di integrazione con la discriminazione, chiudendo una classe di una scuola importante dove studiano anche ragazzi italiani – ha detto Pisapia – Lancio un appello ai genitori della zona a iscrivere in quella elementare i loro bimbi in modo da risolvere il problema dal punto di vista tecnico, anche se credo sia un problema di tipo politico». 
«La decisione ministeriale è stata presa forse troppo in fretta, non si è voluto capire – ha aggiunto il vicesindaco e assessore all´Educazione Maria Grazia Guida – Avevo chiesto al ministro dell´Istruzione e al provveditore una deroga alla soglia del 30% di stranieri per quel caso. A noi non è arrivata alcuna comunicazione, abbiamo appreso la decisione dai giornali, nonostante avessimo già avviato un progetto per accorpare la scuola con una elementare comunale».
La decisione del ministero di impedire la formazione della classe è motivata con il tetto del 30 per cento di stranieri previsto dal decreto Gelmini. Ed era stata proprio la scuola di via Paravia, dove da anni i ragazzini italiani non superano il 10 per cento, ad ispirare il provvedimento varato dal ministro della Pubblica Istruzione. In una nota del Ministero si spiega che i bambini, e si parla di dieci alunni iscritti, verranno smistati perché «non si favorisce l´inserimento degli immigrati se si creano classi ghetto frequentate solo da stranieri».
In realtà gli iscritti sono 15. «Due sono italiani, tutti gli altri sono nati in Italia e qui hanno frequentato l´asilo», spiega un genitore. Già nel passato erano state organizzate iniziative per impedire lo scioglimento dell´unica prima classe: dalla manifestazione dello scorso giugno alla lettera al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Ora le famiglie si sono rivolte ai legali dell´Associazione «Avvocati per niente» contro il provvedimento ministeriale giudicato discriminatorio. «La classe sarebbe stata formata se gli alunni fossero stati tutti italiani – si legge nel ricorso urgente – Eppure il testo unico sull´immigrazione prevede che per i minori stranieri si applichino tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all´istruzione».
 
 
 
BATTAGLIE DI CIVILTA'
Ore contate per Kate: la lasceremo lapidare?
Avvenire, 04-09-2011
La sua vita, ora, è davvero appesa a un filo. E perché quel filo tenga, per vivere, Kate Omoregbe prega dalla sua cella, nel carcere calabrese di Castrovillari. Da ieri potrebbero anche lasciarle aperte, quelle sbarre. È libera, sulla carta: il tribunale di sorveglianza ha emesso un provvedimento di scarcerazione scontandole 90 giorni per buona condotta. Ma qualcuno, nella grande macchina della burocrazia, è ancora in ferie, qualcun altro non lavora il sabato: e così il provvedimento è fermo su chissà quale tavolo, lontano dalla direzione del carcere. Che, per far uscire Kate, deve aspettare.
Una fortuna, visto che la libertà per la donna nigeriana è anche una nuova, duplice condanna. All’espulsione dal nostro Paese, dove il reato per cui è stata condannata – la detenzione di droga – presuppone la revoca del permesso di soggiorno. E alla morte nel suo, dove il “reato” per cui è scappata – il rifiuto di convertirsi all’islam dal cattolicesimo e di un matrimonio combinato – presuppone la lapidazione. Leggi diverse, che nel drammatico caso di Kate sembrano volersi accordare sul più macabro dei finali. L’ultimo capitolo della vicenda sarà scritto, probabilmente, già domani. 
Non importa se una casa di accoglienza a Lodi, gestita dalle suore, sarebbe pronta a prendersi cura della donna. Non importano le due interrogazioni parlamentari presentate ai ministri dell’Interno e della Giustizia. Non importano nemmeno le 1.700 firme raccolte online da una delle maggiori associazioni mondiali americane per i diritti umani, Care 2, per la petizione da consegnare al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e i continui appelli del Movimento diritti civili, dell’amministrazione comunale di Castrovillari e di quella provinciale di Cosenza, che da oltre un mese si sono mobilitati per la vicenda. 
Il destino di Kate dipende da una sola, possibile decisione: quella del tribunale di Castrovillari (o di Cosenza) in merito al blocco del provvedimento di espulsione emesso contestualmente alla sua condanna dai giudici di Roma, nel 2008. Tale provvedimento potrebbe (e dovrebbe, in base alle norme vigenti) essere preso in forza della domanda di asilo politico avanzata dalla donna dieci giorni fa e trasmessa dalla direzione del carcere alla questura di Cosenza. «Quella domanda deve essere ancora esaminata e giudicata dall’autorità competente – spiega Franco Corbelli, leader del Movimento diritti civili – e fino ad allora Kate non può e non deve essere allontanata dall’Italia». Senza contare che il nostro Paese, in prima linea contro la pena di morte, tutela da sempre gli stranieri dall’estradizione in Paesi dove tale pena sia in vigore: «E nel caso di Kate – continua Corbelli – c’è la certezza assoluta di una condanna a morte sociale e materiale, una volta rientrata in Nigeria». Il timore è, tuttavia, che proprio quella macchina burocratica “inceppata” in questi giorni possa ricominciare a muoversi, ciecamente. 
Se così fosse, domani mattina fuori dal carcere del Pollino le forze dell’ordine potrebbero prelevare Kate e dare esecuzione al mandato di espellerla. Un’ipotesi scongiurata da più fronti, a partire dalla Comunità di Sant’Egidio, che per prima il 17 agosto scorso ha lanciato tramite Avvenire il suo appello al capo dello Stato af­finché il nostro Paese «mostri il suo livello di civiltà giuridica» e «crei vita là dove c’è solo discriminazione e morte». Parole che richiamano quelle con cui la stessa Kate si rivolse al Movimento diritti civili nella sua lettera-appello ai primi di agosto, quando per la prima volta fu resa pubblica la sua storia: «Vorrei tanto ricominciare a vivere senza paura di essere uccisa, da donna libera in uno Stato libero».
Lei, cresciuta nella città di Sokoto, al cuore della Nigeria islamica – dove, per intendersi, vige la sharia – a chi la visita nel carcere di Castrovillari continua a ripetere d’essere certa che l’Italia e il suo Paese si distinguano profondamente. Che l’Italia la salverà. Qui, d’altronde, è arrivata dieci anni fa, col solo desiderio di poter vedere Roma, la capitale di quella fede che per tutta la vita aveva dovuto nascondere. E proprio lì s’è affidata a tre connazionali che l’hanno ospitata in casa e che – questa la sua versione – usavano droga. «Ho sbagliato comunque – dice – e ho scontato il mio errore».
E mentre s’incammina verso il bar del carcere – dove la fanno lavorare tre ore al giorno visto il sua carattere mite – bisbiglia il nome della sua sorellina. È rimasta laggiù, «non la sento da quattro anni». Anche la sua vita, vorrebbe fosse salva. Ma questa è un’altra storia.
 
 
 
Adesso la politica si muove: rimarrà in Italia
Avvenire, 05-09-2011
Buone notizie, anche se non ufficiali. Nessuna dichiarazione nero su bianco, in sostanza, ma le informazioni che nella Capita­le ruotano intorno al caso di Kate fanno ben sperare. Una cosa è certa: la donna «non verrà reimbarcata su un aereo per la Nigeria lunedì», quando uscirà dal carcere. Questo non è solo improbabile, ma anche tecnicamente non fattibile, vista la complessità della situazione ed i tempi della burocrazia.
Molto più verosimile, invece, che a Castrovillari, in Calabria, lunedì la donna appena scarcerata venga portata in questura dove ribadirà la sua richiesta di asilo politico, formulata una decina di giorni fa. Tuttavia ci vorrà tempo, forse anche molte settimane, per avere un parere dalla commissione istituita ad hoc. Ai suoi membri, infatti, spetta la verifica sulla veridicità delle dichiarazioni della donna e sui reali pericoli che corre nel suo Paese. 
Nel frattempo, perciò, Kate aspetterà la risposta in un Cie (Centro di identificazione ed espulsione) o in alternativa in una struttura di accoglienza, dove potrebbe essere trasferita forse già lunedì. «Passeranno mesi, prima che si arrivi ad un accoglimento o a un rigetto della richiesta d’asilo», fanno sapere comunque gli organismi competenti. Normalmente la procedura è questa. Ma chi ha in mano le carte va an­che oltre e, pur invocando il riserbo, arriva a tratteggiare le prossime puntate della storia di Kate. Visto che la nigeriana è nel nostro Paese da anni e ha alle spalle anche una condanna non lieve, «è ipotizzabile che la sua richiesta non sia accolta». 
Ma anche in questo caso, Kate non deve temere per la sua vita, rassicurano da Roma, perché ci sono tutti gli estremi per una «protezione internazionale umanitaria ». Insomma, le potrebbe esse- re concesso un permesso di soggiorno per motivi umanitari. «L’Italia non è una nazione che rimanda a casa una donna che nel suo Paese d’origine rischia la vita e non lo faremo neanche in questo caso». Non importa, dunque, quanto sia alto questo rischio, basta solo il minimo sospetto che lei in Nigeria possa vedere minacciata la sua incolumità. Il Viminale, a quanto pare, si sta già orientando per questa soluzione, anche se per ora nessuno può dare certezze “in chiaro”. La situazione di Kate non è poi così semplice. 
Dopo una condanna a quattro anni emessa dal tribunale di Roma, avendo scontato la sua pena nel carcere calabrese di Castrovillari, è il tribunale di sorveglianza di Cosenza che dovrà rendere effettiva la sua espulsione. Ma per emettere il foglio di via, il giudice attenderà, appunto, le conclusioni della commis­sione asilo. Mentre la giustizia va avanti, anche politica, sindacato e mondo dell’associazionismo non stanno con le mani in mano. «Già martedì, alla ripresa dell’attività della Camera, farò un’interrogazione al ministro dell’Interno chiedendo di intervenire subito», spiega la deputata del Pdl Souad Sbai che ha avuto anche rassicurazioni dal governatore della Calabria, Giuseppe Scopelliti, sulla sistemazione che Kate avrà una volta uscita di cella. «Ci sono centinaia di Kate in Italia – ammette – anche se non fanno notizia, dobbiamo pensare anche a loro. Sarebbe un’ipocrisia andare ad aiutare le donne che vivono in condizioni di pericolo all’estero ed ignorare tutte quelle che abbiamo qui, in Italia».
Accanto a lei ci sono dodici parlamentari bipartisan che ancora attendono risposta a due interpellanze fatte al ministro Maroni e al neo ministro del­la Giustizia, Nitto Palma. Anche il sindacato di via Po, come la gran parte del mondo cattolico, segue con attenzione la vicenda ed è pronto ad intervenire. La prima in ordine di tempo sarà forse proprio la Cisl che lunedì tratterà il caso, portato all’attenzione dei vertici dalla segretaria confederale con delega alle politiche migratorie, Liliana Ocmin. «Cercheremo di formalizzare la nostra richiesta già domani per aiutare Kate – precisa – agendo nel modo migliore, anche senza grandi proclami, per tutelare soprattutto la ragazza». Senza dimenticare, comunque, che vanno aiutate e informate le tante donne che «vivono lo stesso dramma nell’ombra».
 
 
 
L'Italia e il destino di una donna
Dovere di civiltà
aVVENIRE, 05-09-2011
Giuseppe Anzani
Il carcere come ultimo temporaneo rifugio, le sbarre come protezione da più aspra minaccia, la sventura di una pena dolorosa (com’è doloroso il carcere da noi) come precario scampo dalla annunciata tortura della lapidazione a morte. Kate Omoregbe, la ragazza nigeriana che nella prigione di Castrovillari ha scontato la pena, viene messa in libertà. Fuori, fuori anche un po’ prima del tempo, come ha meritato la sua buona condotta; ma subito via, via di qua, via dall’Italia, sia riportata in Nigeria. 
In Nigeria Kate non ha fatto niente, è scappata per non sposare un vecchio cui l’avevano promessa, e per non cambiare fede convertendosi a forza all’islam; ma per questo, appunto, la punizione è la morte a sassate. Incivili. E noi? È pazzesco pensare che corrisponda a un meccanismo di legge nostra, cioè di nostra civiltà giuridica, consegnare questa giovane donna nelle mani del carnefice di casa sua. 
Da noi, ha pagato il suo debito secondo condanna (se debito ci fu, in quel vecchio processo per la droga che fu trovata nella casa dove abitava con altri); ma non è questo il punto. Il punto è che se il carcere espiato ce la restituisce pulita, e con il conto chiuso, cacciarla ora negli artigli d’una crudeltà ingiusta, che la uccide per una colpa inesistente, cioè per la propria libertà di fede, di dignità di donna, di diritto fondamentale alla vita, sarebbe un’infamia. Incivili, incivili noi, se teniamo così basso il nostro diritto da farne una simile arancia meccanica. Non è così, per fortuna.
 Quando la giurisprudenza affrontò le leggi che ai reati di droga avevano allacciato l’espulsione obbligatoria, i giudici mandarono gli atti alla Corte Costituzionale, e il responso fu che non era giusto, e che occorreva in concreto anche la 'pericolosità sociale'. Poi è stata la volta di leggi più aspre, e in certo modo 'colleriche', a stringer l’imbuto, come il decreto- sicurezza del 2008. Ma se la legge è fatta per l’uomo, se riflette intelligenza in luogo di insipienza, per l’uomo è civiltà trovare soluzione alle insospettate tragedie in cui ci fanno inciampare i casi infiniti della vita, in luogo di celebrare come farisaico summum jus il suicidio della giustizia. L’albero del diritto è fatto di radici, di fronde e di gemme. Non si tagliano le radici per ossequio a un ramo storto o a una gemma impura. 
L’impianto dei diritti umani vince su tutto, e su tutto vince la vita. Noi questa regola di civiltà ce l’abbiamo scritta chiara, e non solo nella tradizione, nella Costituzione, nella coscienza. Non solo nei trattati e nelle convenzioni internazionali sui rifugiati, sui richiedenti asilo. Ce l’abbiamo scritta per espresso nell’art. 17 di una legge del 1998 (n.40), che testualmente sancisce il divieto assoluto di espulsione o di respingimento «verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali».
La legge è conosciuta come legge 'Turco-Napolitano'. Sì, ha questo nome. L’appello a Napolitano che si può firmare su internet, e che è petizione per la vita di Kate, è insieme un promemoria per la civiltà e la giustizia che fu promessa. Lui è un buon garante, la nostra legge può dare salvezza.
 
 
 
Strauss-Kahn, Polanski e le donne Conflitto culturale o abuso di potere? 
IAN BURUMA
Corriere della Sera, 05-09-2011
Molti sono ancora convinti che gli attentati dell'11 settembre 2001 siano stati non solo atti di terrorismo politico, ma anche parte di una guerra culturale, di uno scontro di civiltà. I due elementi che più contribuiscono a infiammare gli animi nei conflitti culturali sono la religione e il sesso e in particolare il modo in cui gli uomini trattano le donne. Va da sé che tali elementi siano legati a doppio filo: la religione è usata comunemente come strumento per regolare il comportamento sessuale e i rapporti tra i sessi.
L'interpretazione culturale dell'11 settembre come uno scontro di civiltà spiega come mai molti ex simpatizzanti della sinistra si siano uniti ai conservatori adottando un atteggiamento ostile nei confronti dell'Islam. In passato, la maggior parte degli americani di sinistra avrebbe considerato la guerra in Afghanistan come un'impresa neoimperialista. Dopo l'11 settembre, però, la musica è cambiata. I talebani sottomettevano le donne, impedivano loro l'accesso all'istruzione e le costringevano a portare il burqa. Così, la guerra contro i talebani e il loro ospite, Osama Bin Laden, poteva essere interpretata come una lotta per la liberazione femminile.
In realtà, è inverosimile che il femminismo abbia influenzato in alcun modo la decisione dell'allora presidente George W. Bush di portare gli Stati Uniti in guerra. Le motivazioni di ordine culturale gli hanno tuttavia consentito di reclutare non pochi improbabili alleati.
La risposta all'11 settembre e quella alla recente vicenda che ha avuto come protagonisti Dominique Strauss-Kahn e una cameriera africana in un hotel di New York hanno ben poco in comune, con l'eccezione di un particolare: ancora una volta, il conflitto culturale è stato evocato in modo fuorviante.
Qualunque cosa sia successa tra l'ex direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi) e la sua accusatrice, il fatto che egli sia stato arrestato e costretto a sfilare davanti ai giornalisti nella veste di presunto colpevole hanno suscitato dure critiche in Francia. Secondo una di queste accuse, l'arresto di DSK è emblematico del puritanesimo americano. I francesi, secondo questo ragionamento, appartengono a una cultura latina e hanno una visione più aperta dei comportamenti sessuali. Sono più tolleranti nei confronti delle debolezze umane e hanno una concezione più raffinata dell'arte della seduzione. Di più: l'arresto di DSK era probabilmente un gesto di vendetta per la protezione concessa dalla Francia a un altro uomo accusato di reati sessuali, Roman Polanski, e per la messa al bando in quello stesso Paese del burqa. In altre parole, il caso Strauss-Kahn faceva parte di un altro scontro culturale incentrato sul sesso e, seppur solo marginalmente, sulla religione.
Uno dei problemi dell'approccio culturale è che spesso viene usato per difendere o giustificare il comportamento dei potenti nei confronti dei deboli. I talebani sono indubbiamente convinti che la sottomissione delle donne sia una prerogativa culturale, oltre che un obbligo religioso. I leader autoritari dell'Asia sono soliti sostenere che i loro Paesi siano culturalmente inadatti alla democrazia.
Persino nel più liberale Occidente — per non parlare di Paesi con tradizioni meno liberali, come il Giappone — tuttavia, la cultura va in soccorso dei potenti più spesso di quanto protegga i deboli. Sia Polanski sia DSK sono stati coinvolti in atti sessuali con donne di condizioni di gran lunga diverse dalle loro, in termini rispettivamente di età e di status sociale. Comprendere le loro «debolezze umane», dunque, significa sostanzialmente giustificare il comportamento di uomini potenti nei confronti di donne senza alcun potere.
Può darsi che le rigorose leggi in vigore negli Stati Uniti in materia di comportamento sessuale siano il riflesso di una cultura puritana, ma più probabilmente sono il risultato della diversità culturale. In una società di immigrati, i cittadini appartengono a un'ampia varietà di tradizioni e fedi religiose, con posizioni molto diverse riguardo al sesso e al ruolo delle donne. Poiché gli americani non possono fare assegnamento su usi e costumi uniformi, la legge è l'unico strumento per regolare il comportamento dei cittadini. Le società antiche hanno costumi e tradizioni, quelle moderne si affidano a tribunali e assemblee legislative.
Ma le ragioni sono anche altre. La Svezia, Paese con un grado di diversità culturale limitato, ha leggi ancora più severe di quelle statunitensi in materia di comportamento sessuale. E la Francia, sotto la vernice dell'eguaglianza repubblicana, è culturalmente ed etnicamente eterogenea.
Non ci si può aspettare che la legge risolva tutti i conflitti culturali. Essa può svolgere tuttavia un ruolo positivo come strumento di emancipazione. Nel migliore dei casi, la legge è un importante fattore di uguaglianza. La fine della tratta degli schiavi in Occidente non avvenne in seguito a una trasformazione della cultura europea, bensì grazie a un cambiamento delle leggi britanniche.
In Giappone, le molestie sessuali nei confronti delle donne vengono a volte spiegate (da maschi giapponesi) agli stranieri come un elemento della cultura nipponica. E coloro che ne sono vittime spesso le sopportano pensando che sia vero. Non v'è dubbio che molte donne afgane che portano il burqa siano altrettanto convinte che nascondere il proprio volto sia un precetto culturale e dunque un dovere naturale.
Un numero crescente di donne giapponesi, tuttavia, comincia a ribellarsi alle attenzioni indesiderate dei maschi: non rinnegando la tradizione o la cultura, ma rivolgendosi a un avvocato e sporgendo denuncia. Nel loro caso il problema non è il sesso o l'arte della seduzione, bensì l'abuso di potere. Le donne musulmane che vivono in società fortemente autoritarie non hanno in genere la possibilità di ricorrere alla tutela della legge. Gli uomini che intendono mantenere il loro controllo sulle donne continueranno senz'altro a usare la cultura e la tradizione religiosa per giustificare tale posizione di dominio. 
Sarebbe indubbiamente meglio, soprattutto per le donne, se i cittadini di Paesi come l'Afghanistan fossero uguali davanti alla legge. E se i potenti francesi smettessero di usare la «cultura latina» come pretesto per abusare di chi è socialmente inferiore.
Le soluzioni a questi problemi, tuttavia, sono di natura politica e giuridica. È per questo che DSK è stato arrestato. Quanto alle donne dei Paesi musulmani, può darsi che gli abitanti dell'Occidente non possano fare granché per garantire loro un futuro migliore. Ma è improbabile che colpendoli a suon di bombe si possa ricavare qualcosa di buono.
(traduzione di Enrico Del Sero)
 
 
 
Il cristiano che servì l'Islam 
Buttafuoco racconta il «rinnegato» Cicala, terrore del Mediterraneo 
Corriere della Sera, 05-09-2011
DARIO FERTILIO
Farà la gioia di molti psicoanalisti, oltre che di storici cinquecenteschi, il nuovo romanzo di Pietrangelo Buttafuoco. Perché Il lupo e la luna in uscita mercoledì da Bompiani (pp. 280, 17,50) inalbera dall'inizio, sul gonfalone del suo protagonista Scipione Cicalazadè, il simbolo per eccellenza dell'Es, l'istinto selvaggio che si ribella alle regole della civiltà e dell'equilibrio: appunto il lupo. Ma l'altra metà dell'endiadi, quella lunare, è parte integrante dello stesso personaggio, simbolo di un'insopprimibile aspirazione alla purezza e alla pace. 
Istinto contro ragione, ma anche violenza contro amore e islam contro cristianesimo: è forte la tentazione di stendere il protagonista di questo romanzo avventuroso, ambientato nella seconda metà del Cinquecento, sul lettino dell'analista. Magari con l'intento di sottoporre allo stesso esame anche il suo creatore, Buttafuoco, per scoprire se la sua personalità sia altrettanto divisa in due. 
Ma prima è giusto ricostruire la trama, tanto avventurosa da sembrare inverosimile (invece i libri di storia chiariscono che tutto, o quasi, è avvenuto nella realtà). Dunque, Scipione Cicala nasce a Messina nel 1552 da una nobile famiglia ligure trapiantata in Sicilia; il padre era un capitano genovese agli ordini dei Doria, la madre una turca montenegrina che aveva rinunciato alla fede originaria per amore del marito. Il giovanissimo Scipione, dapprima istruito nei valori tradizionali, viene rapito durante una scorreria dei turchi insieme al padre, ma a differenza di lui non viene rilasciato; diventa giannizzero agli ordini degli Ottomani, abiura alla sua fede per abbracciare quella musulmana, dimostrandosi poi tanto spietato, valoroso e fedele verso la nuova patria da entrare nelle grazie dell'imperatore Solimano, e da vedersi assegnare importanti compiti militari fino alla nomina a Gran Vizir. Terribile come un Gengis Khan, Scipione imperversa un po' in tutto il Mediterraneo, assalta, distrugge, impicca e saccheggia, meritandosi indubbiamente presso i cristiani il titolo di Rinnegato; allo stesso tempo, però, non riesce a cancellare del tutto la nostalgia dell'origine — soprattutto per la madre ma anche per i fratelli — e comincia a cullare dentro di sé il sogno del ritorno. Impossibile ricostruire lungo un filo unico la successione di combattimenti, vendette, nefandezze spietate, amori, tradimenti e atti eroici di coraggio dei quali Scipione, a seconda dei casi, può vantarsi o vergognarsi: basti dire che, al culmine di una cupa frenesia guerriera, lo troviamo addirittura in Transilvania, impegnato in un combattimento a corpo a corpo con lo spettro resuscitato del barone Dracula. 
Sempre accompagnato da un lupo — incarnazione non solo degli istinti ma del suo stesso destino — Scipione scende per cerchi concentrici, in volute sempre più strette, verso la città che gli ha dato i natali: finché, prima dell'ultima epica battaglia, potrà brevemente riabbracciare la madre e l'amata.
Giunti fin qui, si può osservare che la storia di Buttafuoco è di quelle che catturano perché senza tempo, proprio come i cunti, le leggende raccontate dai cantastorie siciliani alle quali esplicitamente l'autore dichiara d'ispirarsi. E se lo stile solenne e roboante dei cunti alla lunga può suonare irritante alle raffinate orecchie moderne, resta il fatto che un certo fascino sinistro presente in questa storia impone di arrivare all'ultima pagina.
Gli estimatori di Buttafuoco vi ritroveranno il tema centrale dell'islam, inteso come valore e parte integrante, nel bene e nel male, della civiltà europea. Ma soprattutto la riaffermazione — centrale già nel suo pamphlet di tre anni fa, Cabaret Voltaire — della presenza del Sacro nel mondo. In fondo, tutti i protagonisti del Lupo e la luna, che si battano dalla parte dell'impero spagnolo o di quello ottomano, lo fanno perché sospinti da una passione irrefrenabile, dal sentimento di un destino, dall'obbedienza cieca a una missione. Tutto il contrario dell'oggi, dominato dall'indifferenza morale, dall'allergia a qualsiasi fede salvo quella dell'utilità personale. 
Chi arriccia il naso di fronte al culto degli eroi, al gusto del rito cruento — magari crudele ma esteticamente seducente — difficilmente apprezzerà Il lupo e la luna. Ma Buttafuoco è abituato da sempre a schierarsi sul fronte «sbagliato»: basti pensare a quelle Uova del Drago in cui raccontava la seconda guerra mondiale in Sicilia dalla parte dei perdenti. Chi allora è stato con lui, continuerà ad esserlo.
 
 
 
"COSE DELL’ALTRO MONDO" DI FRANCESCO PATIERNO
UN’ITALIA SENZA DI LORO
Non Solo CinemA, 04-09-2011
Livio Meo
In un’imprecisata cittadina del Veneto accade un evento incredibile: improvvisamente tutti gli immigrati residenti nel Nord-Est spariscono nel nulla. Il clima fra i cittadini del borgo veneto non è mai stato dei più pacifici: continue illazioni e battute accompagnano quotidianamente atteggiamenti ancor più minacciosi nei confronti degli stranieri. Fra i principali artefici locali del clima di tensione spicca Golfetto, un ricco imprenditore che impartisce lezioni di razzismo in una trasmissione della rete televisiva di cui è proprietario. Al momento dell’inspiegabile dissolvimento degli immigrati, la comunità veneta si scopre incapace di fare a meno degli stranieri e anche Golfetto comincia a pentirsi della sua bieca condotta.
Presentato nella Sezione Controcampo Italiano della 68. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il nuovo film di Francesco Patierno è una commedia divertente e spigliata ma con un retrogusto amaro. Dopo aver fatto discutere l’opinione pubblica veneta per la raffigurazione razzista della popolazione, Cose dell’altro mondo vince la propria sfida davanti alle platee della kermesse veneziana riuscendo a strappare risate e, allo stesso tempo, facendo riflettere il pubblico su una tematica scottante e sempre attuale come quella dell’immigrazione. La costruzione narrativa della commedia è congeniata alla perfezione: Golfetto, interpretato da uno straripante Diego Abatantuono, incarna il prototipo dell’arido imprenditore di successo che si arroga il diritto di poter insultare e giudicare qualsiasi persona; Ariele e Laura sono un coppia di ex-fidanzati che si ritrova in un momento particolare della loro vita senza riuscire a cogliere l’occasione di stare di nuovo insieme. Nonostante non ne abbiano consapevolezza, la quotidianità dei protagonisti – così come quella dei loro concittadini – è totalmente dipendente da quegli extra-comunitari disprezzati o non considerati a sufficienza. L’inaspettato dileguamento degli immigrati costituirà uno scacco matto fatale per le convinzioni e per le abitudini di tutti i residenti della cittadina veneta.
L’arma vincente dell’opera di Patierno è la coraggiosa scelta di affrontare un argomento complesso e spinoso come l’immigrazione in modo ironico. Ben lontana da un’impostazione esasperante e drammatica, la pellicola scorre disinvolta mediante un tono mai serioso e pesante, arricchito dai guizzi di comicità regalati da Diego Abatantuono e Valerio Mastrandrea. L’apparenza vivace del film non deve però trarre in inganno: l’accurata descrizione della moltitudine dei personaggi crea un immediato stimolo all’immedesimazione con la figura più vicina alla propria sensibilità, rafforzando la possibilità di una riflessione personale ed intima sul tema. Nonostante le difficoltà emerse nel corso della realizzazione del film, tra le quali il noto divieto di girare a Treviso da parte del sindaco leghista Gobbo, Cose dell’altro mondo rappresenta un tentativo pienamente riuscito di coinvolgere gli spettatori a riconsiderare il proprio rapporto con il diverso mediante un avvicinamento frizzante e sincero.
 
 
 
Terraferma, applausi e accuse Crialese: errori sui clandestini
«Non ho fatto un film a tesi ma le leggi sono inadeguate» 
Corriere della Sera, 95-09-2011
Valerio Cappelli 
VENEZIA — Quasi dieci minuti di applausi e standing ovation per Terraferma, il primo film italiano in concorso (da venerdì nelle sale). Ma è un debutto tra le polemiche. C'è tensione quando a Emanuele Crialese chiedono se sul tema scivoloso degli immigrati non sia troppo politically correct. Il regista si irrigidisce: «Non ho fatto un film a tesi e non mi pongo in modo giudicante, non è un saggio di politica dell'immigrazione ma una storia sulla libertà di poter andare altrove che affronta due temi: l'accoglienza e il respingimento».
Linosa è uno scoglio giurassico che nel film resta un luogo immaginario, non identificato, dove i pesci nuotano tra le scarpe e i documenti dei clandestini che non ce l'hanno fatta. E diventa lo specchio dell'Italia di oggi, quel remoto puntino siciliano di pietra lavica in cui ognuno cerca la sua terraferma, gli isolani che vorrebbero andare via, gli africani che credono di essere arrivati e invece no. C'è una famiglia sospesa tra il vecchio e il nuovo, il nonno pescatore Mimmo Cuticchio secondo cui le cose devono restare come sono sempre state, e suo figlio Beppe Fiorello che vuol fare l'animatore turistico e cambiare vita. Nel mezzo c'è il nipote Filippo Pucillo (è il ragazzo lampedusano che Crialese ha già coinvolto in Respiro e in Nuovomondo, con cui nel 2006 vinse il Leone d'argento a Venezia). La madre è Donatella Finocchiaro che si sente prigioniera dell'isola e sogna di andare via perché con la pesca non si vive più; il tappo salta il giorno in cui sbarcano i clandestini e si trova suo malgrado a ospitare Timnit T., scappata dal suo paese con il figlio piccolo. Sul set Timnit ha rivissuto il momento più drammatico della sua vera vita: interpreta una donna scappata dalla prigione in Libia e dagli stupri, e il personaggio si impadronisce a mano a mano del suo corpo. Ecco l'incontro-scontro tra Donatella e Timnit, due donne così diverse, giovani vedove entrambe, che in fondo vogliono la stessa cosa, la possibilità di una vita diversa. «Ma la solidarietà istintiva che nasce tra loro — dice Donatella — si blocca quando i desideri di una ostacolano l'altra. Quella donna diventa un pericolo».
Beppe Fiorello (irresistibile nella scena col costume da bagno kitsch a becco di pappagallo in cui invita i turisti a tuffarsi) è riconoscente: «Crialese ha scardinato il mio stereotipo di attore di fiction, ha solo pensato che fossi la persona giusta per quel ruolo. Non capisco perché chi fa cinema può fare tv, ma chi fa tv non può fare cinema. Mi ha ridato fiducia. Senza rinnegare nulla, il sogno di ogni attore è il cinema». Donatella Finocchiaro ricorda «il silenzio e il buio assoluto, l'odore delle alghe. Mi sono risentita bambina a Catania». Ma il film, in un incontro punteggiato da applausi con la lacrima pronta della cattiva coscienza, è una nota a margine. Il tema è l'uomo di fronte al codice del mare. Se il regista sul piano dello stile si tiene lontano dall'urgenza della cronaca, quando parla finisce impigliato nella rete dell'attualità. Lui d'altra parte, pur fedele al suo stile visionario, la prende di petto nel suo film, ponendosi la domanda se salvare la gente in Italia sia proibito, adombrando il sospetto che la legge del mare e la legge dello Stato non collimino: «Il mio film non dice questo, ma solo il fatto che se si raccolgono in mare degli extracomunitari e non vengono poi denunciati alla polizia, si è accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. Ci siamo documentati. 
La risposta dello Stato è inadeguata e va contro le regole più elementari della civiltà». Forse sarebbe meglio parlare della nuova legge dell'uomo che invita a fregarsene: «Questa specie di Olocausto che succede in mezzo al mare è un grande segno di inciviltà. La realtà è che chi presta aiuto in mare può essere passibile di reato. Ci sono dei pescherecci messi sotto sequestro. Non ci rendiamo più conto delle tragedie, è un problema di rotta morale e il mio pescatore una rotta ce l'ha». 
Accanto a lui c'è Laura Boldrini, portavoce dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati: «La percezione negativa dell'immigrazione, troppo spesso coniugata alla minaccia e alla sicurezza, ha cambiato i nostri comportamenti. Tutto ciò che si fa per andare avanti, come questo film, è utile, mostra come ci si può incontrare attraverso i sentimenti. Le leggi che si sono susseguite hanno di fatto criminalizzato i clandestini». Crialese in platea chiede uno sguardo innocente: «Il mio pubblico ideale è quello di un bambino di sette anni».
 
 
 
Olanda, fa discutere il quiz con gli immigrati 'espulsi'
Trendystyle, 05-09-2011
Un gioco a premi spacca l'opinione pubblica: cattivo gusto o provocazione per riflettere?
Quattromila euro per cominciare una nuova vita. E’ questo il premio messo in palio dal quiz televisivo ‘Weg van Nederland’ (‘Via dai Paesi Bassi’, ma anche ‘Ama i Paesi Bassi’, come precisa la BBC, n.d.r.), la cui prima puntata è andata in onda giovedì scorso, portando con sé un vespaio di polemiche.
La ragione per cui questo nuovo programma televisivo è da qualche settimana al centro del dibattito nel paese dei tulipani e, ora, anche oltre i suoi confini, è che i concorrenti che vi partecipano sono degli immigrati la cui richiesta di permesso di soggiorno è stata respinta e che quindi entro pochi mesi dovranno tornare nella loro terra d’origine.
I quattromila euro promessi dalla trasmissione dovrebbero dunque rappresentare un piccolo aiuto per questi stranieri il cui destino è ormai segnato, anche se, come in tutti i quiz show, alla fine il vincitore che incassa la somma è sempre e soltanto uno, mentre gli altri concorrenti devono accontentarsi di premi di consolazione, come bulbi floreali e altri piccoli ‘gadget’.
Oltre al fatto di essere stati ‘espulsi’, i concorrenti selezionati per partecipare al programma hanno tutti un’età compresa tra i 18 e i 25 anni e presentano un alto livello di istruzione. Avendo studiato nei Paesi Bassi, ne dovrebbero conoscere molto bene la storia, la geografia, la politica e le tradizioni culturali.
La preparazione sulle caratteristiche peculiari del paese che li ha ospitati per diversi anni Рe che purtroppo dovranno lasciare entro pochi mesi Р̬ cruciale per aspirare alla vittoria del quiz show, visto che le domande vertono proprio su questo.
Suona un po’ come uno scherzo crudele: un game show che mette l’una contro l’altra persone la cui richiesta di asilo è stata respinta, in una prova sulla loro conoscenza del paese che non vuole più ospitarle, con 'il premio' di un po’ soldi in tasca in più da portare a casa dopo che il governo olandese le ha messe alla porta.
Ovviamente il programma non poteva non suscitare un acceso dibattito nell'opinione pubblica olandese ma anche in quella di altri paesi europei, poiché molti si chiedono quale sia lo scopo ultimo del programma, al di là della piccola somma che spetta al vincitore.
Alcuni pensano che si tratti di un’operazione di pessimo gusto, che mette in ridicolo un problema molto serio come quello dell’immigrazione e che gioca con la sensibilità di individui che devono accettare decisioni prese da terzi in merito alla propria vita.
Altri però ritengono che l’idea di fondo sia proprio quella di ‘scioccare’ il pubblico per suscitare una riflessione sulla situazione in cui si trovano gli 11500 immigrati irregolari che sono in attesa di essere espulsi dai Paesi Bassi, con particolare riguardo a coloro che, pur essendo giovani, molto preparati e ben integrati nella società olandese, sono comunque costretti a lasciare il paese.
Per la cronaca, la puntata ‘pilota’ dello show è stata vinta da Gulistan, una diciottenne curda la cui famiglia è fuggita dall’Armenia undici anni fa e che nel programma ha risposto correttamente a varie domande, tra cui ‘Chi è stato il primo re dei Paesi Bassi?’.
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