Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Il seme del razzismo

 

Luigi Manconi
E se la povera fantasia di una ragazza torinese, che accusa falsamente due rom di averla violentata, ci dicesse qualcosa di quanto è accaduto l’altro ieri a Firenze? Trent’anni fa, una minorenne che avesse voluto attribuire a uno sconosciuto stupratore la perdita della propria verginità, avrebbe probabilmente accusato “l’uomo nero”: predatore non identificabile tra le ombre di una via buia.
 Oggi, quell’uomo nero – nella maldestra ricostruzione di un identikit - assume le concrete fattezze, mantenendo lo stesso colore scuro, di un anonimo straniero. Trent’anni fa l’esplosione criminale di uno psicopatico si sarebbe indirizzata contro la folla indistinta  proprio perché folla, e minacciosa proprio perché estranea e non conoscibile. Oggi, il delirio paranoide dà al bersaglio della propria violenza i volti di un nemico che si avverte come tale e si teme come tale in quanto diverso (per provenienza, cultura, stile di vita). In entrambi i casi, in apparenza così lontani, c’è un terribile tratto comune: è la procedura che porta alla stigmatizzazione del capro espiatorio e alla sua pubblica esecuzione. La fragile sedicenne di Torino e l’adulto pazzoide di Firenze rispondono a un personale disturbo, dando corpo ai propri fantasmi per poi eliminarli, la prima attraverso una falsa accusa, il secondo a colpi d’arma da fuoco. Entrambi, tuttavia, utilizzano materiali che circolano nella vita quotidiana, pregiudizi condivisi, stereotipi diffusi. E ciò rimanda a due processi culturali che si sono impadroniti di una parte significativa del senso comune nazionale. Il primo: la trasformazione del diverso – straniero o zingaro – in nemico e la conseguente creazione di uno stato di allarme nei suoi confronti. Gli stranieri regolarmente residenti in Italia sono quasi cinque milioni e contribuiscono, con circa l’11% del Pil, alla produzione di ricchezza nazionale, ma restano largamente estranei alla vita sociale, costretti ai margini del sistema di cittadinanza. Il rinnovo di  un permesso di soggiorno, l’accesso ai servizi (casa, trasporti) e al lavoro, per non dire dell’ottenimento della cittadinanza italiana, corrispondono ad altrettanti percorsi faticosi e accidentati, irti di ostacoli, segnati da una lentezza che brucia le aspettative e consuma le esistenze. Ma, soprattutto, emerge l’assenza di intelligenti e razionali politiche di integrazione. Queste ultime sono affidate quasi esclusivamente a dinamiche spontanee - quali la crescente presenza dei minori stranieri nelle nostre scuole - che pure risultano spesso insufficienti. Basti pensare che al compimento dei diciotto anni, per chi ha completato un percorso di studio sono scarsissime le possibilità di rinnovare il titolo di soggiorno. Se, pertanto, l’Italia degli italiani tiene a distanza una popolazione di alcuni milioni di persone, pacifica e integrata nella stragrande maggioranza, si capisce bene come possa accadere che quegli stranieri, restati estranei e guardati con diffidenza, vengano percepiti come un  pericolo sociale. Tanto più quando la crisi economica diffonde ansia collettiva e insicurezza verso il futuro: i venditori ambulanti senegalesi possono apparire, a quel punto, un temibile fattore di concorrenza. Sul web, in queste ore, circolano le maleodoranti voci di consenso per l’ “italiano vero” che ha portato a compimento quanto una sentina di odio neofascista e razzista riproduce, quasi inevitabilmente, all’interno dei sistemi democratici. È un fenomeno pericoloso, ma contenibile attraverso i dispositivi di legge. Certamente ancor più pericoloso è quel grumo di rancore tacito, di rivalsa sociale, di risentimento e frustrazione che può indurre strati di popolazione, se non ad approvare, comunque a non ripudiare quell’azione criminale. E a ciò può contribuire un secondo processo culturale che già ha conquistato una parte della mentalità condivisa. È quello che possiamo chiamare la caduta del tabù del razzismo. Indicare nel rom il più probabile stupratore, corrisponde al diffondersi di uno stereotipo infame che, finora censurato, può oggi circolare impunemente. C’è persino una data di riferimento: è quel novembre del 2007 quando venne uccisa a Roma Giovanna Reggiani dopo essere stata abusata da un romeno. In quella circostanza, e nelle successive campagne elettorali per il Comune di Roma e per il Parlamento nazionale (2008), è come se fosse entrato in crisi quella sorta di patto civile che aveva funzionato come interdizione morale contro l’utilizzo di categorie dichiaratamente razziste nel discorso pubblico. In altri termini, salvo alcune e particolarmente vistose eccezioni, nella sfera pubblica del nostro paese, l’equazione romeno (o altra nazionalità) uguale stupratore non aveva libero corso e risultava impresentabile culturalmente e politicamente. Oggi non è più così. Tutto ciò chiama in causa le responsabilità di chi nel sistema politico (la Lega, ma non solo essa) e nel sistema dell’informazione (quanti banalizzano e sottovalutano il fenomeno) acconsente a un linguaggio fatto di semplificazioni grossolane e di allarmi xenofobici. 
Le parole sono parole e, tuttavia, talvolta possono essere pesanti come pietre. E va ricordato che, sempre, il rituale efferato del linciaggio viene preceduto dai meccanismi di degradazione della vittima. 
 
il Messaggero 15.12.2011
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